L’Italia è ripartita con aziende e professionisti in cerca di riscatto per i mesi passati in sordina, operativi ma a capacità ridotta. In questo periodo di ripresa la spinta al rilancio della propria professionalità si abbina alla voglia di rinascere e cambiare. Tanti professionisti stanno valutando come recuperare il tempo perduto creando nuovi contatti, sviluppando vecchi e nuovi network o semplicemente trovando nuovi paradigmi per mostrare alla loro organizzazione quanto valgono.
Dopo tanto tempo passato in solitudine, si ricomincia proprio da sé stessi, e dato che le relazioni di persona sono ancora lontane, si fa vivo il bisogno di investire nell’immagine digitale come appunto il profilo LinkedIn?
L’obiettivo di questo articolo, tuttavia, non è di incoraggiare i manager a compilare profili sempre più esaustivi per raggiungere una promozione, cambiare ruolo o trovare un nuovo lavoro, anzi. Per creare un profilo che davvero supporta il raggiungimento degli obiettivi professionali bisogna focalizzare sulla strategia e l’attività. Lo si può pensare come parte integrante del piano triennale (o quinquennale) di carriera e, prima di revisionarlo, sarebbe utile chiedersi: dove voglio essere tra tre, cinque o dieci anni? Quali skills devo valorizzare per raggiungere questi obiettivi e in che ordine?
Ecco dieci di suggerimenti pratici dai quali cominciare:
1. Definire gli Obiettivi Il profilo deve riassumere e trasmettere immediatamente la professionalità della persona, ma anche la sua traiettoria di carriera. Tempo e attenzione devono essere dedicati alla redazione delle prime poche parole di presentazione: il Summary.
2. Rendere (solo) l’essenziale visibile all’occhio. Anche se abbiamo partecipato a un’edizione di Masterchef o abbiamo la certificazione di dog trainer, a meno che il nostro obiettivo non sia diventare chef o addestratore, queste sono informazioni superflue. Non diluiamo le informazioni rilevanti in un mare di fronzoli senza strategia!
3. Imparare dal copy editor Regola chiave per qualsiasi copy è tagliare, rileggere e poi tagliare ancora. Ogni informazione superflua potrebbe creare una distrazione. Con le prime parole del nostro sommario dobbiamo articolare chi siamo e cosa vogliamo.
4. I Contatti Ci sono vari tipi di consulenti che possono aiutare un professionista a creare o ottimizzare il profilo LinkedIn, ma quello che manca di solito è un approccio relativo allo sviluppo strategico dei contatti. Affidarsi a un consulente che sappia sviluppare il pool di contatti, aiutandoci ad ampliare in nostro network in modo organico e strutturato, connettendoci con i player più importanti nel nostro settore ad esempio, consente di moltiplicare le opportunità di crescita.
5. Attività Mostrarsi attivi sui social spesso rappresenta un punto di stallo nello sviluppo dei profili LinkedIn di personalità molto senior. Il risultato è un profilo puramente “enciclopedico” che purtroppo suggerisce la scarsa comprensione dei social o il disinteresse al network, ma soprattutto che non portano benefici.
6. Attivi senza fatica Per fortuna esistono strategie pensate apposta per permettere agli occupatissimi senior manager di rimanere attivi con contenuti originali. Piccole abitudini e razionalizzazioni come la condivisione personalizzata dei post aziendali, la partecipazione in gruppi di settore o la pratica di condividere gli articoli più interessanti letti online sui social possono portare grandi benefici.
7. Aggiornati e aperti a nuove opportunità Così come postare regolarmente viene vissuto con disagio, le varie sezioni di LinkedIn su pubblicazioni, corsi etc. sono facilmente dimenticati una volta che il profilo è stato creato e/o tradotto e postato. Mostrare che si è in continuo aggiornamento, invece, apre a nuove opportunità e mostra che si stanno perseguendo degli obiettivi.
8. Focalizzare le energie A seconda del profilo è consigliabile o meno valutare il ruolo delle recommendations e del featured work. Un consulente ha ogni interesse ad averne un portfolio in mostra, ma un professionista radicato in cerca di promozione interna ne beneficia molto meno.
9. Interessi Non tutti I nostri hobby servono a promuovere il nostro futuro professionale, ma esistono delle ottime fonti di notizie che aiutano a definire la professionalità del profilo e offrono interessanti spunti per la condivisione.
10. Articoli Gli articoli scritti e postati su LinkedIn permettono di comunicare messaggi maggiormente articolati alla propria audience. Richiedono senza dubbio un’attenzione maggiore alla copy, abilità di linguistiche e di scrittura che vanno oltre all’indispensabile know-how di settore, ma offrono anche molte soddisfazioni in più.
Sviluppare un profilo LinkedIn deve essere un’attività strategica che va ben oltre la semplice stesura di un CV. LinkedIn è un mezzo di comunicazione potente che può aiutare a rilanciarsi in un momento di ripresa. Let’s connect: https://bit.ly/2AWWx1d
LinkedIn hapubblicatoalcune novità sul funzionamento del suo algoritmo di classificazione dei contenuti (le cui caratteristiche avevoapprofondito qui).
Quando l’utente entra nella piattaforma, il sistema individua una lista di possibili post candidati ad essere mostrati. La scrematura dei candidati viene effettuata applicando ad ogni post un'”algoritmo di classificazione leggero” che ha il compito di prevedere se sarà gradito dall’utente.
Cosa considera l’algoritmo di classificazione di LinkedIn
La previsione, fatta grazie a modelli di machine learning, tiene conto di:
P (l’azione) = la probabilità che l’utente compia un’azione vedendo il post candidato ad essere mostrato
E [downstream clicks/virals | action] = l’effetto downstream ossia l’effetto virale che si genererebbe (interazioni successive) nel caso in cui l’utente che vede il post candidato compisse un’azione (es. un like)
E [upstream value | action] = l’effetto upstream ossia l’effetto positivo sull’autore del post (in termini di motivazione a scrivere di più) che si potrebbe generare se l’utente che vede il post candidato compisse un’azione (es. un commento).
Questi tre elementi vengono bilanciati in modo da mantenere un ecosistema di notizie “salutare”. Più facile a dirsi che a farsi. In realtà il sistema tenderà a mostrare solo i post che hanno più probabilità di essere cliccati. Ecco perché è stato introdotto un segnale nuovo: il tempo di permanenza.
L’importanza del tempo di permanenza
Il tempo di permanenza, di cui già tiene contol’algoritmo di Facebook, è un segnale dell’interesse verso un contenuto molto utile. Infatti i click e le altre interazioni non sempre bastano. Ci sono utenti passivi che leggono i post senza compiere azioni, utenti che cliccano un link ma subito chiudono la pagina o che lasciano un like compulsivo su contenuti qualitativamente poveri.
Tipicamente ogni aggiornamento permette di considerare due tipi di tempo di permanenza. Il primo “sul feed” che parte dal momento in cui almeno metà del contenuto appare sullo schermo di chi scrolla. Il secondo è quello “dopo il click” ossia il tempo speso sul contenuto linkato.
Analizzando milioni di post diversi, LinkedIn ha correlato il periodo di visualizzazione del post con la probabilità di interazioni. Come immaginabile, c’è un tempo Tskipnel quale l’utente “guarda e passa” (la linea verde tratteggiata), trascorso quel tempo, più rimane a leggerlo, più aumenta la probabilità di una nostra interazione. Dunque oggi l’algoritmo di classificazione di LinkedIn considera anche questo fattore quando deve decidere quali aggiornamenti mostrarci.
Si tratta di un ulteriore passo, non ancora decisivo, nella previsione dell’interesse verso un contenuto per via algoritmica. Non a caso parlo di interesse e non di qualità del contenuto. Perché il tempo speso può essere un fattore facilmente sfruttabile da chi cerca attenzione, senza offrire sostanza. Sono quelli che scrivono post demagogici o inutilmente lunghi e pieni di tag. Se ne incontrano tanti nell’open space LinkedIn, che assomiglia sempre più al centro commerciale Facebook.
Una cosa è certa: quest’anno ha cambiato in modo permanente la natura di molti eventi. Certo, gli eventi fisici continueranno ad esistere, tuttavia molte agenzie nel reinventarsi probabilmente hanno scoperto che digitalizzare può essere una mossa strategicamente potenziale anche per il loro business. Sicuramente viene sacrificata una parte qualitativa, indiscusso punto di forza del formato esperienziale, che tuttavia viene compensata dall’efficienza e dal risparmio economico che organizzare un evento in digitale comporta.
Questa accelerazione verso il digital content, porta chi lavora nell’industria degli eventi a dover cercare una solida strategia di contenuto e le giuste tecnologie – in questo senso, esistono svariate piattaforme e tool che vengono in aiuto, per rendere gli eventi un contenuto 100% digitale.
Quando parliamo di content strategy, dobbiamo tenere in considerazione principalmente alcuni fattori:
live streaming: è la metodologia tramite cui dobbiamo far rivivere nel modo più immersivo possibile l’experience ai nostri utenti, mantenendo alto l’interesse e l’engagement;
contenuti on-demand: un vantaggio che deriva dalla digitalizzazione degli eventi, è quello di poter mettere a disposizione degli utenti anche una serie di contenuti satellite, che possono essere fruiti (gratuitamente o in logica paid) per un lasso di tempo più lungo e pre-determinabile.
In realtà, dietro la crisi, si nascondono una serie di altri vantaggi:
accessibilità: non essendoci più la barriera dello spostamento, che una partecipazione fisica implica, l’accessibilità agli eventi aumenta esponenzialmente, superando anche i confini del territorio nazionale;
durabilità: si crea la possibilità di poter rivivere l’experience attraverso i contenuti disponibili online;
responsabilità ambientale: abbattendo la costrizione di dover essere presenti fisicamente per poter fruire dell’esperienza, diminuisce radicalmente l’impatto negativo che gli spostamenti hanno sull’ambiente.
Un cambiamento che implica una serie di opportunità ma che porta con sé anche delle insidie. In particolare, si invitano i marketer a non ricommettere l’enorme errore che è stato fatto nei primi anni del nuovo millennio.
L’avvento del digitale e tutti gli errori di valutazione delle aziende Media
Agli inizi del 2000, quando si iniziavano a intravedere i presupposti di quello che sarebbe stato l’avvento dei digital media (e più tardi il boom dei social media), le aziende media avevano iniziato a forzare i propri modelli di business per cercare di adattarli ai nuovi formati digitali. Trattandosi di un formato dal costo davvero irrisorio a confronto dell’offerta analogica di televisione, radio e stampa, le aziende hanno iniziato a vendere le properties digitali come plus, per convincere i brand ad acquistare spazi pubblicitari sui media tradizionali.
Questa strategia di vendita ha funzionato a suo tempo, tuttavia ha reso davvero complicato, per tutti gli anni a venire, valorizzare e monetizzare i contenuti digitali in modo significativo. È rimasta sempre viva, da allora, una percezione dei servizi digitali in quanto cheap rispetto a quelli analogici che porta le aziende ancora oggi a investire molto più budget in media tradizionali piuttosto che digitali.
Questo perchè fin dall’inizio, durante il passaggio al digitale non è stata applicata nessuna vera strategia per sfruttare a pieno le potenzialità dei nuovi formati, ma le aziende hanno semplicemente preso i propri modelli di comunicazione tradizionali e li hanno applicati a un’esperienza più economica e mercificata.
Per questo motivo, diamo per scontato che una produzione video televisiva sia molto più costosa rispetto a quella per un video YouTube, che un ebook debba essere necessariamente più economico di un libro vero, che un articolo online abbia un valore inferiore a un pezzo stampato su un giornale nazionale. Diamo per scontate tutte queste cose e ci sbagliamo.
Non è il medium che definisce il valore di un contenuto (e di un evento)
Ogni contenuto prodotto, che sia destinato alla fruizione online o offline, ha il comune obiettivo di creare un’esperienza positiva per il consumatore. Pertanto, ogni esperienza digitale che creiamo dovrebbe essere di valore per il nostro target di persone e avere l’obiettivo di rendere la loro vita migliore – anche offline – e non solo essere più conveniente per le aziende.
Pertanto, oggi che ci troviamo di fronte al dilemma su come evolvere le strategie di eventi sul territorio in esperienze digitali, non dobbiamo cadere nella stessa trappola che ci spingerebbe semplicemente a prendere un contenuto e tradurlo in chiave virtuale, ma dobbiamo fare uno step in più. È necessario partire da una vera e propria content strategy che non abbia l’obiettivo di trovare la soluzione più conveniente per ill nostro business, ma più di valore per i nostri consumatori.
Quindi un evento virtuale sarà sicuramente diverso da un evento fisico, ma non per questo dev’essere considerato meno di valore, meno costoso o meno “esperienziale”.
A sostegno di questa tesi, possiamo anche scomodare Marshall McLuhan, il quale sosteneva che
Quando ci ritroviamo di fronte a qualcosa di nuovo, guarderemo istintivamente ad esso attraverso vecchi stereotipi. In questo modo, tentiamo semplicemente di adattare i vecchi modelli alla nuova forma, invece di chiederci come questa nuova modalità andrà a influenzare tutte le ipotesi formulate prima del suo avvento.
Insieme, verso un nuovo mondo
Tante cose cambieranno nel mondo di domani, quello post-pandemia, durante la quale molti hanno visto crollare gran parte delle proprie certezze ma, al tempo stesso, potranno vederne nascere altrettante. L’essere umano ha una resistenza innata al cambiamento, tuttavia è importante – ora più che mai – guardare al futuro con fare pionieristico e avveniristico, cogliendo prontamente la nascita di nuovi trend.
Tra questi, possiamo già elencarne alcuni:
aumenta la domanda di contenuto: abituati a vivere nella frenesia di una vita dettata da ritmi sempre più concitati, siamo stati improvvisamente catapultati in una realtà temporale dilatata. Così, all’aumentare del tempo a disposizione per noi stessi, da investire nella crescita personale o anche solo in un intrattenimento costante, aumenta anche la necessità di entrare in contatto con un numero di contenuti sempre maggiore;
aumento degli abbonamenti ai servizi online: seguendo lo stesso ragionamento, saranno sempre di più le persone che sceglieranno di abbonarsi a sevizi online per accedere a contenuti come podcast, film, ebook, ecc. – e, per la prima volta, avranno effettivamente il tempo di usufruirne;
abbattimento della barriera qualitativa: oggigiorno, le persone dimostrano di non badare tanto alla sofisticatezza del contenuto, quanto alla sostanza e al valore dello stesso;
In questa situazione d’emergenza, quello che viene richiesto alla aziende è la capacità di trasformazione: ad esempio, è interessante capire come trasformare il proprio team per rispondere nel modo più efficace possibile alla crescente domanda di eventi virtuali. È comprensibile che l’obiettivo principale delle aziende rimanga quello di fare il possibile per salvaguardare il proprio business, tuttavia varrebbe la pena fermarsi un attimo e affrontare questo cambiamento forzato non come una via d’uscita da una situazione potenzialmente di crisi, ma come l’opportunità di evolvere verso nuovi modi di fornire contenuti.
Per questo, il consiglio è quello di non cedere alla tentazione di rendere gli eventi digitali semplicemente una versione digitalizzata di quelli fisici, ma di mettere a punto una vera e propria strategia di contenuto, pensando più in grande, in modo più lungimirante. Il futuro degli eventi si fa sempre più ibrido, tra fisico e digitale, aprendo scenari fino a poco fa inesplorati ma non per questo meno potenziali. Facciamoci trovare pronti.