Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
L’attuale esplosione dei servizi video on line, in particolare il video on demand (oltre 3000 servizi nella sola Europa secondo un recente studio della Commissione), è frutto principalmente di due fattori.
Il primo è la crescente penetrazione di nuovi servizi e dispositivi in grado di veicolare contenuti video a richiesta e di elevata qualità, che hanno determinato un drammatico aumento del traffico sulle reti IP. Tale tendenza non accenna a rallentare. Smart TV, game console, tablet e altri apparati mobili alimenteranno la crescita di tale mercato. L’imminente commercializzazione su vasta scala di televisori Ultra HDTV (4k) rafforzerà tali tendenze.
In definitiva, se il traffico internet è destinato a crescere, a ritmi sostenuti, ciò sarà determinato principalmente dal video. Anche in Europa occidentale, secondo Cisco, il traffico internet rappresenta oltre il 50% del traffico complessivo già nel 2013. Inoltre, sempre in Europa Occidentale, il traffico video su reti mobili sarà cresciuto di quasi 20 volte tra il 2011 e il 2016, a un tasso medio annuo dell’80%, costituendo già a partire dal 2015 oltre il 50% del traffico dati mobile.
L’altro elemento è la trasformazione dell’industria cinematografica, soprattutto a livello distributivo, con la crisi dell’home video fisico (modello Blockbuster) e l’emergere di nuovi agguerriti player come Netflix e Amazon. Ciò ha aperto la strada a nuove opportunità nell’offerta di contenuti video online, collegate alla distribuzione legale a pagamento attraverso noleggio o vendita di film e di altri prodotti audiovisivi (serie TV, documentari). Si tratta di un fenomeno simile a quanto accaduto all’industria discografica con l’avvento di i-Tunes.
La tipologia dei servizi prescelta è molto diversa dal modello bundle (basic+premium) ad alto costo (dai 30-40 euro in su al mese) dei tradizionali broadcaster pay-TV europei e si basa sull’offerta a richiesta, il cosiddetto Video on Demand (VOD), prevalentemente in modalità pay-per-view o transactional (TVOD) o per abbonamento (SVOD), anche se alcuni servizi poggiano su sistemi di remunerazione basati solo sulla pubblicità (AVOD) o misti (Freemium) .
Questi nuovi attori fanno leva sulla massa critica di utenti raggiunta grazie all’attività originaria su internet e beneficiano così di esternalità di rete per espandersi nel nuovo mondo connesso dei contenuti. iTunes ha iniziato a rivolgersi agli amanti della musica, che la ascoltano tramite dispositivi Apple, e oggi è diventato uno dei negozi di contenuti digitali più visitato al mondo.
Amazon pratica e-commerce, vendendo inizialmente libri, ma dal 2008 ha iniziato a offrire film e video in streaming sotto il marchio Amazon Instant Video Prime; inoltre, agli utenti del programma di fidelizzazione Amazon Prime garantisce la spedizione gratuita degli articoli acquistati online dietro pagamento di un canone di abbonamento annuale di $79.
La stessa Netflix distribuisce il proprio servizio Watch Instantly a numerosissimi dispositivi, tra cui Xbox 360, Nintendo Wii, PS3 della Sony, lettori Blu-ray e televisori Sony, LG, Panasonic, Insigna, Philips, Pioneer, Samsung, Toshiba, Yamaha, Vizio, l’iPhone, l’iPad, etc.
Ciò che distingue al proprio interno questi operatori è soprattutto il modello di business, nel quale sembra emergere l’abbonamento SVOD, a costi molto bassi (dai 7 ai 10 euro mensili), ritenuto dal consumatore più conveniente ed efficiente dell’acquisto del singolo contenuto, spesso a impulso, del TVOD.
Se dunque contenuti legali e modelli di business cominciano a delinearsi, la loro possibilità di competere soprattutto in Europa con gli operatori pay consolidati e sottrarre loro abbonati – il cosiddetto cord cutting – è condizionato all’accesso illimitato ai contenuti premium, che spesso sono controllati dai broadcaster e che, in tutti i casi, si rivelano troppo costosi (minimi garantiti o margini bassi sul revenue sharing). Alcuni di loro stanno quindi puntando sulla produzione di contenuti originali (vedi House of Cards di Netflix), anche se i loro investimenti, pur sempre significativi, costituiscono ancora una percentuale bassa sui ricavi, soprattutto in confronto alla capacità di spesa dei broadcaster.
Se guardiamo a un processo che negli USA si è naturalmente manifestato con molto anticipo, va sottolineato come l’anno chiave del cambiamento sia stato il 2011, quando i ricavi da SVOD, che valevano 4,3 milioni nel 2010, sono cresciuti di oltre il 10.000%, raggiungendo $454 milioni. Di conseguenza, lo SVOD è diventato dal 2011 il segmento più importante del mercato del video on demand, superando il transactional VOD (quello di iTunes, che si fa pagare il noleggio di ogni singolo film).
Due le motivazioni di questo successo: prima tra tutte, la decisone di Netflix di iniziare a farsi pagare direttamente l’accesso online e, in secondo luogo, la crescita degli utenti che usano la banda larga. Si è trattato di un cambiamento epocale nel modo in cui i consumatori pagano per fruire di film online.
Negli USA la popolarità dei servizi SVOD ha ormai raggiunto la pay-TV, i cui abbonati sono diminuiti negli ultimi due anni. Si tratta di un abbandono della pay-TV tradizionale legato al cord cutting, mentre i servizi SVOD tentano di imporsi al pari di canali premium, con contenuti originali ed esclusive.
In questo senso la grande attrattività delle serie rispetto ai film e gli investimenti in produzioni proprie (vedi serie di successo internazionale come House of Cards) e l’ingresso nella produzione e distribuzione di programmi in Ultra HD segnano un ulteriore step nel confronto diretto e serrato con gli operatori pay, i quali a loro volta rispondono con accordi, fusioni e acquisizioni miliardarie, quali quelle tra Comcast e Warner e AT&T e Direct TV.
L’evoluzione del mercato verso il modello SVOD pone automaticamente Netflix in posizione dominante. Netflix è il leader di mercato, con 30 milioni di abbonati, seguito, a distanza, da Hulu e Amazon, considerati anche come servizi secondari, in aggiunta a Netflix.
Netflix sta cercando ora di trasferire questo suo potere di mercato anche in Europa, dove la competizione con Amazon e con i broadcaster appare oltremodo accesa e destinata ad allargarsi nei prossimi mesi. Basti considerare che in Europa Netflix, a due anni dal lancio, rappresenta oltre il 20% del traffico downstream su alcune reti nel Regno Unito. Netflix ha impiegato quasi quattro anni per raggiungere la stessa proporzione di traffico negli Stati Uniti.
In Europa, a fine 2013, lo streaming audio-video è la prima categoria di traffico. In down streaming, rappresenta oltre il 47% in orario di punta, +7,4% rispetto al 40% del primo semestre dell’anno. Tuttavia questa percentuale varia nei diversi paesi, tra il 35% fino a oltre il 60% del traffico downstream. Questa fluttuazione è dovuta principalmente alla presenza di servizi video OTT nei vari mercati. I paesi in cui sono operativi Netflix e Lovefilm/Amazon hanno quote maggiori di traffico legato allo streaming audio e video.
Di fronte alla sfida dei giganti del web la questione chiave per l’industria dei contenuti europea, e per i broadcaster in particolare, che detengono le principali leve economiche e le maggiori quote di mercato in Europa nel settore audiovisivo, è di come impedire il ripetersi dell’effetto distruttivo che si è verificato in altri settori dei media (vedi discografia ed editoria) e trovare dunque il modo migliore per combattere i nuovi entranti nell’ambito del proprio territorio.
I broadcaster pay-TV, maggiormente soggetti alla competizione sui prezzi, stanno adottando una duplice strategia. La prima, utilizzata in una prima fase in maniera prevalentemente difensiva, si basa sullo sviluppo della social TV e degli schermi secondari. La monetizzazione non è molto chiara perché inizialmente - vedi Sky Go e Sky On Demand - i servizi vengono offerti ai soli abbonati alla pay-TV, gratuitamente, allo scopo di fidelizzarli e ridurre il tasso di abbandono (cord cutting).
La monetizzazione tramite pubblicità al contempo non è sostenibile, anche perchè la correlazione tra attività sui social network, ascolti e ricavi da pubblicità tradizionale si è dimostrata finora più complicata del previsto.
Una seconda strategia, ben più aggressiva e rischiosa, consiste nell’offrire servizi “stand alone”, che competono direttamente con Netflix e soci, svincolando questi contenuti (per lo più film e serie) dal servizio principale dell’operatore, mettendolo quindi a disposizione senza dover sottoscrivere un abbonamento bundle. Chi ha intrapreso quest’avventura lo ha fatto con cautela: tanto BSkyB in Uk con Now TV e più di recente in Italia con Sky online, quanto MTG, con Viaplay, hanno mantenuto inizialmente i prezzi del servizio OTT a un prezzo intermedio rispetto all’accesso agli stessi contenuti sulla piattaforma principale, in modo da non cannibalizzare eccessivamente gli abbonamenti tradizionali, assai più redditizi.
Questa tipologia di servizi, ormai presenti in tutte le esperienze nazionali, si rivolge a quella parte del pubblico tuttora maggioritario, che non vuole vincolarsi con un abbonamento, ma desidera un accesso meno costoso a contenuti selezionati d’intrattenimento.
Per gli operatori dunque, ormai consapevoli della saturazione del mercato broadcast, la sfida si gioca dunque sulla qualità dei contenuti messi a disposizione, di cui dispongono ancora di ampie esclusive, e della necessità di tenere un prezzo competitivo con gli operatori di VOD web nativi e, al contempo, distinto su tutte le piattaforme. Ciò per valorizzare al massimo la propria offerta e i contenuti premium di cui dispongono, evitando di cannibalizzare il proprio core business, così da scongiurare il rischio che gli abbonati abbandonino la piattaforma principale per il servizio OTT del rivale (cord cutting) o perché il proprio servizio OTT è più conveniente rispetto a quello broadcast (cord shaving).
Trasferito alla situazione italiana, i broadcaster nazionali (Sky e Mediaset in primis), ma anche i servizi OTT puri come Chili e TIM Vision, possono ancora trarre vantaggio dall’assenza di grossi competitor internazionali, Netflix in primis, sia per l’incertezza del quadro economico, sia per l’ancora scarsa presenza di banda larga, per mettere a punto strategie d’ingresso sul mercato, senza scontare i ritardi verificatisi in altre realtà (USA e Regno Unito su tutti). I tempi però sono stretti e tra qualche mese il contesto competitivo rischia di essere meno stabile e comunque radicalmente diverso da quello attuale.
Via Agenda Digitale
Ancora non buone notizie per il social commerce: se i recenti numeri di Capgemini disegnano un panorama in cui i social media sono visti come una componente meno importante del percorso di acquisto rispetto a due anni fa, anche e-Marketer, riportando dati di Harris Poll per DigitasLBi sul mercato Usa, non fornisce dati confortanti. A dispetto degli sforzi dei colossi, l’ultimo quello di Twitter che ha aggiunto il tasto buy ai Tweet, non sono molti gli utenti americani che compiono l’ultimo passo verso il social-acquisto: al momento solo il 5% degli utenti Internet adulti ha fatto un acquisto su un social network come Facebook, Twitter o Pinterest. Secondo i ricercatori però, questi dati rivelano ”l‘enorme potenziale inutilizzato di crescita che c’è nel commercio social, soprattutto tra i consumatori più giovani“, spiega Tony Weisman, CEO, DigitasLBi Nord America. “Il 5% di americani che hanno effettuato un acquisto su un sito di social media equivale a circa 14 miliardi di dollari di fatturato di vendita al dettaglio on-line. Se saremo in grado di raggiungere il 20%, la cifra scalerebbe a 56 miliardi dollari. Per attivare questo potenziale, i marchi e le reti sociali hanno bisogno di fornire esperienze di social shopping che soddisfino le esigenze dei consumatori, compresa la sicurezza sui dati finanziari, privacy, e un processo di acquisto senza soluzione di continuità.”
Infatti sulla base della ricerca, migliori misure di sicurezza potrebbero motivare i social networker ad acquistare attraverso i social: il 42% degli utenti ha dichiarato che sarebbe più propenso a fare un acquisto se sapesse che le informazioni di credito sono sicure, mentre il 38% dichiara che avere la certezza che gli acquisti non sarebbero condivisi, farebbe aumentare la probabilità di portare a termine l’operazione. Eppure, a sottolineare estrema “mobilità” sul tema anche da parte degli acquirenti, nonostante molti mostrino un desiderio di sicurezza, circa un quarto degli intervistati ha dichiarato che non avrebbe problemi a comprare pur sapendo che il brand in questione potrebbe conoscere e tracciare la loro storia d’acquisto.
Età del campione e prezzo dei prodotti papabili sono gli altri due ambiti di riflessione su cui si sofferma la ricerca: i giovani tra i 18 e i 34 anni sono quelli più propensi a fare un acquisto attraverso social media anche rispetto ai 35enni (11% contro il 3%, rispettivamente.) Sul fronte prezzi, un terzo degli intervistati si dichiara disponibile a fare un acquisto se il totale dello shopping non superasse i 25 dollari e ulteriori risposte indicano che il costo sicuramente ha un’influenza elevata nella motivazione o meno alla spesa: il 35% sarebbe disposto ad utilizzare un hashtag se ciò significasse ottenere uno sconto.
Via Tech Economy
In rete 28 milioni di connazionali, ma connessi per più tempo. Il mobile domina col 58,5% delle sessioni. Quasi due ore al giorno in rete per i giovani tra i 18 e i 24 anni Leggera ma sorprendente la flessione degli italiani connessi a Internet nel mese di giugno: sono stati 28 milioni i connazionali online, in calo rispetto ai 28,2 di maggio secondo i dati Audiweb. Aumenta, però, il tempo trascorso in rete: la media parla di 43 ore e 9 minuti a persona, in netta ascesa in confronto alle 39 ore e 25 minuti pro capite del mese precedente. Dominano il panorama i device mobili con 17,2 milioni di utenti, una media di 41 ore e 3 minuti e una percentuale del 58,5% delle connessioni totali. Guardando nello specifico, si può dire che 15 milioni di italiani tra i 18 e i 74 anni passano in media oltre un'ora e mezza in rete da smartphone o tablet. Se nel giorno medio si connettono 11,3 milioni di uomini e 9,3 milioni di donne (20,6 milioni in totale), le sessioni al femminile superano quelle al maschile per durata: 44 ore al mese (38 per i maschi) e un'ota e 41 ogni 24 (un'ora e 29 al maschile). A influenzare le statistiche sono naturalmente i giovani tra i 18 e i 24 anni, connessi da mobile per 54 ore al mese e quasi due ore di media al giorno.
Via Business People
L’Osservatorio Brands & Social Media, realizzato da OssCom - Centro di ricerca sui media e la comunicazione dell’Università Cattolica - e Digital PR, pubblica il sesto report, dedicato al settore della Grande Distribuzione Organizzata (GDO) e non specializzata. Venti i brand analizzati, selezionati fra i principali all’interno del mercato consumer italiano.
Leader di classifica è Carrefour, con 55,2 punti, seguito a distanza da Lidl con 43,1 punti e Coop con 38,7 punti. All’interno della classifica il settore presenta alcuni brand che spiccano per un uso attivo dei social media (Carrefour, Lidl, Coop ma anche Iper), con una coda lunga di molti brand che non riescono a superare i 30 punti, a segnalare uno scarso investimento da parte della GDO in questi ambienti comunicativi. La piattaforma che domina è Facebook, mentre sia Twitter che YouTube non paiono luoghi dove i brand riescono a esprimersi e connettersi con i propri consumatori. Da rilevare, invece, una diffusa tendenza a utilizzare le applicazioni per smartphone e tablet, offrendo servizi di geolocalizzazione e informazione sui punti vendita, ma anche cataloghi di prodotto, nella maggior parte dei casi in forma di volantini digitali, e funzioni di lista della spesa virtuale o di consultazione dei dati della propria carta fedeltà.
Carrefour guida la classifica grazie a un presidio intensivo di tutte e tre le piattaforme su cui è presente il brand (Facebook, Twitter e YouTube), sfruttando anche quegli eventi, come i Mondiali di calcio, in grado di coinvolgere un ampio pubblico per proporre offerte speciali e contenuti ad hoc. Dal punto di vista dell’interazione, i profili registrano un numero molto elevato di commenti, condivisioni e like. Lo stesso si può dire di Twitter, che registra un numero di retweet mediamente molto elevato rispetto agli altri brand, mentre YouTube viene presidiato in modo costante, aggiornando frequentemente i video. Carrefour sembra quindi in grado di sfruttare i social media senza relegarne nessuno allo status di vetrina, anche in assenza di un adattamento forte dei contenuti alle specificità di ogni piattaforma.
Seconda in classifica Lidl, che eccelle nel presidiare Facebook grazie a un’interazione molto elevata sia in termini di like che di commenti. Mentre YouTube appare come un archivio di contenuti ancora da sfruttare appieno, il presidio intensivo del più diffuso Facebook e le elevatissime performance ottenute sono in grado di far emergere il brand come una delle community di utenti più attive: si assiste infatti sia a una risposta frequente degli utenti alle domande e agli stimoli anche ludici del brand, sia a un’intensa relazione tra gli utenti stessi.
Primo tra i marchi nazionali e terzo nella classifica generale, Coop è una delle poche grandi realtà di questo campione che dimostra di avere una comunicazione strutturata. Il brand pubblica post a cadenza quasi quotidiana e interviene frequentemente nelle conversazioni. I contenuti vertono meno sulla promozione di prodotto e più sulla tematizzazione della comunicazione: dalle iniziative ecologiche e sociali alla celebrazione di eventi nazionali. Da sottolineare anche un uso peculiare di Twitter, che, nel periodo di analisi, vede il brand più come osservatore e amplificatore dei contenuti proposti dagli utenti. Oltre che per la coerenza complessiva della comunicazione, Coop eccelle sulla piattaforma video di YouTube attraverso contenuti ad hoc, come le video pillole e il coinvolgimento degli utenti intervistati per la campagna promozionale in corso.
"Rispetto a tutti i settori analizzati fino a oggi, la GDO si presenta peculiare per due ordini di motivi: da una parte per l’uso di un numero molto ridotto di piattaforme, ascrivibile alla necessità di raggiungere un target nazionale o locale ampio e generalista di consumatori, dall’altra per un utilizzo spiccato del mobile che consente ai marchi di rimanere sempre connessi con gli utenti-consumatori - spiega Piermarco Aroldi, direttore di OssCom -. La diversità delle performance ottenute tuttavia, non si spiega soltanto con la diversità dei mercati di riferimento, ad esempio nei casi di catene più legate alla dimensione locale, ma anche con la capacità di adattare la propria comunicazione alle forme e logiche di queste piattaforme”.
“Quello della GDO - dichiara Nicolò Michetti – è un settore che mostra ampi margini di crescita e sviluppo nella comunicazione con i social media. Le opportunità di connessione offerte sono molteplici, e alcuni brand si dimostrano particolarmente attivi e capaci di sfruttarle; restano tuttavia molti marchi, come Esselunga, Famila, A&O, PAM e Sisa, solo per citarne alcuni, che potrebbero presidiare in modo efficace queste piattaforme, attuando strategie che siano in grado di coinvolgere gli utenti per formare comunità di consumatori che si scambiano informazioni e consigli sui prodotti e sulle offerte all’interno degli spazi della marca.”
La ricerca, che si propone di analizzare la comunicazione sui social media di alcuni dei più rilevanti brand nazionali e internazionali presenti sul mercato italiano, si avvale di una metodologia in grado di cogliere con precisione uno scenario comunicativo dinamico e sempre in evoluzione grazie a più di 60 diversi indicatori relativi alle variabili di esposizione, di coerenza e di interazione con il pubblico. Per questo report il campione dei brand della GDO più rilevanti sul mercato italiano è stato definito a partire dai fatturati dei maggiori gruppi, selezionando all’interno dei principali gruppi quei marchi con almeno un profilo ufficiale sui social media. La rilevazione dei dati è relativa al mese di maggio 2014 e sono stati analizzati i profili rivolti al mercato italiano.
Via iPress
Facebook ha nuovamente messo mano alla propria home page: il social network sta provando da diverso tempo a raggiungere un equilibrio nel sistema di selezione dei contenuti condivisi sulla sua piattaforma che sia in grado di porre sempre davanti agli occhi degli utenti i contenuti più interessanti o in grado di farli partecipare in modo più attivo.
Il nodo della questione è l'algoritmo di gestione delle notizie che appaiono sulle bacheche dei propri amici: da ultimo il social network era intervenuto per limitare l'impatto in bacheca dei cosiddetti link mangia-click, prima ancora mettendo in evidenza notizie e discussioni.
L'ultimo intervento sembra guardare ai racconti in tempo reale: per favorire la condivisione di contenuti d'attualità, Facebook ha scelto di mettere in evidenza nel news feed degli utenti tutti quei post legati ad eventi specifici, rilevanti o in diretta. Una mossa che a prima vista sembra puntare al tipo di coinvolgimento che anima utenti di Twitter, ed ai Trending Topic.
Per farlo, Facebook darà ai post un'importanza variabile nel tempo, a seconda del numero di persone che sta commentando o condividendo notizie sul medesimo argomento e a seconda dei tempi per cui l'argomento sa tenere banco. In pratica, se l'attenzione su un argomento scema, l'algoritmo del social network dedurrà che non è più così importante e ne diminuirà la rilevanza e il conseguente posizionamento nei news feed.
Via Punto Informatico
In 7 milioni guidano ancora la macchina e più di 5 frequentano locali di intrattenimento. Quelli che fanno attività fisica o vanno abitualmente in palestra invece, sono circa 3,7 milioni, l’equivalente della popolazione di uno Stato come l’Albania o la Bosnia Erzegovina. Senza dimenticare che, a navigare abitualmente su Internet, secondo le stime più accreditate, sono circa 1,5 milioni. Si tratta di un esercito di italiani che consumano molto, conducono un’esistenza abbastanza agiata e hanno una particolarità in comune: sono anziani ultra 65enni che, proprio per il loro stile di vita, oggi non sembrano affatto disposti a farsi chiamare vecchi. Altro che rottamazione. Oggi, nel nostro Paese, ci sono ben 13 milioni di persone con i capelli bianchi che, per il sistema economico nazionale, rappresentano una risorsa preziosissima. A parte qualche acciacco stanno relativamente bene di salute, vanno a fare la spesa tutti i giorni e sono dei consumatori con molti più soldi da spendere rispetto ai giovani. Per rendersene conto, basta analizzare i dati elaborati dal Censis e dalla Fondazione Generali, secondo cui la ricchezza media delle famiglie anziane è cresciuta complessivamente di quasi il 118% negli ultimi 20 anni, contro il 56% del resto della popolazione. In media, una famiglia capeggiata dagli over 65 ha una disponibilità complessiva di 273 mila euro e, nel 79% dei casi, è anche proprietaria di un immobile. Inoltre, le risorse che ogni anno vengono trasferite dalle famiglie più mature per sostenere le più giovani sono pari a circa 5,4 miliardi di euro, quasi lo 0,3% del pil. Probabilmente, se non ci fosse stata questa “forza tranquilla” che ha mantenuto in piedi il Paese, negli anni più bui della crisi economica il tessuto socio-demografico italiano avrebbe rischiato davvero di sfilacciarsi. Allora, smettiamola di guardare agli anziani come a un problema. Molte imprese, almeno le più lungimiranti, l’hanno capito e li reputano clienti da coccolare e attirare il più possibile.
I PUNTI DI FORZA A spingere le aziende verso queste politiche a favore dei più maturi non è soltanto un atteggiamento benevolente verso la terza età. Alla base di queste scelte, c’è una buona dose di realismo e di lungimiranza, che parte dall’analisi di un dato di fatto: secondo le proiezioni demografiche, entro il 2050 la quota di popolazione mondiale anziana raddoppierà (passando dall’11% attuale al 22%), Inoltre, già nel prossimo quinquennio, il numero di ultra 65enni supererà in tutto il pianeta quello dei bambini con meno di cinque anni. Al contempo, il miglioramento delle condizioni di salute sta per fortuna assegnando agli anziani un ruolo più attivo nella società. Sarà per questo che le case d’investimento internazionali, abituate a fiutare per tempo gli affari, hanno già cominciato ad analizzare il fenomeno del global ageing, cioè l’aumento dell’età media della popolazione mondiale e le sue ricadute sul sistema economico e sui consumi. Gli analisti di Morgan Stanley, per esempio, hanno individuato una decina di aziende che hanno buone chance di macinare ricavi e profitti nei decenni a venire, proprio grazie a questa tendenza. Tra i nomi individuati dagli esperti della casa d’affari Usa ci sono imprese specializzate nella produzione di beni e servizi destinati in prevalenza a chi ha i capelli bianchi. È il caso dell’italiana Luxottica (leader dell’occhialeria), della svedese Sca (articoli sanitari), della tedesca Deutsche Wohnen (case di riposo) o della danese Gn Store Nord (protesi ortopediche). Morgan Stanley, tuttavia, ha indicato anche aziende che, pur non offrendo prodotti specificamente pensati per i consumatori anziani, stanno dimostrando di saper cavalcare per tempo l’onda lunga del global ageing. Tra queste, c’è per esempio Mark & Spencer, una delle maggiori catene di distribuzione nel Regno Unito che, rispetto ai competitor, oggi dispone di un’ampia gamma di prodotti per la clientela più matura. Stesso discorso per una multinazionale come Philips e per la compagnia di crociere Carnival, il cui fatturato è legato ormai per quasi un quarto al fenomeno del global ageing. Gli anziani che hanno abbastanza soldi da spendere, infatti, amano spesso goderseli in qualche vacanza rilassante sul mare, invece che passare le giornate sulle panchine dei giardinetti. Chi lo ha intuito per tempo, sarà dunque in grado di fare buoni affari in futuro.
RITORNO AL LAVORO Lo scenario appena delineato nel mondo dei consumi si apre, però, anche nel campo del lavoro e delle professioni. Lo sa bene Wilfried Porth, a capo delle risorse umane della casa automobilistica Daimler che, nei mesi scorsi, ha offerto un contratto di consulenza, ad almeno un centinaio di “arzilli vecchietti”, tra cui c’è anche un 75enne. Sono i pensionati che Daimler ha richiamato in servizio nell’ambito del progetto Space Cowboy, che prende il nome da un film di Clint Eastwood, in cui un gruppo di ex piloti della Nasa, tutti ultrasessantenni, viene rispedito in una nuova missione. Come gli astronauti del film, i pensionati della Daimler sono tornati in servizio perché l’azienda ha fortemente bisogno di loro, essendo gli unici conoscitori dei segreti di alcuni vecchi software che stanno alla base dei sistemi di automazione industriale del gruppo Daimler. Oggi, dunque, anche nel mondo del lavoro come in quello dei consumi, gli anziani sono una risorsa. Per questo molte aziende, per non trovarsi un giorno a rimpiangere le doti professionali dei vecchi dipendenti, hanno dato vita da tempo a piani di age management, che si concretizzano in una serie di programmi volti a valorizzare le competenze dei lavoratori in età avanzata e a trasferirle ai loro colleghi giovani.
MAESTRI DEI MESTIERI Nella multiutility bolognese Hera, per esempio, da ormai dieci anni esiste la Scuola dei mestieri, un sistema di formazione professionale interna, che favorisce la condivisione del patrimonio di esperienze che i lavoratori meno giovani si portano appresso. Sempre nel gruppo Hera, esiste da tre anni il progetto di ricerca GenerAzioni, che ha lo scopo di indagare come cambiano le esigenze dei dipendenti all’interno dell’organico, in relazione all’avanzare dell’età. Quello dell’azienda bolognese, però, non è l’unico caso in cui si guarda con interesse alla popolazione aziendale con i capelli bianchi. Anche il gruppo marchigiano Loccioni, specializzato nei sistemi per il miglioramento della qualità dei prodotti e dei processi produttivi, ha dato vita a esperienze analoghe. Dentro l’azienda, infatti, è stata creata una Silverzone, cioè una comunità virtuale in cui ricercatori, consulenti, professori e manager – ma anche molti ex dipendenti – mettono a disposizione delle generazioni future il proprio patrimonio di competenze. All’Atm di Milano, la compagnia dei trasporti della città, dove il 27% dei lavoratori è rappresentato da over 50, nel 2012 è partito invece il progetto Maestri di mestiere. Si tratta di un programma di gestione delle risorse umane che ha lo scopo di offrire una formazione professionale di qualità ai neoassunti, utilizzando proprio le competenze di alcuni colleghi più anziani che hanno più di 50 anni di età e hanno dimostrato, nel corso di tutta la carriera, spiccate doti professionali e un forte attaccamento all’azienda.
IMPRESE A MISURA DI “DIVERSAMENTE GIOVANI” Ma non è soltanto nelle attività di formazione che i lavoratori anziani diventano protagonisti. Spesso, con l’avanzare dell’età media dei dipendenti, le imprese cominciano a ripensare i propri processi produttivi, le politiche retributive e anche l’ergonomia degli spazi aziendali, per aumentarne il comfort e renderli più adatti alle esigenze del personale. Su tutti questi fronti, molte esperienze interessanti sono state messe in atto da società estere, in particolare nel Nord Europa. In un’analisi di Paola Ellero e Adelina Brizio, ricercatrici e consulenti specializzate nel campo della formazione e della gestione del personale, vengono ricordati per esempio i casi di Asda, catena di supermercati inglese che ha ideato una serie di benefit flessibili in base all’età, come le settimane di permesso per i dipendenti che diventano nonni. C’è poi il caso di Achmea, compagnia di servizi finanziari olandese che concede ai dipendenti over 40 un soggiorno di studio all’estero (interamente pagato) di dieci giorni all’anno. Senza dimenticare l’esperienza Société Electrique de l’Our, la maggiore azienda energetica del Lussemburgo che ha ristrutturato completamente i propri ambienti in modo da renderli più accessibili e fruibili anche per quei dipendenti che hanno capacità produttive un po’ ridotte, proprio a causa dell’età. La lista di buone pratiche citate da Ellero e Brizio, però, non finisce qui e comprende molti altri programmi specificamente ideati per la gestione del personale anziano. A realizzarli sono stati spesso grandi nomi dell’industria mondiale come Michelin, la compagnia aerea tedesca Lufthansa o Citibank International, colosso finanziario statunitense che, nella sua filiale greca, offre periodi di ferie crescenti con l’avanzare dell’età.
Via Business People
L’industria editoriale è nel pieno di un cambiamento strutturale che ne sta rivoluzionando completamente i modelli di business. Il driver di questo cambiamento è l’incredibile spinta che l’innovazione tecnologica sta portando nel settore dei media, rendendo disponibili nuovi prodotti, servizi e applicazioni ad un ritmo sempre più veloce e provocando delle radicali modifiche alle abitudini di lettura.
Il mercato dell’informazione è una delle vittime di quello che Jeremy Rifkin: nel suo ultimo libro ha definito il “fenomeno del costo marginale zero” ovvero l’azzeramento dei costi di produzione e di distribuzione di alcuni beni e servizi dovuto alla rivoluzione tecnologica che ha spinto i costi marginali vicino allo zero e sottratto all’economia di mercato un gran numero di beni e servizi resi abbondanti e virtualmente gratuiti. Un fenomeno che ha interessato in modo dirompente il mondo della musica già all’inizio degli anni duemila con i consumatori che si sono trasformati in produttori e distributori con un meccanismo che ha favorito la realizzazione, la riproduzione e la condivisione di musica e video attraverso servizi di file sharing o piattaforme di condivisione, mettendo in crisi l’industria discografica così come ora sta mettendo in crisi il mondo dell’informazione.
L’editoria è uno dei comparti più in ritardo nello sfruttamento dei processi di digitalizzazione in corso per la sua sostanziale incapacità di cogliere le opportunità offerte dallo sviluppo tecnologico in un settore dove impattano sia gli effetti negativi della crisi strutturale legata al declino del ciclo di vita del prodotto cartaceo per quanto riguarda le diffusioni che la congiuntura macro economica per quanto riguarda i ricavi da pubblicità.
Solo lo scorso anno l’editoria italiana, quotidiana e periodica, ha perso nel suo complesso quasi 700 milioni di euro di ricavi e sebbene la carta stampata sia ancora oggi la principale fonte di ricavi delle aziende editoriali, sia in termini di vendite che di pubblicità (il 90% del fatturato di quotidiani e periodici nel 2013 deriva da prodotto cartaceo ), i ricavi sono in calo anno dopo anno. Rimandare la soluzione del problema come, in larga parte, è stato fatto fino ad oggi, si è dimostrata una scelta miope perché altri – mi riferisco agli operatori web puri – hanno saputo approfittare di questo incredibile errore strategico di valutazione sottraendo audience, risorse e fatturato agli editori tradizionali.
Occorre quindi ripensare i modelli di business editoriale, ma per farlo occorre capire come agire. E’ necessario prima di tutto risolvere il crescente squilibrio tra costi e ricavi, affrontando il tema della distribuzione, del costo del lavoro e della produttività che va rilanciata con investimenti in innovazione, nuove tecnologie e con l’aggiornamento delle competenze professionali all’interno dell’ecosistema redazionale.
Ma occorre intervenire subito, focalizzando le proprie strategie di marketing su quelli che sono i trend che non possono essere ignorati e sui quali occorre concentrare l’attenzione:
- Mobile, perché già da oggi la maggior parte del tempo di connessione avviene in mobilità, così come la ricerca di news e informazioni.
- Social, perché le piattaforme social continueranno a crescere e ad essere al centro dell’utilizzo da parte dei navigatori (sopratutto da quelli connessi in mobilità) unitamente al superamento della distinzione tra produzione e fruizione dei contenuti, favorendo ulteriormente il fenomeno dello user generated content e della sua condivisione in Rete.
- Video, perché la convergenza verso il digitale dei mezzi di comunicazione, la disponibilità di piattaforme unitamente allo sviluppo della banda larga e dell’accesso ad Internet da mobile faranno crescere sempre di più il consumo di video e il contenuto visto sarà sempre più preferito rispetto al contenuto letto.
Via Tech Economy
Il 20% delle applicazioni vengono aperte solo una volta al mese ma le persone, in generale, sono sempre più interessate. Secondo i dati Localytics, la quantità di tempo che viene trascorsa in compagnia delle app è aumentato del 21% nel corso dell’ultimo anno tanto da oltrepassare il tempo passato a navigare da desktop.
La ricerca evidenzia che:
- Il tempo complessivo speso con le app è aumentato del 21%.
Gli utenti aprono un app in media 11,5 volte al mese, rispetto alle 9,4 di un anno fa (con un aumento del 22%), mentre la durata della sessione per singola app è rimasto costante a 5,7 minuti.
- Il tempo dedicato alle app di musica è aumentato del 79%.
Il tempo per le app del settore Health & Fitness e del Social Networking è aumentato rispettivamente del 51% e 49%.
Mentre la lunghezza delle sessioni individuali per singola applicazione è rimasta relativamente costante nel corso dell’anno a 5,7 minuti, i lanci di app sono aumentati da 9,4 volte al mese a 11,5.
Le applicazioni musicali sono state le grandi vincitrici tra le app, con un aumento del 79% del tempo trascorso e un conseguente aumento di 64 minuti al mese, rispetto al 2013. La componente social, nella maggior parte delle app, fa guadagnare un valore aggiunto per l’utenza, interessata il più delle volte a condividere con i propri contatti playlist e consigli musicali. La categoria Salute e Fitness occupa il secondo posto in classifica, con un aumento del tempo trascorso pari al 51%, per una media di 22 minuti in più al mese rispetto allo scorso anno. Il miglioramento delle specifiche hardware degli smartphone, infatti, ha aumentato il potenziale dei device in fatto di monitoraggio della salute. La tendenza, quindi, sarà quella di inserire app per la salute di serie negli smartphone, in analogia a quanto previsto con i nuovi iPhone 6 e iPhone 6 Plus.
Le app dedicate al social networking hanno, invece, il maggior numero di lanci ma una bassa durata delle sessioni. Anche le app su Sport, Musica e Notizie mostrano un elevato numero di lanci, probabilmente a causa della velocità di utilizzo di tali applicazioni, ma le sessioni d’uso più lunghe sono riservate alle app musicali.
Via Tech Economy
Amazon ha finalmente introdotto il suo servizio “Login and Pay with Amazon” anche in Europa e precisamente in Inghilterra ed in Germania. “Login and Pay with Amazon” è un servizio che il colosso dell’e-commerce lanciò l’anno scorso e che consente agli esercenti che possiedono un eShop di permettere ai propri clienti di effettuare il login utilizzando il proprio account Amazon. Dunque, l’account Amazon diventa una chiave d’accesso anche per molti eShop non direttamente collegati con il gigante dell’e-commerce.Un servizio che ricorda in qualche modo quello offerto da Facebook e Google che permettono ai loro utenti di utilizzare le chiavi d’accesso dei loro account per accedere a servizi terzi. Nel caso di “Login and Pay with Amazon” si presentano due importanti vantaggi, uno per gli utenti ed uno per gli esercenti. I clienti potranno dunque contare su una migliore esperienza d’uso durante gli acquisti online. Niente nuove registrazioni ma una procedura rapida e facile utilizzando i dati registrati sui propri account Amazon. Per gli esercenti invece la possibilità di poter contare su un bacino potenziale di oltre 215 milioni di clienti Amazon.
Il servizio Login and Pay può venire utilizzato non solo dal browser dei computer ma anche da smartphone e tablet pc. Pe facilitare l’integrazione negli eShop, Amazon offre agli sviluppatori API e Widget da integrare nelle propria piattaforma di e-commerce. La qualità del servizio è sempre la stessa offerta all’interno del portale Amazon e dunque “Login and Pay with Amazon” prevede anche l’integrazione di un sistema anti fronde che aiuta gli esercenti a garantire la totale sicurezza nelle transazioni dei loro clienti. Il servizio prevede per gli esercenti una piccola tassa da pagare per ogni transazione effettuata ma nessun canone obbligatorio.
L’allargamento del servizio “Login and Pay with Amazon” anche in Europa è un’opportunità anche per Amazon di incrementare il proprio business attirando a se nuove aziende interessate ad adottare questo servizio di pagamenti. La speranza è che “Login and Pay with Amazon” dopo Germania ed Inghilterra arrivi presto anche nel resto dell’Europa, Italia compresa.
Via Webnews
Apple mira a controllare l'universo dei pagamenti mobili, diffondendoli, a scapito di Google e degli operatori mobili: grazie a un mix speciale di sicurezza e usabilità. È questa la lettura che un po' tutti gli esperti stanno dando ad Apple Pay, sistema annunciato il 9 settembre con l'iPhone 6 e l'Apple Watch. Per ora è previsto solo negli Stati Uniti (a ottobre), ma è quasi certo che il sistema arriverà in Europa e quindi (forse) anche in Italia. E sarà così: avviciniamo il nuovo iPhone (il sesto) al Pos del negoziante, poggiamo il dito sul lettore di impronte digitali integrato e usciamo, senza fare altro.
Abbiamo già pagato: con la carta di credito ospitata, in modo criptato, su un chip speciale del cellulare (il Secure Element); lo scambio di informazioni con il Pos avviene tramite onde radio (tecnologia Nfc). Ma con l'impronta digitale e Apple Pay potremo comprare anche online, al posto di digitare password o numeri di carta, come già possibile con Samsung. Certo, Apple non ha inventato nulla di nuovo. «Ma a dispetto dell'opinione comune, Apple non inventa mai un mercato. Piuttosto, si inserisce in quelli esistenti per ridefinirli, riuscendo a portarli verso il pubblico di massa», dice Ian Fogg, analista di Ihs.
È stato così con le app e gli smartphone. Forse Apple riuscirà nell'impresa anche con i pagamenti mobili di prossimità (Nfc), che finora sono rimasi in una nicchia. Gli utenti stentano ad adottarli anche negli Usa, dove c'è da tempo Google Wallet. I motivi principali, notano vari analisti (tra cui Gartner) sono due: dubbi sulla sicurezza del sistema e usabilità non eccelsa. Gli utenti cioè non colgono davvero il vantaggio a pagare in questo modo, in termini di comodità e risparmi di tempo, rispetto all'uso della carta fisica. Ecco perché Apple si focalizza su usabilità e sicurezza. Sulla prima perché fa pagare senza bisogno di app dedicate (che ci saranno ma saranno facoltative) e senza nemmeno bisogno di guardare il display (una vibrazione conferma l'avvenuto pagamento).
Sulla seconda perché Apple Pay fa tutto con crittografia e non usa mai i veri dati dell'utente. Sull'iPhone la carta è rappresentata da un Device Account Number, assegnato dal servizio, unico per ogni utente. Quando l'utente paga, viene scambiato con il Pos il Device Account Number insieme con un codice di sicurezza dinamico, specifico per quella transazione. Tecnicamente, è un «pan dinamico con tokenizzazione». Apple non ospita i dati sui propri server, a differenza di Google Wallet che usa il cloud. I servizi degli operatori mobili e le banche italiane hanno nella sim, invece, il secure element e poi fanno pagare con un'app dedicata. Di fatto però solo quest'anno i servizi arriveranno a maturità.
È recente l'arrivo di Tim Wallet e Vodafone Wallet, mentre per Wind dovremo aspettare il 2015; per 3 Italia fine anno o inizi del prossimo. Per di più, Tim Wallet funziona solo con carte di credito della banca Mediolanum e la prepagata della stessa Tim. Quello di Vodafone solo con la sua prepagata e, a breve, con Mediolanum. L'analogo servizio di Poste Italiane è vincolato ai conti Bancoposta. L'app di Intesa San Paolo funziona invece solo con le sim di Tm e di Noverca. Tutti gli attori lavorano ad accordi per ampliare il servizio a partire già dai prossimi giorni. «Bisognerà vedere l'impatto di Apple Pay sul mercato italiano e come reagiranno le banche, che hanno già investito su proprie app», dice Valeria Portale, che si occupa di pagamenti mobili presso gli Osservatori digital innovation del Politecnico di Milano. Apple Pay, a differenza di quanto si pensava, non dovrebbe scavalcare le banche: negli Usa funziona solo con le carte di credito di banche con cui Apple ha fatto accordi. «Il motivo è forse che c'è bisogno della collaborazione della banca, durante il pagamento, per confermare che il dato criptato corrisponde effettivamente a quella carta di credito», dice Portale. «Le banche italiane però non potranno opporsi al servizio di Apple, poiché grazie agli iPhone possono diffondere il nuovo metodo di pagamento», aggiunge. I principali sconfitti rischiano di essere insomma gli operatori mobili. Scontano ora di aver indugiato troppo per il lancio dei servizi, attendendo di accordarsi con le banche.
Via IlSole24Ore.com
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