Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Cosa c'è dietro un telefonino iPhone o la neonata tavoletta elettronica iPad? Ovvero, come Apple e i suoi cugini stanno cambiando il mondo. Brian Fung su Foreign policy ha ricostruito il percorso produttivo di un iPhone. Un itinerario che si snoda nei cinque continenti e che a ogni passaggio delinea trasformazioni economiche e geopolitiche.
Materie prime. L'iPhone come tutti gli altri telefonini, i pc portatili, i lettori Mp3 e molti dispositivi elettronici funziona con una pila ricaricabile. Al cuore di questa batteria c'è un minerale: il coltan, composto complesso di columbite e tantalio. Il tantalio è utilizzato sotto forma di polvere metallica nell'industria dei semiconduttori per la costruzione di batterie ad alta capacità e di dimensioni ridotte. Grazie a questa polvere nera che ha una elevata resistenza al calore ed è capace di mantenere una carica elettrica per un lungo periodo, le pile dei nostri telefonini durano così tanto. Per questo motivo dopo l'oro e il petrolio il coltan è diventato uno dei minerali più ricercati e preziosi.
Blood coltan. Il coltan si trova in Brasile, Australia, Canada e soprattutto in Congo, nella martoriata regione dei Grandi laghi dove da decenni si combatte una guerra civile finanziata dal contrabbando di questo minerale. La Repubblica democratica del Congo occupa un territorio immenso, che si estende per oltre 2,3 milioni di chilometri quadrati e confina con una dozzina di altri stati africani, quasi tutti interessati, direttamente o indirettamente alle sue risorse. La mappa mineraria è interminabile: rame, cobalto, minerale di ferro, manganese, uranio, oro, diamanti, cassiterite (stagno), e - appunto - coltan. In età coloniale re Leopoldo II del Belgio definì il Congo «una magnifica torta africana». Una torta amara per i suoi abitanti. E il destino di questo paese continua a essere in balìa di chi vuole appropriarsi delle sue immense ricchezze. Una parte significativa delle produzione mineraria continua a essere ricavata ancora oggi nelle miniere a cielo aperto. Nelle aree sotto controllo dei movimenti di guerriglia, la popolazione viene costretta dai padroni di turno o dai militari col fucile spianato, a cercare il coltan. A scavare buche, spaccare rocce, caricare, trasportare, con paghe da fame e sotto sorveglianza di guardie armate. I gruppi di ribelli che vengono dai paesi vicini, dall'Uganda, e dal Ruanda finanziano le operazioni vendendo tantalio di contrabbando a società americane, europee, cinesi attraverso intermediari locali nelle zone di frontiera, i cosiddetti comptoirs. Esportano di contrabbando il coltan e vendono il minerale ai produttori di telefonini. Questa guerra regionale di cui giungono solo talvolta gli echi in Occidente ha ucciso circa 7 milioni di persone, per la maggior parte civili, negli ultimi 12 anni, stando alle rilevazioni contenute in un rapporto Onu. Da parte sua la Apple sostiene che per costruire i suoi telefonini richiede ai suoi fornitori di certificare che i materiali che usano sono stati prodotti in modo «socialmente e ambientalmente responsabile». Apple però aggiunge che la catena produttiva è molto lunga e complicata e che sostiene gli sforzi di controllare e regolare questa catena produttiva. Ma tutto può accadere da un passaggio all'altro. Lavoro global. Ogni prodotto della Apple, comprato magari sul negozio online, è probabile che arrivi dall'Asia. Il viaggio del vostro iPhone comincia in una fabbrica cinese posseduta dal gigante dell'elettronica taiwanese Foxconn che dà lavoro a 800mila persone. Foxconn ha tra i suoi clienti Apple, assembla l'iPhone, l'iPad, i computer Macintosh. Così come assembla i computer Dell e Hp, la Nintendo Wii e alcuni telefoni Nokia. Questa società era sconosciuta al grande pubblico prima della serie di suicidi, 10 suicidi di operai, avvenuti a catena nello stabilimento di Shenzhen, in Cina. Le cronache raccontano di ritmi di lavoro massacranti, straordinari prolungati. Qualche tempo fa è sparito dallo stabilimento un prototipo del nuovo iPhone. i responsabili dello stabilimento, come ha raccontato Farhad Manjoo su Slate, hanno accusato di furto un operaio che lavarova nel magazzino. Sun Danyong, 25 anni, ha negato tutto e ha raccontato di essere stato picchiato dalla sicurezza. Ha inviato un sms alla sua ragazza: «Cara, mi dispiace, ritorno a casa domani. Ho qualche problema. Non parlarne con la mia famiglia. Mi dispiace». Il giorno dopo si è gettato dal dodicesimo piano di un edificio dello stabilimento.
Dopo le morti degli operai, Foxconn ha aumentato i salari del 30%, ma la società che assembla gli iPhone è solo un piccolo caso, seppur significativo, del più ampio fenomeno che interessa il lavoro in Cina: è l'altra faccia della globalizzazione quella che ha permesso il successo economico degli stabilimenti delocalizzati, un successo basato sul dumping sociale e lo sfruttamento. I lavoratori migranti in Cina sono 149 milioni. I suicidi alla Foxconn così come gli scioperi avvenuti negli stabilimenti cinesi di Toyota e Honda hanno fatto accrescere l'attenzione mondiale sulle condizioni di lavoro praticate in Cina. Molti osservatori internazionali sono stati sorpresi dall'intervento del premier Wen Jiabao il 14 giugno, che ha invitato il governo a migliorare le condizioni di lavoro e il trattamento per i lavoratori migranti. Wen ha parlato di «compassione e rispetto». Sono aumentati tutti i salari. E' avvenuta una sorta di rivoluzione silenziosa. In Cina sta emergendo una classe media che guiderà il paese a un nuovo stadio di sviluppo. Intanto la Apple ha fatto sapere di aver venduto due milioni di iPad in due mesi. Steve Jobs ha detto che stanno tutti lavorando duramente per costruire iPad e tenere il passo della domanda mondiale. Indovinate da dove arrivano questi iPad?
Inquinamento hi-tech. Secondo le stime di Apple ogni iPhone produce circa 55 chilogrammi di emissioni di carbonio durante tutta la sua vita. Con 8,75 milioni di apparecchi venduti ogni 3 mesi si traducono così in più di 500mila tonnellate di CO2 immesse nell'atmosfera ogni trimestre. C'è un'attenzione crescente alle problematiche ambientali e al loro smaltimento da parte dei governi, delle organizzazioni ecologiste e delle società produttrici. Un gruppo di aziende di tlc e informatica ha aderito all'Iniziativa di sostenibilità globale (GeSI) che impegna a sviluppare prodotti e una filiera di elettronica verde. Finora hanno aderito 24 società, tra cui At&t, Nokia, Hewlett-Packard. A marzo è entrata a far parte del gruppo di società di green tech anche la canadese Rim, Research in Motion, produttrice del BlackBerry e rivale di Apple. La casa della mela non ha ancora aderito al GeSi, ma fa parte di un'altra organizzazione, con meno vincoli, l'Electronic Industry Citizenship Coalition, che ha una serie di princìpi sulle condizioni di lavoro e la salute dei lavoratori. In realtà, a parte queste apparenti credenziali verdi, poche società sono davvero impegnate con politiche mirate a ridurre l'impatto ambientale dei loro prodotti e dei loro processi produttivi. Solo Nokia e Sony Ericsson hanno ottenuto il bollino verde dal Green electronics survey 2010 di Greenpeace. Un rapporto che valuta i programmi di riciclo e l'uso di materie tossiche nei prodotti elettronici. Tutte le altre società, Apple compresa, ma anche Lg, Motorola e Samsung, sono a metà classifica. Hanno cominciato ad adottare politiche di responsabilità o hanno eliminato l'uso di materie prime tossiche dai loro prodotti tuttavia sono solo a metà strada. Apple, in particolare, nonostante le dichiarazioni pubbliche di Steve Jobs sugli obiettivi ambientali del 2007 ha fatto solo dei piccoli passi in avanti nelle sue politiche ambientali, secondo Greenpeace.
Educazione senza confini. I costi per la formazione universitaria aumentano in tutto il mondo. Apple sta lavorando per sviluppare delle lezioni digitali per gli studenti. Anche qui il suffisso «i» per un'applicazione pensata ad hoc: in questo caso si parla di iTunes U, un servizio online lanciato dalla casa della mela nel 2007 che integra il software ubiquo per la musica e i video iTunes per diffondere veri e propri cicli di lezioni universitarie in audio e video che possono essere visti e ascoltati dal Mac, dall'iPhone, dall'Ipod e anche dal neonato iPad. ITunes U si propone come un servizio per sviluppare l'insegnamento a distanza senza confini. Cosa molto utile soprattutto in regioni del mondo dove l'accesso a sistemi formativi di qualità è limitato. Già da ora gli studenti, così come fanno con i brani musicali, possono scaricarsi le lezioni preferite sul proprio pc o telefonino, gratis, da ogni parte del mondo. Il Mit di Boston ha reso disponibili 2000 corsi universitari dal 2007. A esso si sono aggiunte le università di Stanford, Harvard, Cambridge, Oxford. Si stima che nel solo anno accademico 2008-2009 solo per l'ateneo di Oxford siano stati scaricati dagli utenti più di un milione di lezioni.
Difesa, la guerra con l'iPhone. I ragazzi americani che sono in missione in Iraq e Afghanistan a fare la guerra al terrorismo come tutti gli americani sono utenti abituali e affezionati dei prodotti Apple. Tanto che società di armamenti come Raytheon e Knight's hanno sviluppato delle applicazioni militari per i loro iPhone. Apple e Google hanno fatto lo stesso. Il Pentagono compra le applicazioni migliori e, a sua volta, attraverso il Darpa, il dipartimento di R&D sviluppa sue proprie applicazioni. Le applicazioni militari per gli smartphone, con l'aiuto di Internet, cercano di aiutare i soldati nelle operazioni sul campo. Ci sono programmi che permettono di stimare,considerando tutte le variabili come il vento, la temperatura, la distanza e l'umidità, come fare a tirare un colpo perfetto (BulletFight). Altri come Vcommunicator che producono parole e traduzioni scritte dall'americano all'arabo, al curdo e a due lingue afgane. Altri ancora come One Force Tracker, permettono di avere una mappa in tempo reale, ricca dei più piccoli particolari, con la posizione esatta dei soldati. Tutto attraverso un piccolo, nero e lucido iPhone.
di Riccardo Barlaam su ILSOLE24ORE.COM
Sul social media marketing ormai si discute ovunque in rete, almeno fra tutti coloro che sono addetti ai lavori.
Sono molto meno convinto invece che questo dibattito arrivi alle orecchie delle piccole e medie imprese, che sono impegnate nel lavoro di tutti i giorni e non possono disporre di un reparto marketing strutturato (condizione per altro non sufficiente per una strategia sul web sociale).
Come discusso in un post precedente temo poi che gli esperti di settore, già raramente in contatto con questo target, non parlino una lingua concreta e comprensibile all’imprenditore qualora le due parti si confrontino.
Ma le pmi dovrebbero fare social media marketing? E se lo possono permettere?
Sul fatto di doverlo fare direi proprio di sì: il mercato online offre grandi opportunità e limita notevolmente le differenze tra grandi e piccoli, dato che “gli iperlink sovvertono le gerarchie” (Cluetrain Manifesto). Inoltre il non esserci non equivale a non subire critiche, che anzi in caso di assenza non si è pronti ad affrontare, con gravi danni alla propria immagine.
Ecco dunque qualche consiglio, che traggo da una mia presentazione di pochi giorni fa:
a) ascoltate tanto, con tool dedicati o anche con strumenti più semplici e gratuiti
b) scegliete uno o due tipi di social media e coltivate la relazione, senza voler essere ovunque
c) non delegate questo lavoro agli stagisti, è un aspetto strategico
d) fatevi consigliare dagli esperti ma non delegate a loro il lavoro, dovete essere voi i protagonisti.
Il social media marketing di fatto è un lavoro di pazienza, attenzione e strategia, dove la principale risorsa economica è il tempo, non il denaro cash.
Per questo può essere alla portata di chi fa il proprio lavoro con passione e competenza, in prima linea, e forse diventa perfino più facile metterci la propria faccia quando non si è nascosti dentro una direzione marketing numerosa.
Parliamo infatti di rapporti personali e di umanizzazione dell’entità azienda, che diventa persona, e l’imprenditore italiano in questo potrebbe essere davvero protagonista, con la sua storia e le sue passioni.
Certo, ci vuole tempo, confidenza con il mezzo e qualche buon consiglio ma credo sia un investimento che valga la pena di intraprendere. In fondo non si tratta di esserci o non esserci, ma di vivere da protagonisti il social web invece che subirlo, sfruttando la sua forza a proprio favore (in questo senso leggetevi il capitolo 2 di “L’onda anomala”).
Voi che ne dite
Gianluigi Zarantonello via http://internetmanagerblog.com/
Concordano nell’importanza del canale, e lo monitorano da vicino, ma raramente decidono di sfruttarne tutte le potenzialità. E dunque sì ad e-mail promozionali, limitato l’uso dei social network.
È ciò che emerge da una ricerca commissionata da Webtrends e condotta in cinque Paesi, Italia inclusa.
Il 79% delle imprese analizza il traffico Internet, ma solo il 30% agisce di conseguenza, ovvero utilizza i dati rilevati per intraprendere azioni concrete. È quanto emerge da un’indagine effettuata nel 2008 da WebTrends, società specializzata in web analytics e marketing intelligence, in Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Svezia e Australia su un campione di 300 aziende di diversi settori (50 in Italia) con oltre 250 dipendenti.
La precedente indagine del 2006 (che però non comprendeva l’Italia) rifletteva la fiducia degli intervistati (i responsabili marketing delle aziende) in un’economia in crescita, dove alcune debolezze a livello di analisi e azione da parte delle aziende erano bilanciate da buoni risultati di business. Ora lo studio ha evidenziato un clima decisamente meno positivo.
Il che non significa fuga dal web, anzi. Nel 2008, il 17% dell’investimento marketing globale è stato destinato al marketing online (è il 16% in Italia, e sale al 20% in Regno Unito e Australia mentre all’ultimo posto per investimenti c’è la Francia, con il 12%).
Le aziende che hanno investito di più sono quelle specializzate in media e marketing (17,6%), seguite dal settore pubblico e dei servizi (entrambe al 17%) e dalle imprese che operano nel campo dell’ospitalità e del tempo libero (14%). Inoltre, il budget destinato al marketing online è cresciuto per il 30% delle aziende intervistate ed è rimasto invariato per il 43%.
Numeri importanti, se si considera che nel 2006 la maggior parte delle aziende di Regno Unito, Francia e Germania (42%) aveva investito nel marketing online meno del 10% del budget di marketing complessivo. E il 27% degli intervistati considera l’Internet marketing come uno strumento utile per vincere le sfide poste dall’attuale crisi economica.
In aumento sembra piuttosto l’esigenza di migliorare la redditività degli investimenti online, in modo da assumere decisioni più informate e incrementare le vendite (un’esigenza sentita dal 65% degli intervistati).
La paura corre sulla banda larga? Detto fatto, il 79% delle imprese interpellate cattura e monitora tutti gli aspetti del traffico sui siti web, ma solo il 50% monitora i dati dei clienti generati da Internet.
La cultura dell’osservazione insomma sembra essere più diffusa rispetto a quella dell’apprendimento, e sono ancora poche le aziende che adottano misure concrete sulla base di tali analisi.
Solo il 42% infatti modifica spesso i contenuti basandosi sull’analisi del comportamento degli utenti e appena il 30% modifica il sito in base all’analisi del traffico. Gli strumenti di web analytics insomma sono ancora poco utilizzati o non sfruttati al massimo del loro potenziale (in Italia, solo il 20% delle aziende intervistate dichiara di utilizzarli sempre). Spesso manca una strategia precisa per il loro utilizzo, e le aziende si affidano ancora a software rudimentali con un basso livello di automazione.
Forse si investono poche risorse perché l’investimento online è percepito come più rischioso rispetto a quello tradizionale, a causa di una più difficile previsione dei risultati e di più elevate possibilità di fallimento. È così per il 47% degli intervistati (54% in Italia), mentre solo il 25% (12% in Italia) è del parere che i rischi siano inferiori.
Altro problema rilevato dagli esperti di marketing interpellati è la complessità di integrare il lavoro di marketing online e offline in modo che tali attività siano l’una il complemento dell’altra, anziché ostacolarsi a vicenda. Le principali difficoltà riguardano i cambiamenti dei processi di business (53%) e la gestione della risposta e della domanda dei clienti (38%).
Pochi investono nel web 2.0 L’evoluzione vissuta dal marketing online negli ultimi anni è in gran parte dovuta all’avvento dei social media. Eppure gli strumenti più utilizzati dalle aziende appartengono ancora alla “vecchia guardia” di internet: e-mail marketing, pubblicità online, web analytics e SEO (search engine marketing) la fanno tuttora da padrone, mentre il ricorso ai social media è sporadico. I dati indicano che blog, marketing virale, podcast e Twitter, sebbene sempre più utilizzati dai consumatori, non sono ancora stati presi in considerazione dalle aziende come strumenti di comunicazione o comunque sono sfruttati al minimo delle loro potenzialità.
Via Marketing Journal
Una percentuale che farebbe riflettere persino Marshall Mcluhan, il massmediologo divenuto celebre per l'espressione "Il medium è il messaggio", con cui indicò che i contenuti sono secondari rispetto al mezzo attraverso cui sono veicolati. Chissà cosa direbbe o profetizzerebbe ora lo studioso canadese dinanzi ai dati diffusi da Pew Internet & American Life Project secondo cui la percentuale degli statunitensi adulti (dai 18 anni in su) che guardano la tv via Internet o scaricano video dalla rete ha raggiunto una quota del 52%. Sale al 69% se tra gli adulti si considerano solo quelli che navigano.
Si osserva la tv dal pc in particolare per vedere commedie (si è passati dal 31% nel 2007 al 50% attuale), video educational (dal 22 al 38%), film o spettacoli televisivi (dal 16 al 32%), video politici (dal 15% al 30%).
Come mai? Questa impennata dei pc-teleascoltatori è dovuta - si apprende leggendo l'indagine dell'istituto di ricerche statunintense - alla crescita della diffusione della banda larga e, in particolare, dal forte appeal che i social network - come Facebook e Twitter - e la videocommunity YouTube esercitano nei confronti degli utenti del web. Molti video e filmati, infatti, sono veicolati attraverso queste agorà elettroniche.
Sette su 10 guardano video. Ma quanti sono quelli che, dall'altra sponda del web, caricano video online? Secondo Pew Internet & American Life Project attualmente la quota di uploaders di video si attesta al 14% dei naviganti adulti americani, quasi il doppio rispetto a due anni fa (8%).
di Vito Lops su ILSOLE24ORE.COM
Un secco botta e risposta e nessuno spazio alle domande dei presenti. Si è consumato con queste modalità l’intervento di Mark Zuckerberg al Cannes Lions International Advertising Festival.
Il giovane Ceo di Facebook, che ha tradito anche in questa occasione un leggero nervosismo, è stato premiato durante la manifestazione come Media Person of the Year e, vista la platea alla quale si stava rivolgendo, ha dato qualche dettaglio in più sull’approccio del social network al mondo della pubblicità.
La community che raccoglie una popolazione di 500 milioni di utenti è, secondo Zuckerberg, il luogo ideale per le aziende che intendono targhettizzare i loro prodotti e la comunicazione degli stessi. Un luogo, Facebook appunto, dove gli internauti esprimono pareri e si scambiano opinioni è un pozzo di desideri per chiunque voglia indirizzare la propria offerta.
Il gruppo, ha spiegato Zuckerberg, è appena uscito dalla fase di sperimentazione per ciò che concerne l’adv e necessita di una piattaforma interna di gestione della pubblicità. Il Ceo del gruppo di Palo Alto ha citato i casi di Nike, con la sponsorizzazione della World Cup, e di Disney/Pixar, per la comunicazione legata a Toy Story 3, per dimostrare il valore aggiunto di Facebook nella pianificazione di campagne e ha manifestato l’intenzione di insistere in questa direzione.
Che la macchina, pubblicitaria e non, abbia già iniziato a girare è stato lampante qualche giorno fa, quando fonti vicine al sito blu hanno parlato di 800 milioni di ricavi nel 2009. I nuovi traguardi, ha specificato Zuckerberg a Cannes, sono dietro l’angolo: con la conquista di Russia, Giappone e Cina si può puntare al miliardo di utenti. Sul sempre rovente, nonostante le modifiche recentemente applicate, tema della privacy il Ceo del social newtork ha dichiarato di aver tratto vantaggio dal dialogo con gli utenti e sottolineato come sia stato naturale dover fronteggiare una serie di problemi.
Un ruolo sempre più importante nel quotidiano del popolo di Facebook è stato assunto dai giochi. L’aspetto, sottolineato a Cannes, è stato affrontato da Zuckerberg anche nell’intervista rilasciata a Inside Facebook, durante la quale ha auspicato l’utilizzo di un unico sistema di pagamento per tutti i giochi e assicurato che le intenzioni del gruppo sono di creare un ‘ecosistema’ di business unico all’interno del quale gli sviluppatori possono proporre i loro prodotti.
Anche in questo caso, dunque, la linea di Facebook è quella di portare all’interno della struttura le fila dell’intero sistema generatosi e che si sta progressivamente generando.
Via Marketing Journal
La nuova via per i social network sembra l’espansione sui servizi di messaggistica istantanea. MySpace non fa eccezione e si appresta a essere integrato in Windows Live Messenger di Microsoft, con una apposita interfaccia. Gli utenti potranno sincronizzare aggiornamenti di status su Myspace e Msn e scrivere ai propri contatti via Hotmail, il servizio di posta elettronica di Microsoft.
Via Quo Media
Come ogni anno, il rapporto ItMedia Consulting funge da cartina di tornasole del settore televisivo in Europa, soprattutto per quanto concerne mercato pubblicitario ed evoluzioni tecnologiche.
Nel 2009 l’industria televisiva del Vecchio Continente è stata scossa dalla crisi e i cui investimenti pubblicitari hanno raggiunto un valore di 86,9 miliardi di euro, in calo del 3,1% rispetto all’anno precedente, quando erano invece lievemente cresciuti (+0,9%).
Buone nuove, invece, per quanto riguarda la pay-tv, che anche in periodo di recessione si conferma la principale fonte di crescita di settore. I ricavi dei canali a pagamento, nel 2009, hanno superato quelli legati alla pubblicità divenendo la prima risorsa nel mercato televisivo europeo (il 53% del quale deriva dalla vendita dei contenuti).
A rimpolpare ulteriormente i guadagni dei servizi premium sono state la diffusione del video on demand e dei programmi in pay-per-view, nonché dei pacchetti misti che uniscono tv, internet e telefonia.
Via Quo Media
Le connessioni alla banda larga su rete fissa sono diffuse nelle case di oltre 10 milioni di famiglie e si registra una crescita significativa del numero degli internauti: a febbraio 2010 si sono connessi al web (a casa o al lavoro su linea fissa) oltre 33 milioni (+14,2%) di italiani.
E’ quanto emerso dal Rapporto e-Content 2010, curato dall’Ufficio studi di Confindustria servizi innovativi e tecnologici. A febbraio 2010, gli utenti attivi online hanno sfiorato i 23 milioni (+13%). Internet viene usato quotidianamente da una media di 11,8 milioni di persone (+17%). Il web-surfer quotidiano tipo ha un’età compresa tra i 25 e i 54 anni (68% delle persone attive nel giorno medio), anche se negli ultimi mesi sono cresciuti del 28% i navigatori over 55, con punte del 65% per gli over 74. Nel Mezzogiorno si registra un certo ritardo rispetto al resto dello Stivale: la percentuale di utenti attivi quotidianamente connessi al Sud è appena del 18,4% sul totale della popolazione dell’area, contro il 25% del Nord-Ovest e il 225 del Nord-Est e del Centro.
Via Quo Media
Qualche giorno fa i media hanno dato grande spazio al Quit Facebook Day, nel quale le persone avrebbero dovuto lasciare in massa il più grande e famoso social network del mondo per protestare contro le sue politiche privacy.
E’ stato un flop, con poco più di 30.000 cancellazioni su 400 milioni (!), mentre Zuckerberg si affrettava a modificare le policy del suo gigante.
La vicenda è comunque interessante perché testimonia ancora una volta la confusione che regna sui temi privacy sul web: ho sentito dai telegiornali nazionali frasi del tipo “i social network rivelano dati sensibili, come ad esempio l’appartenenza politica”. Avete mai visto un social network che chiede come dato obbligatorio la dichiarazione di voto o che ti costringe a caricare le foto della tua ultima sbornia?
Chiariamoci subito, il problema della tutela dei dati personali è reale, e ogni sito che ne detenga deve renderci facile e trasparente la loro gestione, condivisione e cancellazione.
Detto questo però la nostra responsabilità personale resta cruciale, dobbiamo capire che ciò che carichiamo online è di fatto di dominio pubblico, soprattutto se non impariamo a distinguere tra messaggi privati tra amici e pubblicazioni su bacheche visibili a tutti.
Mi sembra dunque urgente e fondamentale una campagna di educazione degli utenti, tema di cui ho già parlato a proposito del Safer Internet Day. In più, se usiamo il web per lavoro, dobbiamo essere attenti e intelligenti nel creare una nostra identità online.
Io purtroppo vedo ancora tanta ignoranza, gonfiata dagli strafalcioni dei media, e voi che cosa ne pensate?
Gianluigi Zarantonello via http://internetmanagerblog.com/
In occasione della presentazione ufficiale della piattaforma iAd, avvenuta contestualmente al lancio del nuovo iPhone, Steve Jobs ha annunciato con orgoglio di aver già venduto sponsorizzazioni destinate alle applicazioni per un valore complessivo di 60 milioni di dollari. Questa affermazione e tutto ciò che che ne consegue potrebbero costare alla Apple un'indagine dell'antitrust statunitense, su imbeccata di Google.
Il colosso dei motori di ricerca, che ha di recente acquistato AdMob per sbarcare nel settore della pubblicità mobile, ha puntato il dito contro le nuove regole inserite da Apple che rendono difficile la realizzazione di pubblicità mirata sulle applicazioni destinate a iPhone e iPad. "Questi paletti rischiano di eliminare le entrate che sostengono decine di migliaia di sviluppatori - ha protestato Google sul blog ufficiale del network AdMob - E visto che la pubblicità finanzia un enorme numero di applicazioni gratuite o low-cost, si colpiscono anche i consumatori".
Via Quo Media
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