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Errare è umano, ma per incasinare davvero tutto è necessario un computer.

Arthur Bloch
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\\ : Storico (inverti l'ordine)
Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Max Da Via' (del 20/09/2021 @ 07:20:12, in Social Networks, linkato 985 volte)

Da un po’ di tempo a questa parte si ha l’impressione che la competizione tra social media, stia animando una guerra a chi copia meglio le idee altrui, incorporandole nei propri prodotti. Ha senso questa strategia mimetica? Di questo passo i social diventeranno indistinguibili? Per capirlo ho voluto dare un’occhiata a come si è evoluta l’adozione di nuovi formati nelle diverse piattaforme.

La storia dei social e dei formati

I social media sono servizi che permettono la condivisione pubblica o semi pubblica di contenuti propri o altrui, di diverso formato, e la fruizione di contenuti.
Se ripensiamo alla loro storia, noteremo che nacquero con l’idea di permettere la creazione e condivisione di un oggetto sociale specifico – testi, foto, video – attraverso un particolare formato (qui per un’analisi dell’evoluzione dei formati digitali).
YouTube nacque per la condivisione di video, Twitter per i testi brevi, Instagram per le foto. Quindi l’oggetto sociale e il suo formato sono la cifra costitutiva del servizio. Tant’è vero che quando Flickr, il primo social per gli appassionati di fotografia a divenire popolare, decise di aggiungere la possibilità di caricare video, gli utenti protestarono e molti lo abbandonarono.

Alcune particolari tipologie di social media, invece, nacquero con l’obiettivo primario di permettere la connessione e la comunicazione tra pari, la (ri)costruzione di una rete di relazioni. Furono definiti social network perché qui la condivisione di un’oggetto sociale è importante, ma secondaria rispetto allo scopo relazionale. Friendster e Facebook nacquero per connettere amici, aNobii e Goodreads per gli appassionati di libri, LinkedIn per far incontrare domanda e offerta di lavoro e così via.

Ad un certo punto l’offerta di servizi social è aumentata a dismisura ed è diventato difficile differenziarsi perché gli scopi e gli oggetti sociali sono un numero finito. Così, molti nuovi entranti sono stati espulsi dal mercato, mentre alcuni si sono inventati dei servizi ibridi, tra intrattenimento e comunicazione, e dei nuovi formati adatti ai più giovani.
Snapchat ha inventato una comunicazione visiva basata su scatti che scompaiono e Storie, fatte di frammenti di quotidianità in sequenza.
TikTok ha scommesso su un strumenti creativi potenti per stimolare la creazione di video brevi in loop, retti da una base audio e montati direttamente con lo smartphone. Twitch ha puntato sul live video streaming, Clubhouse sulle dirette solo audio.

La strategia di copia e incorporazione

Di fronte al successo di questi nuovi entranti, gli incumbent hanno provato ad incorporare i formati più innovativi. I casi più eclatanti di incorporazione per copia sono stati tre: le Storie di Snapchat, i video brevi di TikTok e le Live Room di Clubhouse.

Oggi Facebook e Instagram, che sono i social media più popolosi, hanno incorporato tutti i formati possibili (nel grafico il colore più chiaro indica quando il testo viene usato in maniera complementare ad un formato principale, ad esempio su Instagram non posso pubblicare uno status testuale senza l’accompagnamento di una foto o di un video).
Una simile strategia stanno seguendo LinkedIn e Twitter, anche se quest’ultimo, nei giorni scorsi ha deciso di fare marcia indietro, eliminando la funzione Fleet (clone delle storie) perché poco utilizzata dagli utenti.
Gli altri servizi hanno incorporato tutti i formati video possibili ma, per ora, si tengono alla larga dall’audio (che sta per arrivare sui social di Zuckerberg e su LinkedIn). Tra questi è interessante l’approccio di Pinterest che ha creato un formato, “Idea Pins“, che è un mix di storie e video brevi (permette di creare spezzoni di contenuti diversi, ma può essere usato anche solo per video).
Per il momento Twitch e Clubhouse sono gli unici che rimangono fedeli alla loro “core idea”.

Ma ha senso questa strategia di copia o rende i social media tutti uguali?
Dal punto di vista delle aziende di social media, questa strategia mimetica è comprensibile perché risponde a due obiettivi: da un lato sottrarre elementi di differenziazione ai competitor, evitando che gli utenti migrino affascinati dalla nuova funzione, dall’altro offrire il maggior numero di possibilità espressive ai creator (quella parte di utenti che, con i suoi contenuti, attira l’attenzione di un pubblico affezionato). Ma la scelta di copiare funzioni altrui non va fatta a cuor leggero, bisognerebbe sempre evitare di snaturare l’ambiente creato nel tempo.

Dal punto di vista degli utenti l’introduzione di nuovi formati, può generare malumori in alcuni “heavy user”, ma la maggioranza tenderà ad avere un’atteggiamento opportunistico (se serviranno li userà, altrimenti non ci darà peso). Generalmente l’impatto sarà minimo perché un social medium non è l’insieme degli strumenti e dei formati espressivi che offre, ma è un ambiente sociale. Dunque l’utente tenderà a valutare l’esperienza d’uso complessiva che riflette diverse considerazioni, tra cui la facilità d’utilizzo, le persone che lo frequentano, l’utilità che ne deriva. Ecco perché anche social media meno ricchi di mezzi espressivi possono trovare la propria nicchia di utenza e continuare a prosperare.


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Di Max Da Via' (del 26/08/2021 @ 07:43:24, in Internet, linkato 1140 volte)

Il 10 luglio il Garante Privacy ha pubblicato le nuove Linee Guida sui cookie: un importante documento che spiega come siti web ed eCommerce devono gestire il tema dei cookie.

Il Garante, anche a seguito di una “consultazione pubblica” della prima bozza delle ormai approvate linee guida, non si è limitato a stabilire come non deve essere strutturato un banner cookie ma ne ha delineato in maniera precisa la struttura.

In questo modo sono stati chiariti molti dubbi degli operatori del settore.

Questo non è il primo provvedimento normativo emanato dal Garante Privacy in tema di cookie, ma già nel 2014 erano state pubblicate Linee guida sull’uso dei cookie.

Molte delle indicazioni previste dalle precedenti Linee guida sono ancora valide, ma necessitavano di essere riviste e aggiornate in base sia al recente progresso tecnologico, sia alle novità del GDPR.

Di seguito analizzeremo le principali novità introdotte dalle nuove Linee guida sui cookie.

Premessa: Cosa sono i cookie e quando serve il consenso

Prima di entrare nel vivo dell’argomento è doveroso soffermarsi sulla definizione di cookie e sulla loro classificazione.

Cosa sono i cookie?

I cookie sono piccoli file che vengono installati sul terminale dell’utente da parte del sito o da terze parti (per il tramite del sito stesso). Questi file vengono installati quando l’utente visita un determinato sito.

I cookie possono quindi essere di prima parte (quelli rilasciati direttamente dal sito) oppure di terza parte (se rilasciati da società terze).

I terminali nei quali i cookie possono essere installati sono i computer, ma anche tablet e smartphone. In sostanza possono essere installati in ogni dispositivo che utilizziamo per visionare un sito web o un eCommerce.

Che funzioni hanno i cookie?

I cookie possono avere molteplici scopi.

Le nuove Linee guida sui cookie, confermando quanto già indicato dalle Autorità nelle precedenti Linee guida del 2014, suddividono i cookie in base alla loro finalità, ovvero:

  • Cookie tecnici.

Cookie che permettono al sito di funzionare correttamente. Come, ad esempio, quelli che mantengono le scelte effettuate dall’utente (es. lingua scelta e prodotto nel carrello)

  • Cookie di profilazione.

Tali cookie hanno la funzione di ricondurre a soggetti determinati, identificati o identificabili, specifiche azioni o schemi comportamentali al fine di raggrupparli in diversi profili.

I profili degli utenti possono essere utilizzati per finalità statistiche, elaborando i dati sulla navigazione del sito utili per il titolare dello stesso, oppure pubblicitarie, inviando messaggi pubblicitari mirati, in linea con le preferenze manifestate dall’utente nell’ambito della navigazione.

Quando serve il consenso?

Nelle Linee guida il Garante conferma che il rilascio dei cookie tecnici può avvenire senza il consenso dell’utente.

Questi cookie, infatti, sono necessari al sito per funzionare e quindi non ha senso richiedere il consenso dell’utente per prestare un servizio (la navigazione sul sito) richiesto dall’utente stesso.

Invece, i cookie di profilazione possono essere installati solo previo consenso dell’utente.

Il consenso al rilascio dei cookie di profilazione deve essere richiesto tramite il banner cookie.

Diversamente, se il sito web non rilascia cookie di profilazione non dovrà essere presentato all’utente alcun banner cookie.

Come non può essere richiesto il consenso dell’utente

Il Garante Privacy nelle nuove Linee Guida ha individuato alcune modalità che non possono essere utilizzate per ottenere un valido consenso al rilascio dei cookie di profilazione.

In questo modo il Garante Privacy ha confermato interpretazioni normative e giurisprudenziali che gli operatori del settore più esperti seguivano già da tempo.

Scroll della pagina

In primo luogo, è stato stabilito che il consenso non può essere rilasciato mediante “scrolling”.

Alcuni siti consentivano il rilascio dei cookie quando l’utente, una volta arrivato sul sito, scorreva la pagina muovendo la rotellina del mouse.

Il Garante Privacy è stato molto chiaro a riguardo, affermando che lo scrolling non è mai idoneo ad esprimere la manifestazione di volontà dell’interessato volta ad accettare il rilascio dei cookie.

Lo scroll non permette il rilascio di un consenso “espresso”. Infatti, tale azione costituisce un’abitudine che l’utente mette in atto quando accede ad un sito web o ad un eCommerce.

Cookie wall

Il cookie wall è una tecnica utilizzata in alcuni siti web ed eCommerce per negare l'accesso agli utenti che non acconsentano i cookie di profilazione.

Pertanto, con questo sistema, l’utente che voglia accedere al sito si vede obbligato ad accettare i cookie di profilazione.

Pare evidente che in questo caso il consenso dell’utente al rilascio dei cookie non è libero ma deriva dal fatto che senza tale consenso l’utente non può visionare il sito o l’eCommerce.

Proprio per tale ragione le nuove Linee guida sui cookie vietano l’uso dei cookie wall.

Legittimo interesse

Le Linee guida sui cookie confermano che i cookie non possono essere rilasciati sulla base del legittimo interesse.

Il legittimo interesse è una base giuridica che permette al titolare del sito di effettuare un bilanciamento tra il proprio interesse legittimo e quello degli utenti che navigano sul sito.

L’interesse legittimo può giustificare il trattamento dei dati dell’utente per rispondere alle richieste fatte da quest’ultimo tramite il form contatti presente sul sito. In questo caso, infatti, il titolare del sito ha interesse a rispondere alle richieste a lui effettuate e rispettivamente l’utente ha legittimo interesse ad ottenere risposta alle domande la lui stesso formulate.

Il Garante Privacy conferma che non può essere usato il “legittimo interesse” per rilasciare cookie di profilazione sui terminali degli utenti. L’unica base giuridica che permette il rilascio dei cookie di profilazione è il consenso.

Come deve essere strutturato il banner cookie

Il Garante Privacy nelle nuove Linee Guida non si è limitato a precisare come non deve essere richiesto il consenso al rilascio dei cookie ma si è soffermato molto nel definire come questo consenso deve essere richiesto, analizzando nel dettaglio gli elementi che devono costituire il banner cookie.

È stabilito infatti che i siti web e gli eCommerce dovranno presentare un banner con le seguenti caratteristiche:

  1. Una “X” in alto a destra, che se cliccata impedisce il rilascio di cookie di profilazione
  2. Tasto di accettazione
  3. Una “informativa breve” redatta in base alle indicazioni del Garante Privacy
  4. Link alla cookie policy
  5. Link ad “area dedicata” dove l’utente può selezionare/deselezionare i cookie di profilazione

Analizziamo ora nel dettaglio tali elementi che il banner deve contenere.

“X” in alto a destra

Il banner deve presentare una “X” in alto a destra che se selezionata non consenta il rilascio dei cookie.

Infatti, se l’utente clicca su quella “X”, che univocamente online (e non solo) ha il significato di chiusura, il banner deve chiudersi ed i cookie di profilazioni non potranno essere rilasciati dal sito.

Pertanto, con la chiusura del banner, l’utente esprime il suo rifiuto al rilascio dei cookie di profilazione.

Il banner, in maniera chiara e comprensibile, dovrà informare l’utente di tale funzionalità del tasto “X”.

Tasto di accettazione

Oltre al tasto di chiusura il banner dovrà contenere anche un tasto che permetta il rilascio dei cookie di profilazione.

Anche in questo caso il banner dovrà illustrare che, la selezione dell’apposito tasto, costituirà consenso al rilascio di tutti i cookie di profilazione presenti sul sito web o l’eCommerce.

Il tasto dovrà contenere una formulazione atta a far comprendere all’utente quanto sopra enunciato, come ad esempio “acconsento al rilascio dei cookie di profilazione”.

Informare l’utente utilizzando le giuste formulazioni è molto importante per evitare fraintendimenti con l’utente del sito.

Informativa minima da inserire nel banner

Il banner deve contenere una “mini” informativa atta ad informare l’utente che il sito web o l’eCommerce utilizza cookie tecnici e potrà, previo il consenso dell’utente, rilasciare cookie di profilazione.

Il Garante Privacy richiede quindi un’informativa snella e di facile comprensione per l’utente.

Indi per cui in un’informativa troppo lunga e scritta in un linguaggio pseudo “legalese” non sarebbe conforme a quanto indicato nelle Linee Guida.

Link alla cookie policy

Il banner dovrà contenere anche un link alla cookie policy.

Ovvero al documento che illustra all’utente la politica sull’uso dei cookie del sito web o l’eCommerce di rifermento.

Accedendo alla cookie policy l’utente potrà reperire maggiori informazioni relative ai cookie.

Link ad area dedicata ed il suo contenuto

Infine, il banner deve contenere anche un link ad una sezione dedicata dove l’utente potrà scegliere i cookie di profilazione che consente siano rilasciati.

In quest’area dedicata l’utente deve poter:

  • Selezionare/deselezionare i cookie di profilazione suddivisi per categoria. Dovranno essere indicate come categorie, quella di profilazione per fini pubblicitarie e quella per finalità statistiche.
  • Visionare i cookie di profilazione rilasciati dal sito. Dovranno inoltre essere indicati i link alla pagina del sito del fornitore del cookie di profilazione. In questa pagina l’utente potrà disabilitare tale cookie. Nel caso in cui tale link non fosse disponibile, l’utente dovrà essere informato che potrà disabilitare i cookie di profilazione usando le impostazioni del proprio browser.

Altri adempimenti

Di seguito analizzeremo altri adempimenti ai quali i titolari dei siti web ed eCommerce dovranno conformarsi.

Infatti, oltre alle indicazioni su cosa deve contenere il banner cookie le Linee guida prevedono che:

  1. L’utente del sito dovrà avere la possibilità di modificare le scelte sui cookie

Successivamente all’accettazione (totale o parziale) o al diniego del rilascio di cookie all’utente dovrà essere data la possibilità di modificare le proprie scelte.

Pertanto, nel footer del sito web dovrà essere indicato un link che indirizzi l’utente ad un’area dove potrà modificare le sue scelte.

  1. È vietata un’eccessiva reiterazione della richiesta del consenso al rilascio ai cookie

Il Garante Privacy ha notato che alcuni titolari di siti ripropongono il banner cookie ad ogni nuovo accesso dell’utente al medesimo sito, anche quando lo stesso utente abbia già effettuato una scelta acconsentendo o non acconsentendo al rilascio dei cookie.

Le Linee Guida condannano questa condotta, stabilendo che il banner cookie può essere riproposto solamente quando:

  • vi siano sostanziali modifiche sulla gestione dei cookie
  • siano trascorsi comunque almeno 6 mesi dall’ultima presentazione del banner.

Quanto entreranno in vigore le nuove Linee guida sui cookie?

Il Garante Privacy è consapevole che quanto richiesto nelle Linee Guida richiede importanti interventi ai titolari dei siti e degli eCommerce e alle società che gestiscono generatori di documenti e cookie plugin.

Proprio per questo motivo ha lasciato un lasso di tempo abbastanza lungo per conformarsi a quanto indicato nelle nuove Linee Guida.

Infatti, i siti hanno tempo 6 mesi dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale delle Linee guida sui cookie per mettersi a norma, ovvero fino al 10 gennaio 2022.

Conclusioni sulle Linee guida sull’uso dei cookie

Attualmente nessun generatore di documenti legali e cookie plugin è conforme alle nuove disposizioni normative.

LegalBlink insieme a Polimeni.Legal, il 9 luglio, ha partecipato ad una Tavola rotonda con il Garante Privacy organizzata da 4eCom.

In questo evento LegalBlink ha avuto modo, tra le altre cose, di confrontarsi sulle nuove Linee Guida (che sono state poi pubblicate il giorno successivo).

Da questo incontro sono emersi importanti spunti su come le società che permettono la generazione dei cookie banner e delle informative cookie (tra cui figurano i tool di LegalBlink) devono implementare le nuove disposizioni.

Maggiori informazioni sulle nuove Linee Guida sono disponibili in questo webinar organizzato LegalBlink.

Via Ninja Marketing

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Di Max Da Via' (del 30/07/2021 @ 07:28:18, in Social Networks, linkato 1075 volte)

Sdoganata l’importanza di essere presenti in rete, l’attenzione dei brand si è spostata sul come essere rilevanti per i propri pubblici. In questa ricerca di centralità il contenuto, oggi più che mai, è diventato la chiave per attrarre e conquistare l’attenzione scarsa delle persone. Il contenuto però può avere diverse forme, e la scelta della forma giusta non è secondaria perché, nell’attuale contesto mediale, può incidere sull’efficacia della comunicazione.

L’evoluzione dei formati mediali

Il web delle origini era fortemente limitato nella sua capacità di trasferire messaggi da un punto all’altro a causa di un’infrastruttura di rete non veloce come quella attuale. Di conseguenza i messaggi scambiati erano perlopiù testuali. All’aumentare delle capacità di banda si è creato lo spazio per contenitori e contenuti più ricchi da un punto multimediale, ma anche più densi in termini di capacità di sostenere un racconto complesso. Quindi dal testo siamo passati alle foto, all’audio, ai video, alle storie e agli oggetti tridimensionali.

Ma l’affermazione di un formato non è un processo facile o scontato. Solitamente è frutto di una battaglia per l’affermazione tra le aziende che lo propongono. Si tratta di un processo darwiniano nel quale entrano in gioco il time to market, l’entità degli investimenti in ricerca e in marketing, la capacità di tessere partnership e tanti altri elementi, che portano all’affermazione del cosiddetto “dominant design” (secondo la definizione di Utterback/Abernathy).

Il formato Story, introdotto da Snapchat nel 2013, ci ha messo tre anni prima di essere copiato dagli altri social media. Perché? Sicuramente ha inciso un elemento psicologico: l’incapacità di Zuckerberg di accettare il rifiuto di Evan Spiegel di farsi acquisire, che si è tramutata nella decisione di fargli guerra clonando la funzione più innovativa di Snapchat. E’ stata Ia scelta di Instagram a dare l’avvio alle copie successive da parte di WhatsApp, Facebook, YouTube, Twitter, LinkedIn e altri.
Il format storia si è affermato anche per ragioni intrinseche ossia perché ha rappresentato una nuova specie di formato, in grado di mettere insieme semplicità di creazione, durata temporanea e ricchezza di strumenti di racconto (l’utilizzo contemporaneo, in un unico contenitore, di forme espressive già esistenti: le foto, i video, la musica, i testi, gli adesivi statici e interattivi).

Sempre nel 2013, la startup Vine, poi acquisita da Twitter, introdusse dei video di 6 secondi che giunti alla fine ripartivano da capo. In pratica delle gif, ma con la qualità dei video. Potevano essere un’idea interessante? Non sapremo mai se fallirono perché l’azienda non fu capace di sostenerne l’adozione sul mercato o se gli mancasse qualcosa per diventare il formato dominante. Quello che sappiamo è che un anno dopo, nel 2014, Alex Zhu e Luyu Yang intuirono che i video brevi potevano funzionare se avessero avuto una colonna sonora portante, se fossero durati almeno 15 secondi e se avessero reso semplice l’aggiunta di effetti particolare (filtri, transizioni o modifiche alla velocità di riproduzione). Nacque così Musical.ly, poi acquisito da Bytedance e diventato TikTok/Douyin, l’applicazione che ha reso popolare questo nuovo formato, particolarmente attrattivo per i giovani, che è stato adottato anche da altre piattaforme social.

La matrice dei formati

Oggi la tavolozza dei formati mediali è molto ampia e per l’azienda e i creator il dilemma è quali usare per raggiungere efficacemente ed efficientemente il proprio pubblico. Per catalogarli ho provato ad usare due variabili: la semplicità di realizzazione e la ricchezza di racconto che abilitano.
Ovviamente entrambe le variabili possono dar luogo a scelte opinabili, ad esempio la prima può cambiare in funzione della complessità del contenuto, per cui qui ho valutato la semplicità di creazione del formato, pensando ad un contenuto semplice (su di essa incide anche l’esistenza di software di creazione gratuiti largamente utilizzati).
Per quanto riguarda la ricchezza del format, l’ho valutata in relazione ai mezzi espressivi che usa, per cui quello che permette di usare solo la voce è stato considerato meno ricco di quello che permette di usare più mezzi espressivi, anche se per lo spettatore potrebbe risultare soggettivamente più coinvolgente.


In questo modo emergono quattro quadranti di un piano cartesiano che possono aiutarci a capire le caratteristiche attuali dei contenuti e dove orientare gli sforzi produttivi:

  • Nel quarto quadrante, in basso a destra, si collocano i formati che richiedono un minor sforzo di produzione, ma anche più limitati in termini di possibilità narrative. I social post testuali, le foto, le gif, i grafici, ma anche i formati audio, i video brevi (tipo reels e tiktok) e i blog post che possono racchiudere testi, foto e video;
  • Nel terzo quadrante, in basso a sinistra, quelli difficili da realizzare e ad impatto narrativo medio-basso. Non a caso sono anche quello meno utilizzati. Nella parte più alta dello spazio si posizionano i casual game brandizzati, le data visualization complesse che raccontano una storia attraverso i dati, i video a 360° che provano a dare una visione più completa di un evento, le applicazioni di realtà aumentata. Ovviamente non esistono formati difficili da realizzare e con valore narrativo basso;
  • Nel secondo quadrante, in alto a sinistra, i formati con grandi possibilità narrative e difficili da creare perché richiedo formazioni specifiche e attrezzature costose. Quindi i video post prodotti che possono avere una difficoltà di realizzazione variabile e quindi molto vicini al primo quadrante, i video in grafica tridimensionale fino ad arrivare alla complessità dei videogiochi e delle applicazioni per la realtà virtuale che hanno enormi potenzialità narrative ancora inespresse, anche per i brand;
  • Nel primo quadrante, in alto a destra, trovano posto i formati semplici da realizzare e che hanno ricche possibilità di storytelling. Al momento mancano e infatti ho posizionato storie, live, magazine e ebook nella parte più bassa, ad indicare che si fermano ad un livello di narrazione mediamente denso.

A questa fotografia statica dei formati mediali digitali, la tecnologia aggiunge un movimento che va in due direzioni e che ci può far intuire la dinamica futura che potremmo attenderci:

  • un movimento dal basso verso l’alto, dal terzo al secondo quadrante, che spingerà i con basse potenzialità narrative a mutare per acquisirne di nuove (o, altrimenti, a scomparire dalla tavolozza delle possibilità creative). Ad esempio la realtà aumentata che oggi viene utilizzata dai brand soprattutto per attività di “try on” (per la prova del rossetto o per maschere ed effetti in sovraimpressione) potrebbe dar luogo a racconti di marca più ricchi;
  • un movimento da sinistra a destra, dal secondo al primo quadrante, che spingerà i formati che ora sembrano difficili da utilizzare a diventare alla portata di un numero maggiore di persone, grazie a software no-code (che non richiedono scrittura di codice) largamente accessibili a prezzi più bassi. Ad esempio, negli scorsi anni, strumenti come Canva e Flourish hanno semplificato la realizzazione di grafiche e infografiche interattive. O, ancora, basti pensare che i video brevi di TikTok, pieni di effetti e transizioni, prima avrebbero richiesto l’uso di software professionali;

Questa matrice dei formati può essere utile ad aziende e creator per capire quali formati utilizzare in ragione dell’impegno che si vuole profondere nella loro creazione, delle risorse a disposizione e delle proprie capacità. Naturalmente non è necessario utilizzare quanti più formati possibile. Come sempre, a guidare le scelte dovrebbe essere l’obiettivo e le caratteristiche del pubblico che s’intende raggiungere, non la moda del momento.

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Di Max Da Via' (del 02/07/2021 @ 07:01:51, in Social Networks, linkato 1119 volte)

Oggi chiunque produca contenuti in rete ha l’opportunità di trasformare la propria passione in una professione, di ottenere un reddito dalla propria attività online. A tal proposito si parla di economia delle passioni o economia dei creator per descrivere il mercato nato attorno a questa possibilità, fatto di influencer che offrono contenuti/beni/servizi, follower che li acquistano e intermediari che rendono più agevole questa transazione. Questi intermediari possono essere aziende che nascono con questo specifico compito (Patreon, Only Fans, Cameo, …) o social media.

YouTube, già dal 2007, ha lanciato un “partner program” destinato ai videomaker più attivi e famosi, che prevede forme di “revenue sharing” ossia di condivisione di ricavi e che nel tempo si è arricchito di altre formule di monetizzazione. Negli anni successivi anche gli altri social media hanno iniziato a offrire opportunità di reddito ai creator.
Tra questi spicca Twitch, piattaforma di live streaming acquisita da Amazon, che è riuscita a soffiare diverse stelle del video a YouTube proprio per la convenienza del suo programma di affiliazione. Infine Facebook e Instagram che, anche se in ritardo, hanno dalla loro parte la forza dei numeri, essendo le piattaforme più frequentate in occidente. 

Le forme di monetizzazione principali

Le opzioni di monetizzazione possono essere ricomprese in queste casistiche:

Annunci: gli influencer che producono video possono guadagnare quando la piattaforma inserisce degli annunci pubblicitari all’interno dei stessi (prima, durante e dopo) o all’esterno (display ads). Nel caso di YouTube possono essere video ads (skippabili o meno),  “cards”  o banner che appaiono in sovraimpressione.
L’inserzionista paga alla piattaforma una somma variabile per ogni 1000 visualizzazioni erogate (Cost per Mille Impression). Al creator spetta, a seconda delle regole dei vari social media, una percentuale degli introiti proporzionale al numero di visualizzazioni generate durante i suoi video. YouTube e Facebook condividono il 55% delle entrate provenienti dagli annunci. 

Abbonamenti: è la formula che permette ai creator di abilitare le membership ossia gli abbonamenti sui suoi canali. Pagando una somma mensile, l’abbonato ottiene diversi benefici: contenuti esclusivi, badge (scudetti che mostrano alla community lo status di abbonato), emoji o emotes (piccole immagini personalizzate che gli utenti usano nelle chat e che vanno a costituire una sorta di linguaggio comune condiviso).
Dall’ammontare dell’abbonamento la piattaforma trattiene una percentuale (quella di YouTube è del 30%, quella di Twitch il 50%, Facebook non trattiene nulla se la transazione è fatta via web, mentre da mobile trattiene il 30%, che rappresenta il tributo dovuto agli store di Apple e Google). 

Donazioni: quando un influencer riesce a creare un rapporto empatico e di fiducia con la sua community, può provare a stimolare delle donazioni. Alcuni si limitano ad esporre un link al proprio account Paypal, altri usano le funzioni native della piattaforma utilizzata.

Su YouTube, durante un live show, gli spettatori possono comprare la possibilità di mettere in evidenza il proprio commento (funzione detta Super Chat) o di corredarlo da un adesivo animato (Super Sticker) in modo da essere notati dal creator. Il commento verrà messo in risalto sulla parte alta della chat e vi rimarrà per un tempo variabile a seconda dell’ammontare donato.  Un’altra forma di “tipping”, al momento in fase di test, sono gli “applausi” che possono essere donati anche per i video preregistrati. Hanno tagli predefiniti di 2, 5, 10, o 50 dollari.

Twitch ha una propria moneta virtuale chiamata “Bits”, rappresentata da gemme colorate. L’utente può comprare pacchetti di bits, pagando in euro, e poi li può distribuire agli streamer in chat, per incoraggiarli durante le dirette o celebrare una vittoria, scrivendo in chat (pratica del “cheering” che gli varrà l’acquisizione di un “Cheer Chat Badge”). Naturalmente, il ricevente potrà accumulare queste monete virtuali e poi ottenere il corrispettivo in valuta reale (1 centesimo per bit).


Un meccanismo simile è quello previsto da Facebook e chiamato “Stars” perché al posto delle gemme gli utenti possono comprare stelle da donare agli streamer preferiti. Chi dona riceve un badge di riconoscimento e le donazioni più cospicue vengono messe ben in evidenza nella parte bassa della chat. Un elemento di novità è la possibilità di comprare dei “virtual gifts” ossia delle animazioni che vanno a sovrapporsi, per un attimo, a tutta la chat. Dunque catturano immediatamente l’attenzione degli spettatori, ma sono anche più costose (possono costare fino a 10.000 stelle ossia 100 dollari).

Programmi Speciali

Marketplace: i grandi social player hanno lanciato in sordina alcuni programmi particolari di monetizzazione.
Amazon ha esteso il suo programma di affiliazione, creando “Amazon Influencer Program”. Con esso gli influencer qualificati possono creare una vetrina personale su Amazon (con un indirizzo univoco), nella quale ospitare e raccomandare i prodotti venduti dal marketplace, in cambio di una percentuale sulle vendite.

Facebook ha lanciato il “Brand Collabs Manager” (accessibile dal Creator Studio) un modo per far incontrare aziende e influencer eligìbili (ad esempio che hanno un canale Facebook o Instagram con più di 1000 follower e un post con almeno 15000 interazioni). In pratica le aziende possono accedere ad un motore di ricerca per individuare l’influencer più adatto alla propria campagna e proporgli una partnership a pagamento (che sarà contrassegnata da una specifica etichetta a corredo del post sponsorizzato).

TikTok ha un’iniziativa simile, chiamata “Creator Marketplace”, mentre Twitch ha creato il “Bounty Program”, una sorta di marketplace che permette alle aziende di elencare delle attività desiderate e agli streamer di accettarle (le vedranno apparire nella propria dashboard). Ad esempio l’azienda può richiedere di giocare in live streaming ad un certo gioco per un’ora, in cambio di 100 dollari

Fondi speciali: alcune aziende hanno creato dei programmi di supporto per stimolare gli influencer a produrre contenuti interessanti. Il TikTok Creator Fund da 200 milioni di dollari, distribuisce denaro a seconda delle performance dei video (secondo criteri non trasparenti). YouTube e Snapchat ne hanno creati due per aumentare la creazione di video brevi, chiamati rispettivamente, Shorts e Spotlight. Pinterest e Clubhouse li hanno pensati per far emergere creator originali.

Altre forme di monetizzazione

Ci sono poi forme di monetizzazione possibili, ma non contemplate nativamente dalle piattaforme social:

Merchandising: così come quando si va al concerto è presente il banchetto con magliette e altri oggetti personalizzati, anche sui social media gli influencer possono prevedere la vendita di merchandising dalla propria pagina. Generalmente la piattaforma consente semplicemente di postare link a store di ecommerce specifici (Shopify, Teespring, Spreadshop, ecc.). Su YouTube, sono ospitati sotto i video.

Affiliazione: un altro modo per guadagnare sui social è quello di ospitare sul proprio canale dei link (tracciati) a prodotti che, se acquistati, danno diritto a ricevere una piccola percentuale. Ogni piattaforma permette di postare dei link di affiliazioni a network esterni, ma recentemente Instagram ha annunciato il test di uno strumento nativo di affiliazione con il quale i creator potranno scoprire nuovi prodotti disponibili per l’acquisto, condividerli con i propri follower e ottenere una commissione.

Nei prossimi mesi i social media non potranno far altro che potenziare le funzioni di monetizzazione perché esse diventeranno un esca molto rilevante per spingere i creator più popolari a scegliere dove pubblicare e portare il proprio seguito. I creator, dal canto loro, dovranno capire se converrà legarsi ad un’unica piattaforma o costruire il proprio palcoscenico su un campo neutro (un sito, un blog) e integrare i servizi di monetizzazione offerti da “aziende non social”.

Via Vincos blog
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Di Max Da Via' (del 18/06/2021 @ 07:11:24, in Marketing, linkato 1309 volte)
  • L’86% degli utenti Internet gioca su qualsiasi tipo di dispositivo e questa cifra non è cambiata quasi mai dal 2015;
  • il gaming online è ora il mezzo dominante, con il 22% dei giocatori che ha acquistato un gioco tramite servizio digitale nell’ultimo mese;
  • il 35% dei followers degli eSport segue un giocatore specifico o una squadra di eSport sui Social Media.

L’industria del gaming online si è consolidata nell’ultimo anno e mezzo, principalmente come conseguenza della pandemia di Covid-19, e secondo le previsioni di mercato dovrebbe superare i 200 miliardi di dollari di entrate nel 2023.

In generale si analizza il gaming online dal punto di vista del mercato, dei Brand e dei giochi disponibili, ma si rivolge poca attenzione ai profili dei singoli giocatori. 

Per riuscire ad intercettare questo target sui Social Media è necessaria una visione a 360 gradi della vita dei giocatori sia online che offline, per capire in profondità cosa caratterizza il giocatore moderno.

Prima di tutto, bisogna sapere che il target “gamers” comprende un ecosistema di diversi sottogruppi e identità. Ci sono persone che giocano per motivi differenti e su dispositivi diversi, oppure che consumano contenuti di gioco – per esempio guardando le dirette su Twitch. Infine ci sono gli eSport, che appartengono a un mondo differente.

LEGGI ANCHE: eSport Marketing: 5 cose da sapere prima di iniziare

Cerchiamo quindi di capire chi sono e cosa cercano i gamers in questo articolo basato sul report “The Gaming Playbook” pubblicato da Global Web Index, che raccoglie i dati tratti dalla ricerca effettuata su 19.488 giocatori di età compresa tra 16 e 64 anni, condotta in 15 mercati (Australia, Brasile, Canada, Francia, Germania, India, Indonesia, Italia, Giappone, Messico, Filippine, Spagna, Tailandia, Regno Unito e Stati Uniti).

Da questa ricerca possiamo estrarre 5 insight principali che aiutano a sviluppare una strategia Social efficace per raggiungere i gamers online.

#1 Il target gamers è più vasto di quello che si possa immaginare

Anche se può sembrare che la pandemia di Covid-19 abbia creato una legione di nuovi giocatori, il mondo dei gamers è sempre stato più grande di quello che i Brand si immaginavano.

Il pubblico dei videogiochi infatti è sempre stato consistente – anche se è rimasto sommerso per anni. I dati mostrano che l’86% degli utenti Internet gioca su qualsiasi tipo di dispositivo e questa cifra non è cambiata quasi mai dal 2015. 

Quello che è successo realmente è che il lockdown e la mancanza di altri modi di passare il tempo hanno evidenziato quante sono effettivamente le persone che giocano online.

In particolare, è interessante vedere quanto sia centrale l’aspetto sociale per i giocatori nel 2021 – dato il distanziamento forzato nella vita reale. La maggior parte dei gamers tra i 16 e i 24 anni gioca per socializzare con gli amici (35%) al contrario della fascia 25-34 anni che gioca per il gusto della sfida (30%).

Un dato collegato è anche quello relativo ai tipi di giochi preferiti dagli utenti. Risulta infatti che dal 2018 quelli di simulazione (+24%) abbiano registrato la crescita maggiore, seguiti da rompicapo e strategia (+15%).

Questi tre tipi di giochi diversi hanno alcune caratteristiche in comune, che possiamo identificare con i termini immersione, competizione e cognizione.

Quando parliamo di immersione ci riferiamo modalità di gioco dove i partecipanti simulano la vita in un mondo virtuale persistente, come se fosse un luogo realmente abitato – due tra gli esempi più famosi sono Fortnite e Animal Crossing.

La competizione si riferisce ovviamente a generi basati sul multiplayer competitivo, in particolare il battle royale. Risulta infatti molto difficile ignorare l’impatto che ha avuto – per esempio – Fortnite, che ha permesso a centinaia, se non migliaia di persone, di giocare insieme contemporaneamente.

Per ultimo parliamo di cognizione, un termine che si collega maggiormente ai giochi caratterizzati da meccanismi di risoluzione dei problemi e di ricompense, che offrono un’esperienza completa e complessa che va più in là di una semplice giocata occasionale.

Ovviamente ci sono ancora molti giocatori occasionali, ma possiamo vedere come i giocatori stiano cercando esperienze più stimolanti mentalmente, probabilmente causate dalla necessità di riempire il tempo libero durante il lockdown dovuto alla pandemia.

#2 I gamers possiedono in media due o più console diverse

Se in passato era probabile che un gamer avesse solo una console – per esempio la PlayStation o l’Xbox – negli ultimi anni l’adozione di più console da parte di un singolo giocatore sta diventando sempre più comune, in quanto i consumatori non vogliono essere limitati nei confronti dell’offerta. 

Inoltre, è interessante osservare come i gamers con figli hanno il 24% di probabilità in più di possedere 2 o più console, dimostrando come diversi marchi hanno potere di acquisto su differenti target nella stessa famiglia. 

Per esempio, nonostante Playstation sia il leader in questo segmento, vediamo come il dispositivo Nintendo Switch si è impadronito dello slot della “seconda console” in un anno da record.

Ma anche se le vendite di videogiochi fisici giocano ancora un ruolo importante, c’è stato un calo del 13% tra i giocatori di console tra il primo e il quarto trimestre del 2020 – il che significa che il gaming online è ora il mezzo dominante, con il 22% dei giocatori che ha acquistato un gioco tramite servizio digitale nell’ultimo mese.

Quindi è importante menzionare i servizi di abbonamento che permettono il multiplayer online e offrono ai giocatori news, giochi gratuiti o sconti esclusivi, che attraggono principalmente giocatori frequenti con maggiore capacità di spesa.

Infine, esistono anche servizi di cloud gaming – come ad esempio Xbox Game Pass o PSNow – che forniscono accesso a librerie di giochi meno recenti e aggiornate.

#3 Il videogioco è solo la punta dell’iceberg: quello che conta sono gli acquisti in-app e i componenti aggiuntivi

Le microtransazioni, i DLC (DownLoadable Content) e i componenti aggiuntivi sono diventati importanti fonti di guadagno negli ultimi anni, fino a superare il videogioco stesso.

Molti giochi free-to-play infatti – come Fortnite e League of Legends – hanno guadagnato soldi a palate con gli acquisti in-app di nuovi costumi per i personaggi o upgrade di livello. Activision-Blizzard ha guadagnato $1,2 miliardi di entrate tra luglio e settembre 2020 provenienti esclusivamente da microtransazioni in-game.

La maggior parte dei giocatori nei mercati analizzati afferma di spendere una media di $10 al mese in acquisti in-game. Coloro che spendono di più (arrivando a spendere anche $50 al mese) risultano essere millennial uomini con un reddito alto.

Dall’altro lato le giocatrici donna acquistano più micro-transazioni rispetto ad altri componenti aggiuntivi, probabilmente a causa del loro interesse per i marchi che offrono prodotti personalizzati. 

Se guardiamo invece all’età dei gamers, vediamo come le generazioni più giovani (GenZ) siano molto più propense ad acquistare DLC e abbonamenti stagionali rispetto ai Millennials.

Parlando di console, i giocatori di Xbox e Nintendo Switch hanno maggiori probabilità di acquistare componenti aggiuntivi rispetto ai giocatori di PlayStation. 

Possiamo quindi dedurre che capire chi acquista cosa e perché è fondamentale per riuscire a raggiungere il target corretto in modo diretto.

#4 I Social Media sono la fonte di informazione principale dei gamers

Come succede per qualsiasi altro consumatore, anche ai gamers piace condividere e discutere delle loro esperienze tra loro, soprattutto attraverso i propri canali social. 

Ed è per questo che i giocatori con una presenza attiva sui Social Media possono rivelarsi importanti leve di comunicazione per un Brand. Esiste infatti un vasto ecosistema di comunità online di gamers occasionali o professionali che scambiano pareri e recensioni sui social, ed è fondamentale riuscire ad intercettarli.

In queste comunità si osservano principalmente tre tipi di gamers:

  • Passivi: giocatori le cui opinioni sono ricavate da esperienze di conoscenti stretti o create a partire da contenuti condivisi dai Brand, oppure dalle recensioni degli Streamers online, ma che raramente vengono condivise online con altri utenti;
  • Critici: giocatori che hanno blog tematici, scrivono recensioni online, partecipano alle comunità online o pubblicano spesso sui Social Media. Un pubblico che può risultare influente per plasmare le opinioni degli altri consumatori;
  • Streamer: giocatori che trasmettono in streaming le loro giocate o caricando video su piattaforme di condivisione video; sono paragonabili ai critici, ma in genere più informati ed esperti sul tema.

Vale la pena notare come gli amici – online o offline – rimangono fortemente influenti sulle decisioni e il comportamento dei gamers. Sapere che qualcosa viene consigliato da un amico, che probabilmente ha gli stessi interessi e gusti in tema di videogiochi – sarà sempre importante. 

Inoltre, se da un lato i siti di intrattenimento e le riviste di giochi non vengano particolarmente consultati dal pubblico passivo, vediamo come influiscano notevolmente sugli streamer, plasmando le loro opinioni e di conseguenza i contenuti che probabilmente arriveranno indirettamente al pubblico passivo tramite i Social Media.

#5 Gli eSport catalizzano gli investimenti pubblicitari dei grandi Brand

Nel corso degli anni, gli eSport – ovvero i giochi competitivi professionali – hanno seguito una evoluzione a sé stante, fino a consolidarsi come una delle forme di gaming più famose, ma soprattutto redditizie per i Brand. 

Si prevede infatti che i ricavi pubblicitari provenienti solo dagli eSport sfioreranno i $1,8 miliardi entro il 2023 e gli spettatori totali raggiungeranno i 646 milioni entro lo stesso anno. Inoltre, visto che la pandemia ha ridotto gli eventi sportivi dal vivo, anche gli eSport hanno contribuito a colmare il vuoto sociale e di intrattenimento lasciato alle spalle.

Con rispetto al pubblico generale dei gamers, i giocatori di eSport si differenziano sotto diversi aspetti, in particolare per quanto riguarda il loro atteggiamento nei confronti delle sponsorizzazioni.

In generale, possiamo vedere come Generazione Z e Millennials siano le fasce di età maggiormente interessate agli eSport. Ma anche tra i giocatori più anziani della Generazione X troviamo un 38% di seguaci degli eSport.

Per quanto riguarda il sesso, anche se per anni gli eSport sono stati percepiti come uno spazio dominato dagli uomini, osserviamo un 42% di donne giocatrici rispetto alla controparte maschile maschili al 58%.

Emerge inoltre che oltre la metà dei gamers amano i giochi con forti personaggi femminili e il 35% segue un giocatore specifico o una squadra di eSport sui Social Media. Questo dato suggerisce che una strategia efficace per i Brand potrebbe essere quella di utilizzare squadre e giocatori di eSport come Influencer nelle loro campagne. 

Infine, questo gruppo di giocatori è fortemente concentrato sulla comunità ed è disposto a spendere in prodotti premium, mostrando una maggiore ricettività nei confronti degli annunci.

La ricerca mostra come i follower degli eSport apprezzano molto lo status sociale, il coinvolgimento e l’esclusività, infatti hanno il 33% di probabilità in più rispetto al giocatore medio di volere che i brand gestiscano community e forum tematici.

Sono anche molto più propensi a promuovere il loro Brand preferito quando migliora il loro stato online oppure se hanno accesso a contenuti o servizi esclusivi grazie ad esso.

Per concludere, parafrasando le parole di Nina Mackie – Direttore Global Agency Partnerships di Admix – possiamo affermare che oggigiorno il targeting dei gamers è cruciale per gli inserzionisti.

Il settore del gaming online pesa per 2,5 miliardi dollari dei 2,7 miliardi del mercato globale dei videogiochi e incorpora quasi tutti i dati demografici immaginabili. Per i Brand che cercano di incorporare la pubblicità in-play nei loro piani di marketing, è indispensabile una strategia basata sugli insight per raggiungere il pubblico obiettivo.

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Di Max Da Via' (del 08/06/2021 @ 07:34:28, in Marketing, linkato 1218 volte)

La strada del marketing come pratica aziendale  nasce probabilmente con l’esigenza del produttore e del commerciante di vendere i proprio prodotti, in presenza di una qualche forma di concorrenza. La teoria del marketing, come sistematizzazione di pensieri e pratiche degli uomini di marketing, vede la luce più tardi grazie anche ad ottimi divulgatori come Philip Kotler.
Si possono distinguere diversi approcci al marketing che si sono susseguiti negli anni:

  • Orientamento alla produzione: all’inizio del 900 la domanda è enormemente superiore all’offerta di prodotti e, dunque, l’imprenditore si concentra solo sulla riduzione dei costi di produzione;
  • Orientamento al prodotto: in questa fase l’attenzione dell’azienda è rivolta esclusivamente a migliorare il prodotto, nella convinzione che il consumatore non stia aspettando altro (problema battezzato “marketing myopia” da Theodore Levitt);
  • Orientamento alle vendite: negli anni 50/60 l’offerta inizia a superare la domanda e il problema diventa come piazzare tutti i prodotti disponibili. L’imprenditore punta su tecniche commerciali aggressive, incremento della forza vendita e campagne pubblicitarie a tappeto;
  • Orientamento al marketing: solo negli anni 90 le imprese iniziano a capire l’importanza di sviluppare strategie di business, partendo dalla comprensione dei  bisogni dei clienti. Inizia l’era del marketing.
gli orientamenti al marketing

Con la diffusione di internet si è iniziato a parlare di digital marketing, una definizione che non mi ha mai convinto perché ha spostato pericolosamente l’attenzione solo sulla parte più nuova della pratica di marketing e in particolare sugli strumenti e le tecniche.

Purtroppo l’enfasi sugli strumenti generata dall’hype attorno al digital marketing ha portato un’intera generazione di professionisti a saltare a pie’ pari lo studio dei fondamenti del marketing per buttarsi a capofitto nell’utilizzo dei “tool”. Così facendo molti hanno imparato a usare perfettamente gli strumenti disponibili, ma aderendo inconsapevolmente alla loro logica di progettazione e perdendo di vista gli obiettivi aziendali.

Una nuova classificazione del marketing moderno

Nel mio libro “Marketing Aumentato” propongo una classificazione del marketing in funzione di due variabili: la dinamicità del mercato e la propensione tecnologica dell’azienda.

tipologie di marketing moderno

Se l’azienda si trova ad operare in mercati statici e prevedibili può benissimo far ricorso ad un marketing tradizionale, senza alcun tipo di automazione. Certo, il ricorso ad un set basilare di strumenti digitali usati con un approccio tattico è utile anche in questo caso. Se i concorrenti sono talmente anchilosati da non usarli, anche un utilizzo minimo può diventare un vantaggio competitivo. Si pensi, ad esempio, alla presenza sui social media e all’investimento in social advertising per promuovere alcune specifiche iniziative commerciali. Alcune analisi possono essere svolte saltuariamente su dati strutturati e attraverso fogli di calcolo o utilizzando strumenti analitici nativi (es. Google Analytics per monitorare il traffico).

Quando invece il mercato è meno turbolento e le risorse a disposizione sono inferiori si può anche scegliere un tipo di marketing automatizzato, in cui il team di marketing fa uso di software di marketing automation per svolgere i compiti più standardizzati e ricorrenti (qui la mappa dei software martech italiani). L’obiettivo qui non è ottenere un vantaggio competitivo, ma rendere più efficaci ed efficienti i processi di lavoro, liberando del tempo per attività a maggior valore aggiunto.  

Infine quando il mercato dell’azienda è molto dinamico, con una competizione agguerrita e una domanda mutevole, è necessario passare al marketing aumentato. In questi casi, i manager dovranno dotarsi dei talenti giusti e delle tecnologie più avanzate per sviluppare un moderno approccio al mercato. Qui la tecnologia viene utilizzata in maniera strategica per ottenere un vantaggio competitivo e, magari, ripensare il proprio modello di business.

Qualunque sia lo stadio dal quale si parte, è tempo di ripensare il marketing, partendo dalle basi, ma indossando degli occhiali nuovi, in grado di aumentare la nostra percezione delle possibilità e le nostre capacità di azione

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Di Max Da Via' (del 20/05/2021 @ 07:21:27, in Marketing, linkato 1327 volte)

Quanti sono i fan di eSport in Italia? Sfatiamo subito un mito: non è un’attività solo per ragazzini e non è limitata a una ristretta cerchia di persone.

Gli appassionati di eSport italiani sono 6 milioni, ossia il 12% della popolazione maggiorenne. Sono dati scaturiti dalla ricerca “Gaming ed eSport in Italia” realizzata da Yougov per i membri dell’Osservatorio Italiano eSport (OIES), e che fanno dell’Italia il secondo Paese in Europa per “fanbase eSportiva”.

Il report, che per la prima volta censisce il target eSportivo italiano, porta alla luce dati che ridisegnano lo stereotipo del gaming e traccia una fotografia puntuale della sua composizione. La ricerca fa parte del Centro Studi Nazionale eSports dell’OIES, che è il primo database di dati su questo settore in Italia.

gamers in Italia

Innazitutto il genere. L’eSport in Italia è un fenomeno che sta interessando sempre di più le donne. Infatti il, 37% del target degli appassionati è femminile, percentuale sempre più in crescita.

Poi l’età. L’eSport non è un mondo prettamente destinato alla generazione Z, ma è trasversale su tutte le generazioni. Tra coloro che si dichiarano anche giocatori, troviamo sicuramente una preponderanza nella fascia 18-24 anni. Si registrano però valori sopra la media anche in quella 25-34, fino a punte di giocatori al di sopra dei 55 anni. Questo dimostra come il gaming sia un’attività capillare nella popolazione italiana, e non legata a un solo target.

Gli italiani dimostrano inoltre una rilevante inclinazione verso il consumo di contenuti video di gaming su varie piattaforme streaming: in Europa siamo al primo posto per utilizzo di YouTube Gaming e godiamo invece del terzo gradino in riferimento a Twitch e Facebook Gaming.

In Italia gli appassionati di gaming si dividono in due principali categorie, ciascuna delle quali con delle peculiarità che rivelano abitudini e comportamenti eterogenei.

Stiamo parlando degli Hardcore gamers, giocatori abituali attivi sotto l’aspetto competitivo, e degli eSport fan, appassionati che non necessariamente sperimentano gli aspetti competitivi, ma fruiscono degli eSport principalmente come intrattenimento.

gamers fanbase in Italia e in Europa

Gli Hardcore gamers: quando il gioco diventa uno stile di vita

Il 2,7% degli italiani maggiorenni appartiene al gruppo degli Hardcore gamers (HC gamers), ovvero coloro che dedicano più di 21 ore alla settimana al gioco e non solo. Infatti, si registra un alto consumo mediale: una buona parte degli intervistati dichiara di spendere settimanalmente più di 50 ore sul web (19%) e più di 20 ore di fronte alla TV (40%).

Facciamo riferimento a un insieme di 1,38 milioni di italiani per lo più giovani, di cui ben il 39% è donna. Un dato da non trascurare è che il 45% di essi vive in famiglie dal reddito medio basso. Sono giovani che dichiarano di sentirsi spesso annoiati (49%), di non temere il rischio (42%), e soprattutto di desiderare di aprire una propria attività (49%).

Si tratta di un target che attribuisce importanza all’informazione tempestiva, aggiornandosi quotidianamente attraverso blog e riviste stampate, principalmente a tema sportivo.

A proposito di sport, gli HC gamer sono amanti di quelli tradizionali, tant’è vero che, rispetto a tutta la popolazione, seguono anche discipline come boxe, football americano, arti marziali e l’immancabile calcio.

gamers e advertising

Gli eSport fan: la passione che genera peculiari abitudini e comportamenti

La seconda categoria di target eSportivo fa invece riferimento agli eSport fan, che appunto sono 6 milioni. Il 37% è di sesso femminile: un dato importante nel ribadire che gli eSport stimolano nuove prospettive per intercettare anche il genere femminile.

Gli eSport fan che, pur non manifestando un’abitudine di gioco ordinaria, sostengono che la professione di atleta professionista sarebbe il miglior mestiere del mondo (41%).

Una passione che definisce abitudini e comportamenti di vita peculiari: il 41% dichiara di avere molto tempo libero. Nel consumo dei social media scompare Facebook: i social più utilizzato sono Instagram, Twitter e Tik Tok. A livello di intrattenimento usufruiscono principalmente di servizi streaming in abbonamento.

Gli eSport fan tendono inoltre ad acquistare spesso cibo da asporto e a consumare snack o merendine tra i pasti. Una consuetudine che può giustificare una buona propensione all’acquisto verso marchi come McDonald’s, Burger King, Old Wild West e Deliveroo.

Un’ottima inclinazione è evidente anche quando si parla di advertising che apparentemente non li infastidisce ma al contrario funge da driver nelle scelte di acquisto di circa il 61% degli eSport fan. Difatti, circa metà di loro dichiara di essere attento alle pubblicità online e sulle riviste che legge.

gamers e social media

Ecco che sia gli Hardcore gamers che gli eSport fan dimostrano una forte attrazione verso gli sport tradizionali. Anche in questo caso, a suscitare interesse non sono solo il calcio e il basket ma anche discipline di nicchia come Formula E (22%), wrestling (11%) e rugby (18%).

Da questi dati emerge quanto gli eSport non siano relegati alla modalità competitiva, ma quanto stiano assumendo sempre più un valore di intrattenimento. È proprio in questo senso che gli eSport diventano un canale di comunicazione e marketing per i brand che vogliono intercettare quel pubblico di giovani adulti che non fruisce dei media tradizionali.

È un target nuovo, che contrasta con le abitudini di altre tipologie di pubblico, che apprezza la pubblicità e non è infastidito.

Proprio per questo motivo, gli eSport rappresentano oggi la nuova frontiera del marketing per le aziende.

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Di Max Da Via' (del 12/05/2021 @ 07:19:32, in Advertising, linkato 1239 volte)

Torna l'andamento positivo per il mercato degli investimenti pubblicitari in Italia, che chiude il mese di marzo a +30,7% rispetto allo stesso periodo del 2020, portando la raccolta pubblicitaria del 1°trimestre a +3,4%. Se si esclude dalla raccolta web la stima Nielsen sul search, social, classified (annunci sponsorizzati) e dei cosiddetti “over the top” (ott), l’andamento nel periodo gennaio – marzo si attesta a -1,4%.

“A marzo riprende la crescita come ormai chiaramente diversi segnali avevano preannunciato. - spiega Alberto Dal Sasso, Ais managing director di Nielsen. “Una crescita robusta che porta il trimestre in segno positivo, il che è importante per tutta l’industry. Ma se vogliamo valutare meglio questo segnale può essere utile ricordare che il confronto con il primo trimestre degli ultimi tre anni precedenti l’anno del covid-19 fa segnare ancora un po’ di sofferenza, vale a dire una perdita in media del 6,2%. Mancano dunque all’appello per tornare alla linea di crescita pre-crisi circa 125 milioni, che potranno tornare a contribuire alla crescita nei prossimi mesi anche grazie agli eventi.”.

Relativamente ai singoli mezzi, la tv è in crescita del 39,2% a marzo e chiude il trimestre a 5,9%. In positivo anche i quotidiani, che a marzo crescono del 12,4%, consolidando il 1° trimestre a -6,7%. Sempre in negativo i periodici, sia nel singolo mese che per il trimestre, con cali rispettivamente del -24,7% e -32,2%. In positivo anche la radio che cresce del 26,5% a marzo e chiude il trimestre a -17%. Sulla base delle stime realizzate da Nielsen, la raccolta dell’intero universo del web advertising nel primo trimestre dell’anno chiude cn un +12,1% (6,4% se si considera il solo perimetro Fcp AssoInternet). Continuano ad essere in difficoltà l’outdoor (-59.6%) e il transit (-65,8%). Il direct mail è sempre in negativo (-10,5%) ma riduce le perdite. I fatturati di go tv e cinema non sono disponibili.

I settori merceologici che sono in crescita nel 1° trimestre sono 11, ma sono 18 i settori in positivo nel singolo mese di marzo, A marzo tornano ad investire cura persona (+87,7%), automobili (56,7%) e alimentari (+15,2%). Relativamente ai comparti con una maggiore quota di mercato, si evidenziano nel trimestre gli andamenti negativi di farmaceutici/sanitari (-10%) e media/editoria (-11,8%) e gli andamenti positivi di distribuzione (+37,6%), abitazione (5,4%) e telecomunicazioni (+13,3%).

“Riprendere la linea di crescita di medio periodo è possibile ed i margini ci sono per le note condizioni del nostro mercato. L’andamento sostenuto dei vaccini è stato uno dei driver di crescita congiunturale del Pil negli Stati Uniti (+1.6%) nel primo trimestre, non è un caso che la zona Euro veda ancora una contrazione dello 0.6%. Questo per dire che il cambio di passo che stiamo vedendo potrà portare beneficio ai consumi, e dunque in linea mediata anche agli investimenti”, conclude Dal Sasso.

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Di Max Da Via' (del 05/05/2021 @ 07:33:50, in Social Networks, linkato 1239 volte)

Il nostro modo di scoprire i prodotti e fare acquisti è molto cambiato con la diffusione di internet, ma continuerà a cambiare quando luoghi, formati e commercio si intrecceranno. Abbiamo già visto come i social media si stiano trasformando in centri commerciali e come il formato video sia sempre più preferito nella sua modalità live.

Proprio all’intersezione tra social, live video e ecommerce sta nascendo un nuovo fenomeno che vale la pena analizzare. Alcuni lo chiamano Shopatainment per porre l’accento sugli elementi di intrattenimento, ma forse è più preciso identificare come Social Live Commerce. Sono infatti gli elementi della diretta e della socialità a caratterizzare questo modello di compravendita. Certo, l’intrattenimento può essere un elemento anche molto importante, ma non fondamentale per capirne l’essenza.

Le radici più profonde del fenomeno si possono far risalire alle televendite, che conosciamo bene in occidente, ma è in Cina che si è sviluppata questa nuova mutazione a partire dal 2018. Nel 2019 il mercato cinese del live commerce si stima abbia raggiunto i 66 miliardi di dollari (+226% rispetto all’anno prima) e si prevede che nel 2021 possa raggiungere una dimensione di oltre 172 miliardi di dollari. La Cina è anche il paese del mondo che ha il più alto rapporto tra vendite online e offline (35%).

Caratteristiche del Social Live Commerce

Nei paesi asiatici questo tipo di formato vive quasi esclusivamente sugli smartphone, perché la popolazione è abituata ad utilizzarli per tutto, in occidente non sarà necessariamente così. Da un punto di vista estetico uno show di questo tipo si sviluppa su due piani:

  • un flusso video in diretta che mostra il conduttore e i suoi ospiti. Nelle visualizzazioni da desktop occupa sempre la parte più rilevante dello schermo, in quelle da mobile il video può essere rimpicciolito e messo in modalità “picture in picture” per consentire all’utente di navigare verso la pagina del prodotto;
  • elementi in sovrimpressione: i commenti e le reazioni degli spettatori, i coupon e gli sconti, l’immagine del prodotto con il link per l’acquisto, il livello personale di fedeltà, sono tutti elementi che affollano lo schermo e danno stimoli sensoriali al pubblico.

Le caratteristiche principali del Social Live Commerce sono le seguenti:

  • Conduzione: lo stile è molto informale, tipico delle televendite. L’host punta a sviluppare una relazione empatica con lo spettatore.
    Il venditore può essere un rappresentante aziendale (spesso i commessi o a volte il CEO), ma nella maggior parte dei casi è un influencer o KOK (Key Opinion Leader, come viene definiti in Asia). La più famosa è Viya, che in un solo giorno ha realizzato vendite per oltre 380 milioni di euro).
    In Cina gli show solitamente vanno in onda dalle 20 alle 24, con una media di 12 prodotti presentati all’ora. Ma ci sono anche dirette più lunghe.
    La dimostrazione delle funzioni di prodotto è intermezzata dalle risposte date alle curiosità degli spettatori e da discussioni con gli ospiti, che possono anche essere chiamati ad esibirsi, ad esempio cantando, come in un tipico talk show.
  • Set: spesso si svolge in uno studio di registrazione oppure da un negozio/centro commerciale, che punta a restituire l’idea di come il prodotto viene usato (es. se si tratta di uno shampoo può essere mostrato in un salone di bellezza). Non mancano casi di diretta dal luogo di produzione del bene da promuovere, soprattutto quando si tratta di prodotti locali (es. la frutta presentata dal frutteto).
  • Interattività: la socialità è un elemento fondamentale per la riuscita della trasmissione, tanto che viene stimolata dal conduttore e resa visibile con grafiche in sovrimpressione. Gli spettatori possono lasciare reazioni, commenti o interagire ponendo domande pratiche alle quali viene data risposta in tempo reale.
    Ad ogni spettatore viene assegnato un livello di fedeltà che dipende dagli streaming guardati, dai commenti e dagli acquisti effettuati. Tutto in ottica di gamification. Il livello viene mostrato accanto allo username per cui si è invogliati ad incrementarlo. Alcuni host elargiscono coupon solo agli spettatori più fedeli.
  • Senso di urgenza: i prodotti che vengono promossi non sempre sono esclusivi, ma sono sempre in numero limitato oppure presentano uno sconto vantaggioso e/o a tempo, tanto da instillare un senso di urgenza nello spettatore. I prodotti appaiono di volta in volta a schermo e possono essere cliccati per approfondirne le caratteristiche oppure si possono vedere liste di prodotti.
    Per incentivare la visione dell’intera trasmissione, il presentatore può offrire “promo code” aggiuntivi in un momento qualsiasi della diretta (che appaiono come sticker in sovrimpressione). Alcuni sono disponibili subito dopo la sessione, altri richiedono più operazioni, ad esempio averla guardata per almeno 10 minuti o averla condivisa con 3 amici.

Le piattaforme di Social Live Commerce

Il Social Live Commerce può essere una delle funzioni di una piattaforma esistente, un marketplace o un social media, oppure essere la funzione principale di un’applicazione dedicata.

Marketplace che diventano social

Il più grande online retailer del mondo, pur essendo destinato solo al mercato cinese è TaoBao, un marketplace di consumatori. Complementare ad esso è TMall, sito che permette alle imprese locali di vendere al dettaglio. Entrambi fanno parte del gruppo Alibaba e nel 2019 hanno generato rispettivamente 490 miliardi di dollari e 363 miliardi di dollari in Gross Merchandising Volume. Nello stesso anno Amazon ha registrato transazioni per 335 miliardi.

Taobao e TMall hanno aggiunto ai loro marketplace una piattaforma social chiamata Weitao, che permette agli utenti di vedere un feed/vetrina dei prodotti dei venditori, simile alla sezione shop di Instagram. Alla scheda prodotto può essere associato un video dimostrativo (anche un live precedentemente andato in onda). Inoltre gli utenti possono fare domande e chiedere una dimostrazione in diretta streaming. Anche gli altri marketplace cinesi come Baidu e JD.com hanno un approccio simile.

Amazon, al momento, non ha integrato meccaniche social nel suo marketplace, ma ha lanciato una piattaforma dedicata, Amazon Live, ancora disponibile solo negli Stati Uniti. Permette ai venditori di creare dirette per la vendita di prodotti, che possono essere acquistati immediatamente. Il costo di ingresso per i brand è di 35.000 dollari.

Amazon Live

Social che diventano Marketplace

E’ possibile anche un’approccio opposto rispetto a quello appena visto ossia quello di social media che si trasformano in marketplace. Qui le persone seguono creator e contenuti, che diventano leva per la vendita. E’ successo in Cina con Douyin, che ha già integrato funzioni di ecommerce, che presto arriveranno anche nell’app gemella TikTok (primi esperimenti sono stati fatti in US). Nel 2020 fatturato dalle sole attività di e-commerce di Douyin ha superato i 60 miliardi di euro, più del triplo di quello del 2019. Il competitor Kuaishou invece ha sviluppato una partnership con JD.com.

I social occidentali come Facebook e Instagram hanno già abilitato in alcuni paesi gli acquisti diretti in app e hanno annunciato funzioni di Live Commerce, che potrebbero essere estese a tutti i creator quest’anno.

Douyin: il flusso di acquisto

Applicazioni native di Social Live Commerce 

Non solo le piattaforme social, ma anche startup innovative stanno provando ad occupare questo spazio che si è aperto all’incrocio tra video, ecommerce e social. Tra le più interessanti si possono citare PopShopLive, Talkshop.live, NTWRK, Whatnot, LiveScale, Bambuser, Spin, SimSim, BulBul e l’italiana GoLive!

PopShopLive è un’app che permette ai brand e agli influencer di vendere in streaming, direttamente dallo smartphone. Ancora solo su inviti e per iOS, mima l’estetica cinese, colorata e giocosa.

NTWRK è specializzata nelle vendite di prodotti in edizione limitata, spesso di brand famosi. La sua caratteristica è che nella homepage evidenzia le opportunità in arrivo, in modo da spingere alla partecipazione.

Bambuser, LiveScale e GoLive! offrono soluzioni di live commerce, integrabili nel sito di ecommerce e più o meno personalizzabili. Ciò permette una migliore comprensione del comportamento degli spettatori e delle conversioni.

LiveScale usato per lo show di Lancôme

L’impatto su brand e influencer

Questa nuova tendenza spingerà le aziende e gli influencer a capire come sfruttarla per i propri fini.
Per i brand è un’opportunità per spiegare più a fondo i prodotti, ma anche per creare occasioni di intrattenimento e generare acquisti d’impulso. La scelta difficile sarà relativa alla soluzione da adottare: usare i social esistenti per sfruttare la loro popolarità, ma rinunciando alla personalizzazione o, viceversa, optare per una soluzione integrabile nel proprio online store, ma dovendo poi capire come veicolare traffico?

In Italia ho già visto esperimenti fatti da Samsung, che ha fatto leva su alcuni influencer per stimolare gli acquisti sul suo sito e Motivi che, invece, ospita live dai suoi punti vendita ed ha fatto diventare televenditori i negozianti e le commesse (anche se il risultato è più amatoriale).
Lo show più curato è stato quello di Lancôme e Chiara Ferragni che si è svolto su due set, un salotto e una camera da letto, ed ha visto la presenza di alcuni ospiti. Il tutto finalizzato alla vendita di prodotti di make up, tra cui la “capsule collection” della Ferragni che è andata a ruba. C’è da dire che gli spettatori medi sono stati circa 5 mila, pochi se si pensa ai suoi 23 milioni di follower.

Per gli influencer può essere un modo per provare la loro capacità di generare fatturato, agendo sul legame sviluppato con la propria community. Ovviamente non tutti saranno in grado o vorranno percorrere la strada delle televendite, ma quel che è certo è che emergeranno nuovi creator specializzati in questo tipo di formato.

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Di Max Da Via' (del 26/04/2021 @ 07:56:58, in Social Networks, linkato 1196 volte)

Facebook, come previsto, ha ufficialmente svelato il suo tentativo di clonare Clubhouse, ma la sorpresa è che ha una vera e propria strategia audio tesa ad offrire nuovi strumenti creativi ai suoi utenti.
Un primo timido tentativo di estendere le sue funzioni al suono fu fatto già nel 2016 quando vennero testati i Live Audio, che potevano diventare i podcast per le masse, ma che non furono mai lanciati.
Oggi l’azienda sembra avere le idee più chiare tanto da aver annunciato una suite completa di prodotti audio che, però, non sarà pronta prima dell’estate.

I prodotti audio di Facebook

Live Audio Rooms: sono le stanze vocali in diretta tipo Clubhouse che prevedono un organizzatore, degli ospiti e la possibilità di far intervenire gli ascoltatori. Verranno introdotte prima all’interno dei Gruppi Facebook e tra personaggi noti, poi estesi a tutti e resi disponibili anche su Messenger. In pratica la stessa funzione potrà essere usata per eventi pubblici o per chiacchierate tra pochi amici.
La cosa interessante, che ancora gli altri non hanno, è che sarà possibile registrare queste conversazioni per farle riascoltare in seguito e dunque trasformarle in podcast.
Per stimolare la creazione di queste stanze sonore sono già previste delle forme di remunerazione per gli host. Al lancio di Live Audio Rooms, i fan potranno acquistare Facebook Stars (una sorta di moneta virtuale) e donarle durante le dirette ai propri creator preferiti (1 stella ottenuta dà diritto a ricevere 0,01 dollari). Successivamente sarà possibile scegliere di far pagare un abbonamento o il singolo accesso ad una stanza.

Soundbites è la vera novità. Si tratta di un nuovo formato di audio brevi che potremo registrare con lo smartphone e pubblicare nella nostra timeline. Possono essere dei messaggi vocali semplici o spezzoni montati in sequenza, ai quali sarà possibile aggiungere effetti sonori e filtri per modificare la voce.

L’idea è quella di offrire un piccolo studio di registrazione tascabile per abilitare formati creativi nuovi. Insomma Facebook prova a fare con l’audio, quello che TikTok ha fatto con i video. Una cosa che avrebbe potuto realizzare Spotify, che invece sembra pensare alla fascia più alta del mercato, ai prosumer e non alle masse (si veda il suo nuovo prodotto Soundtrap).

Podcast: l’obiettivo di Zuckerberg è di semplificare il processo di scoperta e consumo dei podcast, dando a circa 3 miliardi di utenti la possibilità di ascoltarli senza uscire da Facebook (anche con l’app in background). L’algoritmo sarà modificato per portare alla luce podcast che potrebbero interessarci, basati sui nostri interessi e sulle raccomandazioni degli amici.
Inoltre una partnership con Spotify permetterà di usare il suo lettore dentro il social network per ascoltare musica e podcast.

La suite mi sembra ben pensata perché permette un utilizzo combinato e integrato dei singoli prodotti. Ad esempio, si può organizzare una Live Audio Room con un esperto e far partecipare attivamente il pubblico per rendere la conversazione più interessante, al termine si può trasformare la registrazione in un podcast, eliminando le parti noiose, e infine estrarre dei pezzi, o soundbites, da condividere nella propria timeline per ampliare la platea degli ascoltatori.

La strategia “estendi e trattieni”

La strategia di Zuckerberg potrebbe essere definita “estendi e trattieni”. L’estensione della sua gamma di prodotti all’audio ha l’obiettivo di offrire alle masse tutti gli strumenti creativi di base per esprimersi, in qualunque forma. Il target prioritario, però, sono i creator ossia quelle persone che producono contenuti con assiduità ed in maniera più professionale rispetto all’utente medio e che sono capaci di attrarre un pubblico, più o meno grande.
Non a caso, Zuck, nella chiacchierata con Casey Newton per il lancio di questi prodotti, ha espressamente citato un trend evidente: lo spostamento di potere dalle istituzioni (anche gli editori) ai singoli, con particolare riferimento all’economia delle passioni ossia al fatto che oggi gli individui possono trasformare le proprie passioni in un business, più facilmente che in passato.

Dunque le piattaforme social hanno ben chiaro che conquistare i creator vuol dire riuscire a trattenere il loro pubblico più a lungo e a farlo tornare periodicamente all’interno del proprio “giardino recintato”.
Ma come si trattengono i creator? Non solo offrendo loro un’ampia e/o estesa gamma di strumenti creativi, ma anche opportunità di monetizzazione vantaggiose.
Se sul primo punto l’ecosistema Facebook è in una posizione invidiabile perché offre una cassetta degli attrezzi più ampia di quella dei suoi competitor (gli mancano solo le newsletter che arriveranno), sul secondo è ancora indietro rispetto ad altre piattaforme social, come Twitch o YouTube, o servizi specifici come Patreon. Da un punto di vista tecnico non gli sarà difficile colmare il gap, bisognerà vedere se offrirà politiche di monetizzazione più convenienti, abbassando il suo fee.

La strategia di Facebook, laddove fosse ben eseguita, spazzerà via i competitor? Non è detto.
E’ vero che il network può contare sulla forza dei numeri (un ampio bacino di utenti potenziali), nonché sulla varietà di strumenti creativi (testo, video, storie, audio) e spazi disponibili (profilo personale, pagine e gruppi), ma non è detto che ciò sia sufficiente a polverizzare i concorrenti. Certo, la possibilità di far pagare un abbonamento mensile ai propri fan su un’unica piattaforma per ottenere benefici di vario tipo (gruppi e stanze di discussione esclusivi, newsletter, dirette video riservate) sarà una tentazione per tanti creator.
Ma, di converso, ci sono almeno due casistiche da considerare: quella relativa ad influencer che puntano su abilità e dunque social specifici (es. i gamer ai quali è sufficiente Twitch per esprimersi) e quella di coloro che preferiscono abitare spazi meno ampi, popolati da pubblici più di nicchia o sofisticati (potrebbe essere il caso di Clubhouse).
Insomma le dinamiche competitive non sono mai così scontate, soprattutto quando coinvolgono attori nuovi e sempre più esigenti come i creator.

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