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Errare è umano, ma per incasinare davvero tutto è necessario un computer.

Arthur Bloch
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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Gianluigi Zarantonello (del 06/11/2006 @ 13:05:37, in Strategie, linkato 4983 volte)

Che cosa vuol dire realmente fare networking? Una buona definizione, senza pretesa di scientificità, può essere: Networking significa creare e governare le relazioni ed i rapporti d’intera-zione e di scambio con altri soggetti in modo organizzato e consapevole.

Analizziamo i vari aspetti di questa frase.

Partiamo dai verbi, creare e governare, il primo ci indica che le relazioni non sono qualcosa d’imposto dall’alto (anche se in qualche caso può capitare) ma il frutto di un’azione che può partire anche da noi in prima persona, sia spontaneamente sia in reazione ad uno stimolo esterno.

Un elemento importante dunque è la proattività che va poi unito con il se-condo verbo, governare, che ci indica che queste relazioni devono essere an-che gestite nel tempo, sviluppate, coltivate, introducendo nel nostro scenario il lungo periodo.

Andiamo poi all’oggetto, le relazioni e i rapporti d’interazione e scambio, infatti, prima di tutto la relazione può essere vista come un contatto, un possibile canale e uno strumento in più disponibile nel nostro panorama percettivo. L’interazione (personale, professionale, affettiva) e lo scambio (d’informazioni, di aiuti reciproci, etc.) sono il contenuto ed il valore aggiunto, almeno potenziale, della creazione di un rapporto con un altro nodo della ragnatela.

Infine nella definizione troviamo il modo di gestire tutto questo, che deve essere organizzato e consapevole. Come abbiamo già detto stiamo parlando di azioni proattive, dunque la gestione del network deve essere soggetta ad un’organizzazione che non lascia al caso la creazione ed il mantenimento della rete.

Va da sé che tutto questo processo richiede consapevolezza di quanto si fa, non si può pensare che azioni strutturate come sopra siano portate avanti in modo corretto solo istintivamente.

L’analisi della definizione ci porta a comprendere come il fare networking dunque sia prima di tutto una forma mentis, un modo consapevole e motivato di gestione della propria rete che può essere applicato a tutti gli ambiti della vita.

Come tutte le cose questa attività deve essere frutto di valori che l’individuo condivide in maniera profonda e consapevole, come accennavamo nel primo paragrafo infatti il problema del “fare squadra” non è tanto insito nei modi operativi ma nel pregiudizio e nella paura di fondo, in questo caso dell’imprenditore o del manager, che vedono con sospetto l’interazione con altri soggetti per paura di perdere il proprio vantaggio personale o di essere in qualche modo “fregati”.

É giusto dire che non viviamo in un mondo utopico e non è certo il caso di rivelare a tutti informazioni e processi riservati, tuttavia spesso questi atteggiamenti riguardano anche dati che sono necessari, ad esempio, a realizzare un prodotto in modo congiunto, in più certe volte si prova a fare i furbi, cercando di prendere più di quello che si dà.

Invece per fare network in modo corretto è bene avere dei riferimenti di metodo e anche di etica, come viene sottolineato, ad esempio, da Sebastiano Zanolli nel suo libro “Una soluzione intelligente” dedicato proprio al networking.

Riprendiamo dunque alcuni dei concetti fondamentali del libro a proposito di cosa non è fare davvero networking:

1 non stiamo parlando di vendere qualcosa a più persone possibile (ad esempio tramite il multilevel marketing) bensì di trarre il massimo dalle nostre reti di relazione;

2 nella gestione del network ci deve essere un rapporto scambievole, centrato sulle persone e non basato solo su un do ut des immediato. Non è dunque da prevedere una contabilità spicciola ed immediata negli scambi e nelle interazioni fermo restando una reciprocità ed un mutuo vantaggio;

3 fare network richiede rispetto reciproco fra gli interlocutori e spirito di collaborazione, anche per piccole azioni. Questo punto è di fondamentale importanza etica e pratica in quanto è alla base di un rapporto di reale fiducia e collaborazione fra le parti. Solo in questo caso si può pensare di avere una reciproca ed interessante interazione con piena soddisfazione;

4 il networking è un’attività che si sviluppa nel lungo periodo e richiede organizzazione e capacità di gestione, non è affidata al caso, anche perché si opera con delle persone e dunque si deve avere rispetto di loro.

Da queste note, riprese in modo molto sintetico, emerge in modo chiaro che il networking è un’attività che ha per protagonisti le persone, che sono quelle che poi gestiscono i destini delle aziende, e dunque ha tra i suoi pilastri chiave la fiducia ed il rispetto reciproco.

Se in una delle due parti mancano questi elementi non può scattare davvero la relazione e di ciò si renderà conto in breve anche quello dei due che si pone nel modo giusto.

Abbiamo anche detto che ci troviamo in una ragnatela dalla quale non possiamo uscire e dove dobbiamo per forza di cose interagire con degli altri soggetti, a questo punto non sembra molto logico instaurare relazioni instabili e conflittuali quando, con un approccio corretto, possiamo invece ricevere e dare molto al sistema.

É importante sottolineare anche che non stiamo parlando di armonia utopica fra tutte le persone, nel concreto il networking è un’attività che ci permette di fare meglio la nostra attività attraverso il rapporto con altri soggetti perché tale interazione è più ricca, corretta e proficua. Molte delle relazioni che intrecciamo inoltre possono avere la loro utilità concreta in un secondo momento, quando c’è bisogno di quella specifica competenza o di un contatto che la persona con cui abbiamo un buon rapporto ci può procurare.

Quindi è importante sapere che fare networking funziona. Sviluppando e gestendo reti di relazioni in modo limpido, organizzato e rispettoso delle regole si ottengono molti vantaggi che compensano largamente gli sforzi fatti in un primo momento per iniziare, senza contare che avere proficue relazioni d’interazione e scambio con molte altre persone è piacevole ed arricchente anche al dì là del fine strettamente lavorativo

Per saperne di più

Mini e-book “Reti di relazioni nella grande Rete. Networking e Marketing one to one nell’era di Internet”

Gianluigi Zaratonello

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Di Altri Autori (del 06/11/2006 @ 06:47:07, in Viral Marketing, linkato 4129 volte)
La seconda serie di video virali che combinano Mentos e Coca-Cola Light è condivisa su Google Video. Gli incassi pubblicitari saranno equamente divisi tra gli pseudo scienziati e il colosso di Mountain View.

Roma - Svolta nella net television? Google ha deciso di pagare due autori di un celebre corto che ha avuto una enorme popolarità in rete e li prenota per la loro prossima fatica. Una novità che dà il quadro del rilievo assunto dai contributi video degli utenti e dalla promozione dei contenuti più popolari. Questo è quanto sta accadendo a Fritz Grobe e Stephen Voltz, autori del cosiddetto Mentos Experiment, video che ha fatto il giro della rete grazie ad un sapiente uso delle celebri mentine immerse nelle più popolari bevande gassate per ottenere una vistosa reazione.

Ora quello zampillare di Coca-Cola, quasi fosse la Fontana Magica di Barcellona, è uno zampillare di guadagni per i due pseudoscienziati di quel celebre video, profitti che spartiscono con Google, che ospita i loro clip ufficiali.

La seconda serie dei Mentos Experiment comincia a diffondersi in Rete sotto il titolo di The Domino Effect, una monumentale reazione a catena, con ancora più Mentos e ancora più litri di Coca-Cola Light. Monumentali saranno anche gli incassi pubblicitari, si presume. Tra i top 100 di Google Video, il secondo giorno della messa in Rete, Mentos Experiment è balzato al terzo posto nella classifica, popolarità in crescita, quasi cinque stelline di rating e migliaia di visite.

La prima serie di video era stata ospitata da Revver, la prima piattaforma a consentire ai "filmmaker" di far fruttare i loro video con la pubblicità. I Mentos Experiment, infatti, in alcune loro versioni, terminavano con un link alla pagina di chi aveva acquistato lo spazio pubblicitario. Le entrate si dividevano tra la piattaforma ospitante e i due astuti "scienziati".
Ora è Google ad approfittare dell'opportunità pubblicitaria. E le rendite per Grobe e Voltz potrebbero aumentare esponenzialmente, data la popolarità già raggiunta dagli esperimenti, vista la notorietà della piattaforma.
Si prevede un redditizio riscontro anche per BigG, dato che il clip, conosciuto, almeno per sentito dire, anche da coloro che non amano sollazzarsi fra video-amenità amatoriali, potrebbe attirare migliaia di visitatori, a cui somministrare "pubblicità by Google".

I due pseudoscienziati, con la prima serie di "esperimenti", hanno guadagnato più di 35mila dollari, già divisi fifty-fifty con Revver. Dal 31 maggio, quando il video è stato pubblicato sulla piattaforma, è stato visto più di cinque milioni di volte. E società come Microsoft, Time Warner, General Electric e Universal Pictures avevano fiutato l'affare ed avevano acquistato il famigerato frame pubblicitario del video, prevedendo che il meccanismo virale, con i suoi rilanci e le condivisioni, potesse far considerare ben spesi i soldi investiti.
Ma è diventata Mentos l'esclusiva proprietaria degli spazi, ha lanciato il Mentos Geyser Video Contest, ritenendo che i video fossero, nonostante la preoccupante reazione chimica innescata fra Coca-Cola e la loro caramella, un buon investimento per consolidare l'awareness presso il pubblico. Mentos ha stimato che il valore del passaparola online si aggiri attorno ai dieci milioni di dollari, fra i video originali e gli oltre ottocento emuli di Grobe e Voltz.

Anche Coca-Cola, primo marchio per valore al mondo secondo la classifica di Interbrand, ha approfittato della popolarità del clip e offerto ai due pseudoscienziati di diventare testimonial e di partecipare ad eventi in cui sfoggiare la loro "opera di ingegneria idraulica". Inoltre Coca-Cola, come Mentos, ha invitato i consumatori a mandare i loro video per partecipare al Poetry In Motion Challenge: una mossa astuta, che consente di risparmiare sulle pubblicità create dai prezzolati copywriters, ottenendo video amatoriali che interpretano e aderiscono ai gusti del target.

I video virali assumono sempre più le sembianze di un affare: lo dimostra anche l'iniziativa di Metacafe, un'altra piattaforma che ospita video amatoriali, una delle prime dieci. Ha annunciato pochi giorni fa che offrirà a ogni filmmaker cinque dollari per ogni mille visite al suo video.

I viral video appaiono anche una fucina di giovani filmmaker: United Talent Agency, sta per lanciare una campagna di talent scouting, per rastrellare giovani registi e attori emergenti dal Web.

Il fenomeno dei viral video, e più in generale del viral marketing, sta esplodendo, ed è appiccicoso e persistente quanto l'intruglio aspartamizzato dei Mentos Experiment. Si veda l'esempio del redditizio fenomeno del Numa Numa Boy, che ha iniziato a monetizzare la sua disinvoltura nello scatenarsi nelle danze.

Dalle campagne teaser per la promozione dei film, ai video pubblicitari su Internet, rilanciati anche in tv come pubblicità (celebre il clip ripreso da Kinder, ideato dall'animatore Pierre Coffin) o come fenomeno che emerge della Rete, dagli advergame al blog marketing, questa forma di pubblicità, più di quelle tradizionali, si fonda sul passaparola. Un modo economico ed efficace per incuriosire, per consolidare l'awareness, per conferire alla marca un'aura familiare e ammiccare all'utente, col quale condivide l'uso innovativo dei media.

Non è dato però sapere se il marketing virale in Rete calzi su misura gli intenti delle grandi aziende, e quanto possa durare l'uso di una strategia che, se diventasse di uso comune, forse perderebbe parte del suo appeal.

Gaia Bottà
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Di Altri Autori (del 05/11/2006 @ 12:12:50, in Segnalazioni, linkato 2241 volte)
Al via l’edizione 2006 di IAB Forum, il Convegno della comunicazione interattiva in Italia, promosso da IAB Interactive Advertising Bureau Italia: l’appuntamento è per l’8 e il 9 novembre, presso Fiera Milano City, Milano Convention Center.

Il grande interesse riscontrato nelle edizioni precedenti ha portato IAB ad ampliare sia in termini temporali che contenutistici questo evento, dedicando quindi due giornate al tema della comunicazione interattiva declinato in tutti i suoi aspetti; a conferma anche del fatto che Internet sta assumendo un ruolo sempre più determinante per le imprese che lo utilizzano in misura sempre maggiore come strumento di supporto al business, sfruttando quindi le grandi potenzialità che la Rete offre.

La mattina sarà dedicata a due sessioni plenarie: il primo giorno ospiterà il Convegno IAB mentre il giorno seguente vedrà l’intervento congiunto di IAB insieme ad AssoComunicazione . Nel corso dei due Convegni sono attesi, tra gli altri, gli interventi di Paolo Gentiloni, Ministro delle Comunicazioni, che parlerà della nuova era della comunicazione e del ruolo delle Istituzioni a favore del suo sviluppo, Derrick De Kerckhove, Director McLuhan Program in Culture & Technology e Professore all’Università di Toronto, che si focalizzerà sulla trasformazione dei linguaggi, dei mezzi e dei consumatori, Giulio Malgara, Presidente di UPA che si soffermerà sul tema “Interazione, engagement, relazione: aziende e consumatori, nuovi modelli pubblicitari”, Layla Pavone, Presidente di IAB Italia & Europa e Marco Testa Presidente di Assocomunicazione che evidenzieranno l’importanza dell’on-line advertising.

Nella prima giornata si parlerà del valore della Rete e della forza della comunicazione interattiva, dell’evoluzione degli utenti, della nuova era della comunicazione e del ruolo che le Istituzioni giocano per supportarne lo sviluppo.
Nella giornata di giovedì l’accento sarà rivolto ai nuovi scenari e ai nuovi modelli di marketing e comunicazione, all’evoluzione dei linguaggi, dei mezzi e dei consumatori, alla misurazione dell’efficacia della comunicazione digitale.

Le sessioni pomeridiane ospitano invece workshop tematici.

Per ulteriore informazioni: IAB Forum.


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Di Eli (del 05/11/2006 @ 11:24:03, in Viral Marketing, linkato 3188 volte)
Un altro divertente video virale legato al mondo della birra. Questa volta si tratta della neozelandese Tiger Beer. Il video è stato realizzato da Saatchi & Saatchi New Zealand.


Via Adverblog

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Di Altri Autori (del 02/11/2006 @ 06:37:05, in Strategie, linkato 2633 volte)

Affrontiamo un aspetto interessante nella formazione e che in verità interessa l’intero processo di gestione della forza vendita, il confronto con i contesti internazionali e la necessità per un’azienda di gestire la diversità culturale.

La Formazione alle vendite è lo sforzo fatto da un datore di lavoro di fornire alla forza vendita l’opportunità di acquisire attitudine lavorative, concetti, regole, contenuti e capacità in modo da aver maggiore successo nell’espletamento del proprio lavoro: fare trattative e perfezionare le vendite” (Dubinsky, 1999).

Ma cosa succede, come deve comportarsi un’azienda in presenza di venditori operanti in Paesi diversi? Pensiamo a realtà aziendali altamente internazionalizzate, in cui la politica di sviluppo su Paesi esteri ha comportato la creazione di una rete di vendita internazionale, Europea ed extraeuropea.

Alcune ricerche hanno dimostrato che la tendenza delle imprese internazionalizzate, chiaramente in relazione al loro grado di internazionalizzazione, è di prediligere una formazione fortemente “market-oriented”.

Le differenze culturali possono tradursi, nell’ambito della vendita, in necessità di approcci diversificati, con stili di comunicazione e di negoziazione adeguati ai diversi contesti.

In questo senso, in organizzazioni che operano su mercati esteri e che devono far fronte ai diversi scenari, la diversità culturale può essere attenuata dalla Formazione, se questa viene adattata in rispetto di queste diversità. Ci sono diversi contributi di ricerca ed analisi comparative circa la Formazione alle vendite in Europa, in Nord Europa (Regno Unito, Olanda e Finlandia) e Sud dell’Europa (Spagna e Portogallo) ad esempio. Le maggiori differenze riscontrate riguardano il valore degli investimenti destinati alla Formazione, il supporto finanziario utilizzato in maggior parte dalle aziende del Sud Europa, e gli effetti dei programmi formativi. Nonostante le imprese del Nord Europa non beneficino di ingenti supporti finanziari di origine nazionale o comunitaria, esse investono maggiori risorse nella Formazione della forza vendita che per di più viene, per la maggior parte, tenuta durante le normali attività lavorative. Al contrario, nonostante buona parte dei programmi formativi sia finanziato, le imprese del Sud Europa sono meno disponibili ad investire denaro in questa direzione e circa due terzi dei corsi è tenuto al di fuori delle ore lavorative. Per quanto riguarda i metodi, differenze sono ravvisate nel fatto che le aziende del Nord Europa prediligono la Formazione interna, mentre quelle del Sud si rivolgono prevalentemente a strutture esterne. Non ci sono grosse differenze in termini di contenuto, piuttosto si riscontrano differenze nell’importanza attribuita ad essi. Ma l’aspetto della diversità culturale non riguarda soltanto la gestione e Formazione di venditori operanti in realtà diverse ma anche le difficoltà che venditori o managers delle vendite possono incontrare in marketplaces caratterizzati dalla convivenza di diverse realtà culturali.

E’ necessario che la Formazione li prepari ad agire in contesti di vendita differenti, sebbene spesso essi, mossi da una falsa sicurezza, non comprendono i benefici di tale tipo di orientamento. (Bush, V.D., Ingram, T.N., “Building and Assessing Cultural Diversity Skills: Implications for Sales Training”, Industrial Marketing Management, Volume 30, No. 1, January 2001, pp. 65-76)

Sono auspicabili ulteriori studi in questo ambito.

Antonia Santopietro


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Di Roberto Venturini (del 31/10/2006 @ 10:54:11, in Marketing, linkato 2628 volte)
Sta emergendo la tendenza, da parte dei media, a far sì che la Generation Content lavori non solo per i propri siti o i propri blog... ma che si trasformi un uno stuolo di autori che lavorano per riempire di contenuti media più "istituzionali".

Tra gli esempi più eclatanti di questa tendenza, è l’ esperimento di Current TV, la televisione via cavo dell’ex-vicepresidente americano Al Gore.
Questa emittente è destinata ad un target “smart” 18-34 ed ha, tra i suoi punti qualificanti, la partecipazione (a pagamento) degli utenti nella generazione di contenuto e pubblicità.

Le regole sono semplici: tutti gli utenti del sito possono inviare i propri commercial autoprodotti, a condizione che siano centrati su una delle marche sponsor del sito.

Se il filmato piace alla marca e all'emittente, lo spot viene messo in onda e il creatore riceve 1.000 dollari. Se poi lo spot piace molto lo sponsor può decidere di metterlo in onda anche su altri media… e il creatore ricevere fino a 50.000 dollari (cifra peraltro difficile da raggiungere e comunque modesta per una grande azienda).

Tra i primi sponsor Sony – con una operazione di perfetta integrazione prodotto/comunicazione (il prodotto videocamera è lo strumento per fare la pubblicità a sé stesso…e Sony ha inserito nel sito ampi tutorial per aiutare ad usare meglio e più creativamente il proprio prodotto).

Sempre su un fronte analogo, l’attività di coBRANDiT, una agenzia che compra (a 100 dollari al pezzo) clip, documentari, pubblicità, materiali autoprodotti dal pubblico, per poi rivenderli alle aziende, ai media online o offline, per utilizzarli in ricerche etnografiche che esplorano il mondo della marca.
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Di Max Da Via' (del 30/10/2006 @ 07:25:46, in Strategie, linkato 23078 volte)
Una tendenza in forte crescita, specie nel settore dell’abbigliamento, è il proliferare di negozi monomarca, cioè con prodotti facenti capo ad un unico brand. L’apertura di nuovi centri commerciali, con dimensioni consistenti e una vasta offerta disponibilità di spazi interni, ha ulteriormente favorito una diffusione capillare di negozi monomarca in tutto il territorio.

Per alcune categorie merceologiche il maggiore livello di specializzazione garantito da queste tipologie di negozi è coinciso con una migliore differenziazione in termini di gamma e proposte. Catene di intimo come ad esempio Calzedonia e Yamamay hanno infatti dato un forte impulso al settore, ampliando la gamma di offerta introducendo nello stesso tempo una maggiore creatività e stagionalità nell’assortimento.

Uno dei motivi alla base del successo di questa formula distributiva è la forte specializzazione a livello di prodotto, che rafforza il legame tra consumatore e brand, a tutto vantaggio delle marca. Se nel tradizionale negozio multimarca i legami affettivi più forti del cliente sono quelli relativi all’insegna o a al proprietario in quello monomarca è la fedeltà al brand la variabile fondamentale.
Inizialmente attratto dalla forte specializzazione dei prodotti il consumatore spesso scopre, all’interno del negozio, che l’offerta è molto più ampia di quanto immaginato: Louis Vitton oltre ai tradizionali accessori propone anche vestiti, mentre Geox affianca alle famose scarpe sportive modelli più eleganti ma anche capi di abbigliamento e Montblanc spazia dagli articoli per la scrittura ad una vasta gamma di accessori.

I vantaggi per la marca sono numerosi, dalla maggiore fidelizzazione della clientela all’assenza dei diretti concorrenti spesso presenti nel negozio tradizionale. Anche la citata migliore possibilità di differenziazione, derivante dall’estensione del numero di categorie merceologiche presentate nel punto vendita, consente di affacciarsi in nuovi settori, mentre la velocità di riassorbimento e il legame più diretto con il cliente garantiscono un più rapido aggiornamento della merce.

Un altro aspetto da considerare, specie per i marchi più commerciali, è il maggior valore percepito da parte del cliente nel momento in cui effettua l’acquisto. Il paio di scarpe comprato nel negozio monomarca ha infatti un impatto emozionale diverso rispetto al medesimo acquisto effettuato in un negozio tradizionale, il che può consentire, ad esempio, migliori margini a livello di prodotti.

Il fenomeno dei negozi monobrand è un realtà in forte crescita in America e Asia ma anche in Europa e in particolare in Italia il trend appare positivo, sia per il franchasing che per i negozi di proprietà.
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Di Altri Autori (del 29/10/2006 @ 14:28:11, in Marketing non convenzionale, linkato 3256 volte)
I giochi come veicolo promozionale: a ogni tipo di messaggio si può associare un tipo di gioco, in funzione anche del target da raggiungere.

L'advergame è una forma di pubblicità avanzata. Non si tratta banalmente di vendere spazi pubblicitari per coprire i costi del gioco. Quello è tutt'altro: una promozione di un'iniziativa, che può essere un gioco ma banalmente qualsiasi altra attività. L'advergame è il contrario: il gioco nasce per veicolare il messaggio pubblicitario, ne è fortemente compenetrato, senza di esso non avrebbe ragione di essere. Ma come si aggancia il gioco al messaggio pubblicitario? In base a diverse tipologie, diverse relazioni possibili.

Associativi
Il metodo più semplice e uno tra i più usati per legare il messaggio pubblicitario al gioco è la relazione di tipo associativo. Una questione di associazione di idee. Il gioco è associato a un certo prodotto. Una partita di calcio elettronico i cui tabelloni a lato indicano sempre la stessa marca di scarpe da calcio, i cui giocatori indossano - chiaramente riconoscibile - quella stessa marca, e quando si fa gol appare in tabellone lo stesso sponsor. In questi casi, l'associazione calcio-marca delle scarpe diventa automatica. Quasi a ogni azione, avremo sempre il messaggio bene in evidenza. È la relazione più ovvia e banale da realizzare, che ricalca modelli precedenti della pubblicità.

Illustrativi
In questo tipo di giochi, il prodotto diventa in qualche modo l'oggetto stesso dell'azione di gioco. In sé, il gioco può essere slegato logicamente dal prodotto, ma il prodotto diventa il tassello fondamentale dell'azione. Un esempio tipico è dato dal modello Tetris, nel quale le tessere verticali in caduta possono essere oggetti di qualsiasi tipo: diversi tipi di orologi, caramelle, articoli per l'ufficio, o qualsiasi altra cosa, in linea di principio. L'oggetto da reclamizzare diventa l'oggetto del gioco.

A obiettivo
Una leggera variante del tipo precedente è data dalla trasformazione del prodotto nell'obiettivo del gioco per il passaggio del livello. Arrivare, dopo una serie di ostacoli, all'entrata autostradale, oppure banalmente comporre un puzzle elettronico il cui risultato è l'oggetto da promuovere. In questi casi, si cerca di dare risalto al valore finale del prodotto. L'equazione è data da: tendere a un oggetto nel gioco = tendere a un prodotto nel consumo. In più, se ben realizzato, si può sfruttare al tempo stesso anche il valore associativo o quello illustrativo del messaggio. Basta svolgere il gioco in modo tale da rispondere in corso d'azione alle caratteristiche di queste tipologie.

Dimostrativi
Sono tra i giochi più difficili da realizzare in maniera efficace. In questi casi si tende a dimostrare, attraverso il gioco, la validità del prodotto. Per esempio, un gioco automobilistico in cui la vettura ha esattamente le caratteristiche di listino dichiarate dalla casa produttrice (velocità assoluta, ripresa ecc.). In alcuni casi, equivalgono a una "prova virtuale" del prodotto. La differenza tra l'advergame dimostrativo e la prova virtuale sta nel fatto che il primo introduce un approccio competitivo (il superamento del livello piuttosto che la competizione vera con altri concorrenti), la seconda invece è fine a sé stessa.

Quiz a premi
Attorno a un prodotto si può arrivare a costruire una vera e propria gara di conoscenza. In questo caso, il successo del gioco sarà direttamente proporzionale alla diffusione e notorietà del prodotto. Si può tentare, però, l'operazione contraria: utilizzare il gioco a quiz come veicolo per la diffusione. Per il successo del gioco, tuttavia, occorrono quasi obbligatoriamente due ingredienti di stimolo: la possibilità di giocare in multiplayer - per sfidare amici e conoscenti - e magari un premio finale. La possibilità del gioco multiplayer diventa essenziale, perché un gioco a quiz a unico concorrente rischia di essere autoreferenziale e quindi annoiare velocemente. Il premio finale non deve essere necessariamente un premio in denaro: potrebbe essere il prodotto stesso - in una funzione di ulteriore promozione - oppure anche soltanto una classifica generale pubblica in cui al primo o ai primi tre si riconoscono degli attestati generici di bravura. Magari la gente non gioca per i premi, ma sicuramente gioca per una classifica. Una variante con maggiori chanche di successo di questa tipologia è quella del quiz associativo: invece che domande soltanto sul prodotto, si può allargare il campo magari all'ambito generale. Non soltanto domande sul cellulare, per esempio, ma sulle telecomunicazioni in generale. La molla vincente di questi giochi, però, è quasi sempre la competizione con un altro concorrente, nella scia dei giochi televisivi.

Contestuali
In questo caso siamo vicini all'idea generica di sponsorizzazione. Infatti, il legame tra messaggio pubblicitario e gioco è dato dal contesto stesso del gioco. Si potrebbero definire anche ambientali, nel senso che l'ambiente di gioco riproduce le caratteristiche del messaggio pubblicitario. Inoltre, ci possono essere richiami pubblicitari espliciti, all'inizio o alla fine o, se si riesce, nel corso dell'azione. L'obiettivo di questo tipo di advergame, infatti, non è tanto reclamizzare un prodotto ma piuttosto un'idea. Perfetta per le iniziative di ordine amministrativo - per esempio la tutela dell'ambiente oppure l'educazione stradale - si rivela meno efficace per i prodotti di tipo aziendale. A meno che non si punti sulla conoscenza di un certo di tipo di problema al quale poi il prodotto reclamizzato offre una soluzione. In questi casi, il messaggio è indiretto, ma qualche volta si rivela addirittura più efficace.

Educativi
Una variante dei giochi contestuali è data dal valore educativo. In questo caso, indipendentemente dall'ambientazione del gioco, si punta alla crescita di un intero settore. Per esempio, un gioco per i più piccoli potrebbe essere legato al lavarsi i denti o al combattere le carie. Si impara uno stile di vita. La ricaduta sui prodotti è, anche in questo caso, indiretta e di più lungo periodo: crescendo la cultura di un certo settore, si creano utenti consapevoli e, forse, clienti meglio disposti. Normalmente, è un tipo di relazione che funziona per le associazioni di categoria oltre che per scopi più prettamente sociali.

Il target
In tutti i casi, il target di riferimento di questi advergame è dato, per linee generali, da un'utenza giovane, mediamente tra i 12 e i 35 anni, tecnologicamente abbastanza preparata, aperta e con un livello culturale medio-alto. Se veicolati nel modo giusto e pensati fin dalla partenza per target particolari, tuttavia, gli advergame dimostrano di poter arrivare a qualsiasi target prefissato. D'altra parte, in Rete, il peso delle donne, per esempio, o quello degli anziani, è in costante aumento. È evidente che sarà diverso proporre uno sparattutto ai giovani o un quiz culturale per gli ultraquarantenni. Chi realizza il gioco e chi promuove il prodotto devono essere in stretta collaborazione almeno nelle fasi iniziali: definizione del messaggio, definizione del target, comprensione degli interessi del target.

Dove collocarlo?
Uno dei dubbi da sciogliere per la messa online di un advergame, riguarda la collocazione del gioco stesso: nel sito dell'azienda o in un dominio a sé stante, registrato per l'occasione? Pur non essendoci particolari controindicazioni per una scelta o per l'altra, bisogna valutare lo scopo dell'advergame: se si vuole spingere verso l'integrazione con i prodotti e i brand commerciali dell'azienda, il sito aziendale sarà la sua collocazione ideale. Se invece si vuole lanciare un prodotto nuovo oppure si vuol far crescere il contesto culturale nel quale il brand opera, un sito autonomo avrà maggiore impatto. Senza dimenticare altre forme di diffusione, come i Cd-Rom, normalmente però più costosi e meno capaci di ottenere risultati secondari.

I risultati secondari
Tipicamente, infatti, all'advergame si possono abbinare una serie di operazioni in grado di fornire utili indicazioni all'azienda. Per esempio, si può introdurre una registrazione obbligatoria con la quale si potrà andare a profilare l'utente. Il grado d'approfondimento e di invasività della registrazione è a discrezione dell'azienda sponsor. Un consiglio valido sempre, però, è quello di ricordare che l'advergame è una forma di contatto poco o per nulla invasiva, che punta sulla spensieratezza e sul divertimento. Infarcirla di fastidiose domande preliminari può pregiudicare il suo successo. Molto meglio lasciare il gioco a una registrazione leggera (oppure senza registrazione) e magari utilizzare poi l'e-mail per ulteriori operazioni volontarie di profilazione.

I costi
Contrariamente a quanto si può pensare di primo acchito, gli advergame possono essere realizzati anche a costi bassi. In pratica, in base alle esigenze comunicative e promozionali e, soprattutto, in funzione della complessità del gioco da realizzarsi, si può oscillare da poche migliaia di euro fino a impegnative campagne da decine e decine di migliaia di euro. In generale, però, è a portata di ogni tipo d'azienda.

Advergame per PMI
Proprio per questo motivo, non bisogna pensare agli advergame come forme promozionali di esclusivo appannaggio delle grandi società o dei brand conosciuti. Queste godranno sicuramente di qualche vantaggio in termini di diffusione, ma un advergame può essere anche un ottimo strumento di fidelizzazione della propria clientela consolidata. Anzi, utilizzare un gioco per promuoversi può fornire un'immagine più leggera e informale della società, portare nuovi contatti, creare ulteriori occasioni di business, indipendentemente dalla grandezza della società proponente. Il tutto senza intaccare i livelli di professionalità riconosciuti.



Via Marketing Journal
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Di Gianluigi Zarantonello (del 25/10/2006 @ 21:23:13, in Internet, linkato 3458 volte)

I giganti della rete sono estremamente attivi in questo periodo ed uno degli ambiti dove la competizione si va facendo sempre più dura è quello dei social network.

A proposito di tali soggetti su Wikipedia si legge che “una rete sociale (spesso si usa il termine inglese social network) consiste di un qualsiasi gruppo di persone connesse tra loro da diversi legami sociali, che vanno dalla conoscenza casuale ai vincoli familiari”.

All’interno della definizione ci sono due elementi chiave: l’universalità di questo tipo di reti e l’importanza che al loro interno rivestono le relazioni e, soprattutto, le persone.

La riscoperta della centralità dell’uomo, anche in economia, è di grande attualità nella letteratura manageriale e per questo le reti di relazioni online stanno avendo un grande successo sulla rete.

Un successo che non è sfuggito ai big del web, e non solo.

Ad esempio My Space, sito di social networking, è stato acquistato lo scorso anno da Rupert Murdoch per 580 milioni di dollari e, secondo Rohan, un analista della RBC Capital, potrebbe valerne 15 miliardi nel giro di tre anni.

Attualmente gli utenti sono più di 90 milioni, in seguito a un incremento senza precedenti, e Google ha appena messo sul tappeto 900 milioni di euro per avere l’esclusiva sulla raccolta pubblicitaria del network.

Dal canto suo Yahoo parrebbe disposta ad acquistare, per la modica cifra di 1 miliardo di dollari, il social network Facebook, creato due anni fa dal giovane Mark Zuckerberg e che oggi è visitato da 15 milioni di visitatori al mese.

Questi due esempi dimostrano come i giganti del web si stanno scontrando su di un nuovo terreno, quello degli aggregatori di persone, le reti che permettono agli individui di incontrarsi, scambiare file ed idee e collaborare. Google stessa produce più di 80 prodotti ogni anno ma l’unico limite che sembra ancora porsi all’avanzata del gigante di Mountain View è dato dalla concorrenza dei player che permettono alle persone di comunicare fra loro: instant messaging, voip e,appunto social network.

Si parla con grande frequenza negli ultimi anni di fare squadra, di network, di organizzazioni flessibili e reticolari. La tecnologia, soprattutto quella di rete, ha aperto all'uomo spazi inimmaginabili per entrare in contatto e in relazione con i suoi simili. Ne nasce dunque una forma di interazione a distanza che può essere considerata un’evoluzione di quella simultaneità despazializzata creata già da strumenti come il telegrafo o il telefono, l’uomo può interagire in modo sempre più veloce, preciso e ricco con il suo simile senza dover essere presente nello stesso luogo. Una rivoluzione che vale tanto nelle aziende e nelle organizzazioni quanto nella vita privata.

I grandi operatori di Internet se ne sono accorti ed hanno spostato su questo fronte la loro competizione. E penso che ne vedremo ancora delle belle.

Gianluigi Zarantonello

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Di Max Da Via' (del 24/10/2006 @ 07:31:01, in Marketing, linkato 3683 volte)
Alcuni big spender della pubblicità non si accontentano più: non basta che il testimonial metta a disposizione la propria immagine e notorietà per promuovere i loro prodotti, ma deve idealmente diventare parte integrante del processo creativo, contribuendo alla realizzazione di un suo modello unico.

Tra le aziende che anno trasformato il testimonial in designer spiccano la catena di abbigliamento di tendenza low cost H&M, con una tuta ideata da Madonna e venduta tra l’altro al popolare prezzo di 49,90 €, ma anche Damiani, che nel 2000 ha iniziato a commercializzare la fede nuziale disegnata da Brad Pitt per il proprio matrimonio con Jennifer Aniston, o Tag Heuer, con il golf watch realizzato in collaborazione con il campione Tiger Woods.

Queste iniziative si sono rivelate soddisfacenti anche in termini di risultati di vendita, al punto che la tuta di Madonna è riuscita in breve tempo imporsi come oggetto di culto,mentre Brad Pitt, a dispetto del divorzio dalla Aniston, continua ad essere codesigner della linea D.Side di Damiani e Bernard Arnault, durante la presentazione dell’ultima semestrale di Lvmh (il gruppo che controlla Tag Hauer), si è dichiarato compiaciuto dei risultati raggiunti grazie alla collaborazione con Woods.

L’utilizzo del testimonial dal resto è da sempre uno strumento efficace per catturare l’attenzione del grande pubblico, a maggior ragione quando la celebrità contribuisce alla realizzazione di un modello che porta il suo nome. Quando però una marca prestigiosa ricorre ad un importante testimonial in veste di designer è fondamentale che il prodotto finale non deluda le aspettative che ha generato, altrimenti potrebbe rivelarsi un’operazione controproducente per entrambi le parti.



Via Economy
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