Sdoganata l’importanza di essere presenti in rete, l’attenzione dei brand si è spostata sul come essere rilevanti per i propri pubblici. In questa ricerca di centralità il contenuto, oggi più che mai, è diventato la chiave per attrarre e conquistare l’attenzione scarsa delle persone. Il contenuto però può avere diverse forme, e la scelta della forma giusta non è secondaria perché, nell’attuale contesto mediale, può incidere sull’efficacia della comunicazione.
L’evoluzione dei formati mediali
Il web delle origini era fortemente limitato nella sua capacità di trasferire messaggi da un punto all’altro a causa di un’infrastruttura di rete non veloce come quella attuale. Di conseguenza i messaggi scambiati erano perlopiù testuali. All’aumentare delle capacità di banda si è creato lo spazio per contenitori e contenuti più ricchi da un punto multimediale, ma anche più densi in termini di capacità di sostenere un racconto complesso. Quindi dal testo siamo passati alle foto, all’audio, ai video, alle storie e agli oggetti tridimensionali.
Ma l’affermazione di un formato non è un processo facile o scontato. Solitamente è frutto di una battaglia per l’affermazione tra le aziende che lo propongono. Si tratta di un processo darwiniano nel quale entrano in gioco il time to market, l’entità degli investimenti in ricerca e in marketing, la capacità di tessere partnership e tanti altri elementi, che portano all’affermazione del cosiddetto “dominant design” (secondo la definizione di Utterback/Abernathy).
Il formato Story, introdotto da Snapchat nel 2013, ci ha messo tre anni prima di essere copiato dagli altri social media. Perché? Sicuramente ha inciso un elemento psicologico: l’incapacità di Zuckerberg di accettare il rifiuto di Evan Spiegel di farsi acquisire, che si è tramutata nella decisione di fargli guerraclonando la funzione più innovativa di Snapchat. E’ stata Ia scelta di Instagram a dare l’avvio alle copie successive da parte di WhatsApp, Facebook, YouTube, Twitter, LinkedIn e altri. Il format storia si è affermato anche per ragioni intrinseche ossia perché ha rappresentato una nuova specie di formato, in grado di mettere insieme semplicità di creazione, durata temporanea e ricchezza di strumenti di racconto (l’utilizzo contemporaneo, in un unico contenitore, di forme espressive già esistenti: le foto, i video, la musica, i testi, gli adesivi statici e interattivi).
Sempre nel 2013, la startup Vine, poi acquisita da Twitter, introdusse dei video di 6 secondi che giunti alla fine ripartivano da capo. In pratica delle gif, ma con la qualità dei video. Potevano essere un’idea interessante? Non sapremo mai se fallirono perché l’azienda non fu capace di sostenerne l’adozione sul mercato o se gli mancasse qualcosa per diventare il formato dominante. Quello che sappiamo è che un anno dopo, nel 2014, Alex Zhu e Luyu Yang intuirono che i video brevi potevano funzionare se avessero avuto una colonna sonora portante, se fossero durati almeno 15 secondi e se avessero reso semplice l’aggiunta di effetti particolare (filtri, transizioni o modifiche alla velocità di riproduzione). Nacque così Musical.ly, poi acquisito da Bytedance e diventato TikTok/Douyin, l’applicazione che ha reso popolare questo nuovo formato, particolarmente attrattivo per i giovani, che è stato adottato anche da altre piattaforme social.
La matrice dei formati
Oggi la tavolozza dei formati mediali è molto ampia e per l’azienda e i creator il dilemma è quali usare per raggiungere efficacemente ed efficientemente il proprio pubblico. Per catalogarli ho provato ad usare due variabili: la semplicità di realizzazione e la ricchezza di racconto che abilitano. Ovviamente entrambe le variabili possono dar luogo a scelte opinabili, ad esempio la prima può cambiare in funzione della complessità del contenuto, per cui qui ho valutato la semplicità di creazione del formato, pensando ad un contenuto semplice (su di essa incide anche l’esistenza di software di creazione gratuiti largamente utilizzati). Per quanto riguarda la ricchezza del format, l’ho valutata in relazione ai mezzi espressivi che usa, per cui quello che permette di usare solo la voce è stato considerato meno ricco di quello che permette di usare più mezzi espressivi, anche se per lo spettatore potrebbe risultare soggettivamente più coinvolgente.
In questo modo emergono quattro quadranti di un piano cartesiano che possono aiutarci a capire le caratteristiche attuali dei contenuti e dove orientare gli sforzi produttivi:
Nel quarto quadrante, in basso a destra, si collocano i formati che richiedono un minor sforzo di produzione, ma anche più limitati in termini di possibilità narrative. I social post testuali, le foto, le gif, i grafici, ma anche i formati audio, i video brevi (tipo reels e tiktok) e i blog post che possono racchiudere testi, foto e video;
Nel terzo quadrante, in basso a sinistra, quelli difficili da realizzare e ad impatto narrativo medio-basso. Non a caso sono anche quello meno utilizzati. Nella parte più alta dello spazio si posizionano i casual game brandizzati, le data visualization complesse che raccontano una storia attraverso i dati, i video a 360° che provano a dare una visione più completa di un evento, le applicazioni di realtà aumentata. Ovviamente non esistono formati difficili da realizzare e con valore narrativo basso;
Nel secondo quadrante, in alto a sinistra, i formati con grandi possibilità narrative e difficili da creare perché richiedo formazioni specifiche e attrezzature costose. Quindi i video post prodotti che possono avere una difficoltà di realizzazione variabile e quindi molto vicini al primo quadrante, i video in grafica tridimensionale fino ad arrivare alla complessità dei videogiochi e delle applicazioni per la realtà virtuale che hanno enormi potenzialità narrative ancora inespresse, anche per i brand;
Nel primo quadrante, in alto a destra, trovano posto i formati semplici da realizzare e che hanno ricche possibilità di storytelling. Al momento mancano e infatti ho posizionato storie, live, magazine e ebook nella parte più bassa, ad indicare che si fermano ad un livello di narrazione mediamente denso.
A questa fotografia statica dei formati mediali digitali, la tecnologia aggiunge un movimento che va in due direzioni e che ci può far intuire la dinamica futura che potremmo attenderci:
un movimento dal basso verso l’alto, dal terzo al secondo quadrante, che spingerà i con basse potenzialità narrative a mutare per acquisirne di nuove (o, altrimenti, a scomparire dalla tavolozza delle possibilità creative). Ad esempio la realtà aumentata che oggi viene utilizzata dai brand soprattutto per attività di “try on” (per la prova del rossetto o per maschere ed effetti in sovraimpressione) potrebbe dar luogo a racconti di marca più ricchi;
un movimento da sinistra a destra, dal secondo al primo quadrante, che spingerà i formati che ora sembrano difficili da utilizzare a diventare alla portata di un numero maggiore di persone, grazie a software no-code (che non richiedono scrittura di codice) largamente accessibili a prezzi più bassi. Ad esempio, negli scorsi anni, strumenti come Canva e Flourish hanno semplificato la realizzazione di grafiche e infografiche interattive. O, ancora, basti pensare che i video brevi di TikTok, pieni di effetti e transizioni, prima avrebbero richiesto l’uso di software professionali;
Questa matrice dei formati può essere utile ad aziende e creator per capire quali formati utilizzare in ragione dell’impegno che si vuole profondere nella loro creazione, delle risorse a disposizione e delle proprie capacità. Naturalmente non è necessario utilizzare quanti più formati possibile. Come sempre, a guidare le scelte dovrebbe essere l’obiettivo e le caratteristiche del pubblico che s’intende raggiungere, non la moda del momento.
Oggi chiunque produca contenuti in rete ha l’opportunità di trasformare la propria passione in una professione, di ottenere un reddito dalla propria attività online. A tal proposito si parla dieconomia delle passionio economia dei creator per descrivere il mercato nato attorno a questa possibilità, fatto di influencer che offrono contenuti/beni/servizi, follower che li acquistano e intermediari che rendono più agevole questa transazione. Questi intermediari possono essere aziende che nascono con questo specifico compito (Patreon, Only Fans,Cameo, …) o social media.
YouTube, già dal 2007, ha lanciato un “partner program” destinato ai videomaker più attivi e famosi, che prevede forme di “revenue sharing” ossia di condivisione di ricavi e che nel tempo si è arricchito di altre formule di monetizzazione. Negli anni successivi anche gli altri social media hanno iniziato a offrire opportunità di reddito ai creator. Tra questi spicca Twitch, piattaforma di live streaming acquisita da Amazon, che è riuscita a soffiare diverse stelle del video a YouTube proprio per la convenienza del suo programma di affiliazione. Infine Facebook e Instagram che, anche se in ritardo, hanno dalla loro parte la forza dei numeri, essendo le piattaforme più frequentate in occidente.
Le forme di monetizzazione principali
Le opzioni di monetizzazione possono essere ricomprese in queste casistiche:
Annunci: gli influencer che producono video possono guadagnare quando la piattaforma inserisce degli annunci pubblicitari all’interno dei stessi (prima, durante e dopo) o all’esterno (display ads). Nel caso di YouTube possono essere video ads (skippabili o meno), “cards” o banner che appaiono in sovraimpressione. L’inserzionista paga alla piattaforma una somma variabile per ogni 1000 visualizzazioni erogate (Cost per Mille Impression). Al creator spetta, a seconda delle regole dei vari social media, una percentuale degli introiti proporzionale al numero di visualizzazioni generate durante i suoi video. YouTube e Facebook condividono il 55% delle entrate provenienti dagli annunci.
Abbonamenti: è la formula che permette ai creator di abilitare lemembershipossia gli abbonamenti sui suoi canali. Pagando una somma mensile, l’abbonato ottiene diversi benefici: contenuti esclusivi, badge (scudetti che mostrano alla community lo status di abbonato), emoji o emotes (piccole immagini personalizzate che gli utenti usano nelle chat e che vanno a costituire una sorta di linguaggio comune condiviso). Dall’ammontare dell’abbonamento la piattaforma trattiene una percentuale (quella di YouTube è del 30%, quella di Twitch il 50%, Facebook non trattiene nulla se la transazione è fatta via web, mentre da mobile trattiene il 30%, che rappresenta il tributo dovuto agli store di Apple e Google).
Donazioni:quando un influencer riesce a creare un rapporto empatico e di fiducia con la sua community, può provare a stimolare delle donazioni. Alcuni si limitano ad esporre un link al proprio account Paypal, altri usano le funzioni native della piattaforma utilizzata.
Su YouTube, durante un live show, gli spettatori possono comprare la possibilità di mettere in evidenza il proprio commento (funzione dettaSuper Chat) o di corredarlo da un adesivo animato (Super Sticker) in modo da essere notati dal creator. Il commento verrà messo in risalto sulla parte alta della chat e vi rimarrà per un tempo variabile a seconda dell’ammontare donato. Un’altra forma di “tipping”, al momento in fase di test, sono gli “applausi” che possono essere donati anche per i video preregistrati. Hanno tagli predefiniti di 2, 5, 10, o 50 dollari.
Twitch ha una propria moneta virtuale chiamata “Bits”, rappresentata da gemme colorate. L’utente può comprare pacchetti di bits, pagando in euro, e poi li può distribuire agli streamer in chat, per incoraggiarli durante le dirette o celebrare una vittoria, scrivendo in chat (pratica del “cheering” che gli varrà l’acquisizione di un “Cheer Chat Badge”). Naturalmente, il ricevente potrà accumulare queste monete virtuali e poi ottenere il corrispettivo in valuta reale (1 centesimo per bit).
Un meccanismo simile è quello previsto da Facebook e chiamato “Stars” perché al posto delle gemme gli utenti possono comprare stelle da donare agli streamer preferiti. Chi dona riceve un badge di riconoscimento e le donazioni più cospicue vengono messe ben in evidenza nella parte bassa della chat. Un elemento di novità è la possibilità di comprare dei “virtual gifts” ossia delle animazioni che vanno a sovrapporsi, per un attimo, a tutta la chat. Dunque catturano immediatamente l’attenzione degli spettatori, ma sono anche più costose (possono costare fino a 10.000 stelle ossia 100 dollari).
Programmi Speciali
Marketplace: i grandi social player hanno lanciato in sordina alcuni programmi particolari di monetizzazione. Amazon ha esteso il suo programma di affiliazione, creando “Amazon Influencer Program”. Con esso gli influencer qualificati possono creare una vetrina personale su Amazon (con un indirizzo univoco), nella quale ospitare e raccomandare i prodotti venduti dal marketplace, in cambio di una percentuale sulle vendite.
Facebook ha lanciato il “Brand Collabs Manager” (accessibile dal Creator Studio) un modo per far incontrare aziende e influencer eligìbili (ad esempio che hanno un canale Facebook o Instagram con più di 1000 follower e un post con almeno 15000 interazioni). In pratica le aziende possono accedere ad un motore di ricerca per individuare l’influencer più adatto alla propria campagna e proporgli una partnership a pagamento (che sarà contrassegnata da una specifica etichetta a corredo del post sponsorizzato).
TikTok ha un’iniziativa simile, chiamata “Creator Marketplace”, mentre Twitch ha creato il “Bounty Program”, una sorta di marketplace che permette alle aziende di elencare delle attività desiderate e agli streamer di accettarle (le vedranno apparire nella propria dashboard). Ad esempio l’azienda può richiedere di giocare in live streaming ad un certo gioco per un’ora, in cambio di 100 dollari
Fondi speciali: alcune aziende hanno creato dei programmi di supporto per stimolare gli influencer a produrre contenuti interessanti. Il TikTok Creator Fund da 200 milioni di dollari, distribuisce denaro a seconda delle performance dei video (secondo criteri non trasparenti). YouTube e Snapchat ne hanno creati due per aumentare la creazione di video brevi, chiamati rispettivamente, Shorts e Spotlight. Pinterest e Clubhouse li hanno pensati per far emergere creator originali.
Altre forme di monetizzazione
Ci sono poi forme di monetizzazione possibili, ma non contemplate nativamente dalle piattaforme social:
Merchandising: così come quando si va al concerto è presente il banchetto con magliette e altri oggetti personalizzati, anche sui social media gli influencer possono prevedere la vendita di merchandising dalla propria pagina. Generalmente la piattaforma consente semplicemente di postare link a store di ecommerce specifici (Shopify, Teespring, Spreadshop, ecc.). Su YouTube, sono ospitati sotto i video.
Affiliazione: un altro modo per guadagnare sui social è quello di ospitare sul proprio canale dei link (tracciati) a prodotti che, se acquistati, danno diritto a ricevere una piccola percentuale. Ogni piattaforma permette di postare dei link di affiliazioni a network esterni, ma recentemente Instagram ha annunciato il test di unostrumento nativo di affiliazionecon il quale i creator potranno scoprire nuovi prodotti disponibili per l’acquisto, condividerli con i propri follower e ottenere una commissione.
Nei prossimi mesi i social media non potranno far altro che potenziare le funzioni di monetizzazione perché esse diventeranno un esca molto rilevante per spingere i creator più popolari a scegliere dove pubblicare e portare il proprio seguito. I creator, dal canto loro, dovranno capire se converrà legarsi ad un’unica piattaforma o costruire il proprio palcoscenico su un campo neutro (un sito, un blog) e integrare i servizi di monetizzazione offerti da “aziende non social”.