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 mymarketing.it: e tu cosa ne pensi?... di Admin
 
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Errare è umano, ma per incasinare davvero tutto è necessario un computer.

Arthur Bloch
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\\ : Storico (inverti l'ordine)
Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Altri Autori (del 13/10/2016 @ 07:42:24, in Mobile, linkato 1751 volte)

Continuano a cambiare i comportamenti degli utenti online. La penetrazione del mobile e la potenza sempre maggiore dei device stanno spingendo il traffico verso il segmento, ma al suo interno ci sono spaccature piuttosto evidenti. Applicazioni e mobile browsing hanno scopi diversi e complementari, «ma è sulle app che viene speso il 90% del tempo, e tra le 15 app più scaricate, 11 sono di proprietà di Facebook e Google. Una situazione che potrebbe essere pericolosa per il mercato italiano», racconta Fabrizio Angelini, ceo dicomScore per l’Italia. Il quadro della situazione mobile, raccontato ieri da Stuart Wilkinson, Head of Industry Relations EMEA di ComScore a Milano, è il frutto degli sviluppi di MMX Multi-Platform e Mobile Metrix dovuti all’introduzione dei dati del Panel Mobile, sviluppato in Italia sugli utenti Android. «Abbiamo incrociato le informazioni consegnate dai nostri 2000 panelisti ai dati censuari collezionati da app e siti che possiedono il nostro tag (38 milioni di domini, n.d.r.). Il valore di ricerche come questa risiede nei big data, nell’interpretazione delle informazioni, capaci di arricchire e dare maggior credito alle rilevazioni», dice ancora Angelini.

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Le piattaforme

 Solamente nel mese di gennaio, comScore ha raccolto quasi 2 trilioni di dati in tutto il mondo. Per aiutare i marketer a raccapezzarsi velocemente tra tutte le informazioni a loro disposizione, la società ha lanciato nel 2014 la prima versione di MMX Multi-plaform, una piattaforma in grado di processare dati grezzi in metriche di facile lettura. La tecnologia è in continua evoluzione: nata per riportare le informazioni desktop, si è poi espansa a mobile e presto agli ott. La visualizzazione del report può essere proposta in overview o suddivisa nei diversi dispositivi su cui vivono i domini dei clienti. «Fornisce una visione deduplicata del comportamento della Total Digital Audience su desktop, smartphone e tablet», aggiunge Wilkinson. Mobile Metrix, invece, incrocia i dati provenienti dal panel mobile, le informazioni censuarie raccolte da mobile browsing e app e gli insight tratti dalle ricerche di mercato, producendo al contempo una serie di metriche tra cui visitatori unici, dati demografici, reach, tempo speso , utenti medi giornalieri e pagine viste su mobile browser.

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La digital audience italiana

 Sebbene non sia currency di riferimento in Italia, come invece lo è in Usa, Uk e Spagna, comScore riesce a intercettare con il suo tag il 94% dei device connessi alla rete nella Penisola ed è applicato dall’80% dei principali editori italiani e grazie alle informazioni così raccolte è riuscita a sviluppare una ricerca che fotografa la situazione del digitale anche sul nostro territorio. Dai dati raccolti nell’agosto del 2016, è evidente lo shift di utenza dal desktop, che perde il 22%, al mobile, che invece guadagna il 20%, stanziando il traffico sul primo a 10,9 milioni di visitatori unici e il secondo a 8,4. Cresce anche il traffico multi platform, che si attesta a 17,3 milioni di unique visitor (+9%). Guardando alla distribuzione del traffico, il 23% dei digital user accedono solo da mobile, il 30% solo da desktop e il 47% da entrambi i dispositivi. L’ultima percentuale è la più bassa tra i Paesi in cui comScore è currency ed «è la più importante perché la conversione avviene ancora da desktop. La componente mobile only non è necessariamente un segno di evoluzione», spiega Angelini. Se questo discorso appare evidente quando si parla di categorie di mercato, è ugualmente importante quando si parla di editoria. Sebbene le inventory mobile siano più difficili da monetizzare, i publisher perdono utenza da desktop e raddoppiano quella mobile. I dati «considerano la riattribuzione del traffico che avviene sugli AMP di Google e su Facebook», continua Angelini. In altre parole la società di misurazione assegna agli editori le pagine aperte dagli utenti sulle piattaforme esterne su desktop e, unica nel settore, da mobile. «Siamo i soli che propongono deduplicazioni che riportano un’audience complessivo», aggiunge.

 

Mobile

 «Su tre minuti passati online, due sono spesi su mobile. Google, Whatsapp e Facebook dominano la classifica delle properties per numero di utenti unici mobile totali, ovvero app e mbrowsing combinati, con tassi di penetrazione del 99%, 90% e 81%», continua Angelini. Considerando che il traffico in app vale il 90% del traffico mobile complessivo, e che tra le prime 15 app, 12 appartengono a Facebook e Google, lo scenario del mezzo potrebbe essere preoccupante. Questi due player infatti siedono su una posizione di predominio totale, considerando anche che la penetrazione su device delle app vale il 93% per Whatsapp e Google Play, il 78% per Google Search, il 70 per Youtube. «La prima app che non appartiene alle due società è Amazon, in 12esma posizione, con una penetrazione del 23%, seguita da My Vodafone Italia e IlMeteo Previsioni (entrambe 17%)», riporta. Facendo attenzione alle categorie di contenuto, servizi e social media si spartiscono il 60% della torta, mentre per Notizie, Sport e Lifestyle la percentuale si aggira intorno all’1% a testa. La dicotomia tra m-browsing e applicazioni rimane anche per le funzioni strategiche specifiche: i visitatori unici delle property nella prima modalità sono 2 volte e mezzo quelli delle app (2,5 milioni contro 1,3 nel mese), mentre il tempo medio speso è 8 volte inferiore (49,3 minuti contro 401,1). Se il browser serve per raggiungere nuovi utenti, le app sono necessarie a fidelizzarli. Una missione non facile, dato che il tempo speso in app è altamente concentrato sulle proprietà dei grandi colossi. Facebook assorbe il 30% del tempo speso totale, Whatsapp il 28, Youtube il 6. E fuori dal podio le percentuali sono molto inferiori. Stimolare il download non è affatto facile considerando che, nell’arco dei 31 giorni, il 68% di chi naviga non scarica nessuna app.

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Advertising

 Ultimo punto, ma non certo il meno importante, è quello dell’advertising. Il 33,8% dell’utenza smartphone over 13 ricorda di aver visto una ad sul device, e il 13% (circa) tra questi ci ha interagito. Un dato in crescita del 12,8% rispetto all’agosto del 2015, che produce un ctr del 4.39% sul totale ads erogate (considerando i dati dichiarati).


Via  DailyOnline
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Di Altri Autori (del 12/10/2016 @ 07:21:54, in Mobile, linkato 1885 volte)

In Italia sono 29,7 milioni le persone che posseggono uno smartphone e 11,6 milioni quelle che hanno un tablet ma solo il 25%di loro ha utilizzato il proprio device per perfezionare un acquisto negli ultimi sei mesi. Tradotto:un italiano su quattro. Il dato è di gran lunga inferiore alla media europea, pari al 32%, e alla percentuale mondiale, pari al 38%. È quanto emerge dalla ricerca Nielsen Mobile Ecosystem Survey basata su un campione di oltre 30 mila possessori di apparecchi mobile in 63 Paesi. Stando all’analisi, più che per i pagamenti, il mobile è utilizzato durante lo shopping perricercare informazioni su prodotti/servizi (il 40%, contro la media Europa del 44%), per comparare i prezzi (36% contro il 41% dell’Europa), per cercare promozioni o coupon (il 30% contro il 32%). La stima è che, tra dieci anni, il mobile commerce possa generare un giro di affari del valore di 10 trilioni di dollari.

 IL MOBILE ONLY BANKING. Un capitolo a parte viene invece riservato per i servizi bancarilegati al mobile. Solo il 37% degli italiani userebbe il mobile per controllare i propri movimenti bancari, contro il 43% della media europea e il 47% della media mondiale. Per quanto riguarda il mobile-only banking, ossia i serviti bancari offerti esclusivamente in modalità mobile, l’11% degli intervistati italiani si dice disposto a utilizzarli. La media europea è del 17% che diventa il 27% se si considera quella mondiale. In particolare i Paesi più favorevoli al mobile only banking sono India (46%) Indonesia (37%), Messico (34%) e Turchia (34%) poiché qui la rete delle filiali fisiche è già scarsa. «L’esperienza dei mercati emergenti costituisce un punto imprescindibile per sviluppare anche in Europa la cultura del mobile. Ciò a cui siamo chiamati è un radicale cambiamento di visione del mondo dei consumi», spiega l’a.d. NielsenGianni Fantasia. «Nello stesso tempo è necessario uno sforzo delle catene di distribuzione per permettere un servizio di pagamenti via mobile adeguato alle aspettative. Occorrono, inoltre,garanzie di sicurezza e risparmi sulle commissioni per le operazioni bancarie».

 GLI OSTACOLI. Attualmente a frenare i consumatori a pagare tramite mobile sarebbero tre cause. La prima, condivisa anche dal resto d’Europa, è la percezione di non operare in un clima di sicurezza: è il timore del 35% degli intervistati italiani e del 46% del campione europeo. Al secondo posto, ci sarebbe la concorrenza dei servizi online banking, ormai entrati nelle abitudini quotidiane del 34% degli italiani (29% in Europa e 28% nel mondo). Solo il 20% non ricorre invece al mobile perché privilegia la banca fisica. Le percentuali europee e mondiali sono superiori, pari rispettivamente al 25% e 31%. «Facilità d’uso, convenienza, accesso ad un assortimento rilevante, abbattimento dei tempi di evasione delle transazioni, un approccio integrato per gestire i canali off e on line, un linguaggio comune delle piattaforme tecnologiche: sono questi i contenuti della ‘value proposition’ del mobile in grado di fornire una base motivazionale “forte” e solida perché i consumatori dalla banca tradizionale emigrino al sistema esclusivamente mobile. Solo così sarà possibile garantire al consumatore dell’online un ritorno in termini di valore aggiunto adeguato e caratterizzato dall’unicità dell’offerta», conclude Fantasia.


Via Business People
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Di Admin (del 11/10/2016 @ 07:43:32, in Social Networks, linkato 2104 volte)

In occasione dell’appuntamento annuale dell’ABI, l’Associazione Bancaria Italiana – martedì 11 e mercoledì 12 ottobre – dedicato ai social media, al web e agli strumenti innovativi di comunicazione e marketing forniti da internet e dalle reti sociali alle banche e al mercato finanziario, dal titolo “Dimensione Social & Web”,Blogmeter, uno tra i brand partner di questa terza edizione, ha realizzato una ricerca sulle performance delle pagine Facebook e dei profili Twitter ufficiali italiani delle banche nel mese di settembre, decretando le migliori cinque in termini di engagement e nuovi fan/follower. In particolare Facebook si attesta come il canale più utilizzato dagli istituti bancari e anche il più efficace in termini di coinvolgimento degli utenti.

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Fb: le migliori sono BPER Banca, Credem e Intesa San Paolo

Dall’indagine emerge che nel canale social di Zuckerberg il primo posto in termini di interazioni generate lo conquista la pagina di BPER Banca, seconda tra l’altro per numero di nuovi fan: l’istituto bancario, che il 9 settembre ha festeggiato i 100 mila fan, coinvolge gli utenti con la condivisione di numerosi consigli e di offerte promozionali e corona così un periodo di intensa attività di comunicazione sui canali digitali e social. Segue Intesa San Paolo che appassiona gli utenti con una comunicazione più trasversale alternando a contenuti di promozione dei propri prodotti e servizi, post dedicati alle iniziative di cui è partner, come ad esempio il programma X Factor. Tocca poi a CheBanca!, che si posiziona al terzo posto per engagement grazie soprattutto al progetto #Oltre lanciato per i Giochi Paralimpici di Rio 2016 in partnership con altri istituti bancari. La quarta banca più engaging su Facebook è una nativa digitale: si tratta di BCC For Web che punta su uno stile comunicativo leggero ed empatico. Chiude la top 5 dell’engagement Ing Direct che posta una media di 2 contenuti al giorno e il suo hashtag distintivo è #VoceArancio. Per quanto riguarda la capacità di coinvolgere la propria community, la pagina Facebook più performante in assoluto è Credem Banca, con post e status improntati principalmente sulla promozione dei prodotti e dei servizi offerti. Completano la classifica dei new fan UniCredit e UBI Banca.

 Su Twitter trionfano Banca Popolare Etica e Unicredit

La classifica di Twitter che considera il numero di interazioni si apre con Banca Popolare Etica, profilo che non emerge tuttavia nella Top 5 per nuovi follower: temi come il sostegno alla campagna #unsaccogiusto di Legambiente e la promozione del progetto @sacchetico hanno coinvolto e appassionato gli utenti di Twitter, regalando alla banca moltissime interazioni. Emerge anche su Twitter Intesa San Paolo, seconda per engagement e quinta per nuovi follower, mentre al terzo posto per entrambe le metriche troviamo CheBanca!, che ha fatto il pieno di interazioni e new follower con la partecipazione alla Social Media Week di Roma. Nella Top 5 si piazza inoltre Banca Ifis, particolarmente attiva durante la quinta edizione dell’international #nplmeeting 2016. Ottime performance su Twitter anche per Unicredit, che risulta il profilo che ha accresciuto maggiormente la propria community: in particolare, è l’iniziativa #UniCreditTour che ha permesso all’istituto bancario di ottenere un grande successo su Twitter. Il secondo profilo che si è aggiudicato più nuovi follower a settembre è Deutsche Bank. In classifica anche l’ufficio stampa della Banca d’Italia.


Via DailyOnline
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Di Altri Autori (del 10/10/2016 @ 07:46:23, in Advertising, linkato 1603 volte)

Secondo AdExchanger, Samsung sta presentando ad agenzie e media partner un nuovo prodotto pubblicitario di addressable tv che utilizza i dati delle smart-tv per targettizzare gli annunci sulle trasmissioni broadcast lineari. L’azienda che ha una portata di 20 milioni di smart tv negli Stati Uniti e 50 milioni in tutto il mondo, ha già cominciato ad attivare e monetizzare i suoi data.

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Partner Samsung

Samsung, quindi, erogherà campagne addressable attraverso le sue smart tv come DirecTV, Comcast e Dish fanno già via satellite o set-top box. Nonostante il programma addressable lineare sia in ancora in fase beta, AdExchanger rivela che alcune campagne cross-screen sono già in onda. Tra i partner di Samsung ci sono Sorensen Media, che aiuterà ad erogare annunci interattivi “first screen”, Hearst e Sinclair, che forniranno inventory. “Portare l’addressable tv attraverso una smart tv sulla inventory dei broadcst non è mai stato fatto prima – ha detto Michael Bologna, president di Modi agenzia di GroupMche usa Sorenson -. Attualmente tutto l’addressable viene fatto via cable box con inventory via cavo”.

 

Potrebbe portare miglioramenti in ambito misurazioni

Altri produttori di terze parti di settop box permettono già di fare targeting reachbased, ma ancora nessun riproduttore digitale IP-based è stato in grado di connettere in scala la tv over-thetop al broadcast tradizionale. L’ingresso di Samsung nell’ad-serving potrebbe portare miglioramenti anche in ambito di misurazione. Lo scorso giugno, Samsung ha acquisito la DSP canadese AdGear, di cui si è servita per erogare annunci cross-screen sia su dispositivi mobili sia su smart tv, oltre che per individuare e fare retargeting di quell’audience. Inoltre, la collaborazione con Sorensen Media permette all’azienda sudcoreana di accedere ai dati censuari relativi alla visione televisiva, con il potenziale di incrementare la precisione di quelle stesse campagne cross-screen.

via DailyOnline

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Di Altri Autori (del 07/10/2016 @ 07:09:42, in Mercati, linkato 1727 volte)
Il Music Consumer Insight Report 2016 (pdf) è una ricerca condotta da IPSOS e finalizzata a delineare il mercato musicale dopo la grande rivoluzione che ne ha investite le strutture, il modello di business, i protagonisti, le dinamiche e gli equilibri. E la fotografia non è solo quella di un mercato profondamente cambiato, ma anche di un immaginario che va stravolgendosi rispetto a pochi anni prima.

Quello che era il ragazzino intento a scaricare MP3 su pc, oggi è diventato il ragazzino disposto a spendere pochi euro per un abbonamento legale con cui accedere a musica dal proprio smartphone. Ciò ha determinato uno spostamento dell’asse gravitazionale del mondo musicale, sempre più lontano dal desktop e sempre più incentrato sui dispositivi portatili, sul traffico dati e sulle playlist. I numeri descrivono fatti inconfutabili: il 71% degli utenti online tra i 16 e i 64 anni accede a musica legalmente e un terzo della fascia tra i 16 e i 24 anni paga per un servizio di audio streaming.

I giovani continuano ad essere fortemente attratti dalla musica e dai suoi personaggi, ma è cambiato radicalmente il canale di accesso (e pertanto tutte le dinamiche ivi correlate): la mutazione non è dunque antropologica ma meramente tecnologica, il che ha spostato le abitudini di fruizione su nuovi strumenti e nuovi servizi, ha modificato le modalità di accesso ai contenuti, ma non ha cambiato il forte feeling che l’utenza media ha nei confronti della musica. Si consuma sempre più musica, insomma, ma in modi completamente nuovi.
Il ruolo di YouTube

Uno di questi, il più diffuso, è YouTube. Il servizio, di proprietà Google, è usato dall’82% dei suoi visitatori per l’ascolto di musica: gratuito, semplice ed efficace, con l’aggiunta delle immagini per quanti vogliano aumentare il coinvolgimento nella fruizione, YouTube è diventato oggi uno degli strumenti più importanti per l’accesso ai contenuti musicali. Se lo si volesse immaginare come la MTV dei Millennials, insomma, non si andrebbe troppo lontano dalla verità.

I motivi per cui si approccia YouTube sono in molti casi legati al desiderio o alla mancata possibilità di investire in contenuti musicali: YouTube è gratis, YouTube consente fruizioni altrimenti non possibili, YouTube consente di accedere alla musica senza dover investire in anticipo su tale operazione. Il denaro è insomma alla base del modello che porta l’utenza online ad ascoltare musica su un servizio nato originariamente come la più grande ed efficiente repository video al mondo.

Ciò ha però alcune ripercussioni sulla ricchezza del palinsesto e sulla cultura musicale diffusa: la maggior parte degli utenti che utilizza YouTube per l’ascolto musicale, infatti, tende a consumare musica già conosciuta e non ha stimoli né desiderio di scoprire nuovi generi, nuovi autori e nuove passioni. Ciò va ad appiattire l’offerta, concentrandola sui grandi nomi e riducendo gli spazi per giovani artisti, generi particolari e nicchie di ascolto.
Il ruolo della musica in streaming

A questa tendenza fa da contraltare il successo dei canali di streaming a pagamento (Spotify e similari), sempre più in voga come strumenti di accesso privilegiato alla musica: la loro grande offerta, il concetto di tariffa flat e la proposta di playlist che vanno ad ampliare i gusti musicali dei singoli rappresentano il miglior spot alla musica legale nella sua complessità, facilitando peraltro anche l’incontro con autori e generi altrimenti di difficile fruizione. In Italia tali strumenti trovano linfa soprattutto sugli smartphone, che gli utenti utilizzano in due casi su tre proprio per l’ascolto musicale in mobilità. L’arrivo di device come Google Home potrebbero estendere il bacino d’utenza della musica in streaming e riportare gli equilibri verso una fruizione casalinga, ed in ogni caso premiano la musica attraverso un abbattimenti di ogni forma di resistenza alla libertà di ascolto.

La pirateria non muore e trova nuove forme espressive attraverso lo streaming ripper, ma la grande vastità di offerte (di molteplice fattura, di ogni prezzo, per raggiungere qualsivoglia tipologia di musica) sta riportando l’utenza verso un approccio legale ai contenuti. Ad avvantaggiarsene sarà l’intero comparto, al netto di alcune deformazioni nel modello di business che le case discografiche stanno da tempo discutendo con i grandi player della distribuzione online.

Via Webnews
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Gli annunci online devono essere visibili per almeno 14 secondi per andare a segno. Lo dice uno studio sull’eye-tracking, condotto da InSkin Media su un campione di 4.300 consumatori. Il report rivela anche che la pubblicità considerata vista riceve una media di 0,7 secondi di sguardi. Research Now e Sticky dicono che il 25% degli annunci “viewable” non sono mai stati guardati, mentre un terzo è stato visto per un secondo e il 42% sono stati visti per più di un secondo. Un annuncio viene considerato “viewable” se soddisfa il criterio del settore per cui il suo 50% è sullo schermo per almeno un secondo. Lo studio fornisce anche un insight su quanto tempo un annuncio deve essere visibile la prima volta per raggiungere determinati livelli di cosiddetto “gaze time”.

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Tre fasi di valutazione

 

In media, per essere visto per almeno un secondo un annuncio deve essere “viewable” per 14 secondi. Le pubblicità che hanno raggiunto almeno un secondo di “gaze time” sono “viewable” per una media di 26 secondi. Per almeno due secondi di “gaze time”, la viewability media è di 33 secondi. Per tre o più secondi è di 37 secondi. Steve Doyle, chief commercial officer di InSkin Media, ha dichiarato: “Una campagna dovrebbe essere valutata in tre fasi: se ha la possibilità di essere vista, se è stata guardata realmente e quale è stato l’impatto. Dovrebbe essere giudicata e ottimizzata in rapporto all’ultima fase (impatto), ma il focus sulla visibilità significa che le campagne sono sempre più ottimizzate in relazione alla prima fase (la possibilità), che può essere controproducente per massimizzare l’impatto. Perché? I formati più piccoli hanno un tasso maggiore di “possibilità di essere visti” dal momento che la loro dimensione significa che è più facile colpire le soglie di visibilità – ma il “gaze time” è molto basso. Così, significa ottimizzare basso engagement e basso impatto”

Via DailyOnline
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Di Altri Autori (del 03/10/2016 @ 07:14:14, in Social Networks, linkato 1744 volte)

I consumatori stanno voltando le spalle ai brand e questo è dimostrato dal fatto che il 26% degli utenti dichiara di ignorare i post sui social o i contenuti condivisi dalle marche. Di contro assistiamo alla crescita dell’utilizzo di piattaforme social, come Snapchat e Instagram. La popolarità di Snapchat e Instagram è cresciuta negli ultimi due anni rispondendo alla richiesta di contenuti veri, personali, e istantanei, “in the moment” secondo lo studio dell’istituto globale di ricerca KANTAR TNS svolto su 70mila consumatori. Quasi un quarto (23%) degli utilizzatori internet è ora su Snapchat, un grande salto rispetto al 12% di due anni fa. Situazione simile in Italia, con il 25% degli utenti internet ora attivi sulla piattaforma, a dispetto di un 15% nel 2015, mentre in America Latina assistiamo ad un balzo dal 12 al 38% in due anni. Anche Instagram ha acquisito popolarità, con un livello di utilizzo globale che oggi è al 42% dal 24% del 2014. In Italia, è sulla piattaforma il 51%, con una crescita di 15 punti percentuali negli ultimi due anni. Anche se sono i giovani i più grandi utilizzatori dei social, su tutte le piattaforme è da notare che anche i più adulti si stanno aprendo alle novità del momento: 1 user su 5, di età compresa tra i 55 e i 65 anni ora utilizza Instagram, registrando un aumento del 47% rispetto all’anno scorso. L’Italia sembra in linea con il dato globale, come emerge dallo studio.

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Ecco cosa fare lato brand

 “Le marche dovranno affrontare non poche difficoltà nel tentativo di coinvolgere i consumatori, dal momento che questi ultimi si sentono bombardati dalla presenza dei marchi sulle piattaforme social, con il 34% in Italia che dichiara di sentirsi “costantemente seguito” dalla comunicazione online. Nuove possibilità si aprono per i brand che potrebbero approfittare di questo trend offrendo contenuti personalizzabili e condivisibili come video e storie divertenti. Un internauta su 4 però volta le spalle ai contenuti brandizzati sui social: la sfida è come consegnare i giusti contenuti alle persone giuste, sulle giuste piattaforme e soprattutto al momento giusto. Siamo già abituati a scarsa attenzione alla pubblicità nei media tradizionali; oggi è un rischio anche nei Social”. Questo è quanto affermato da Federico Capeci, cdo e ceo Italia di KANTAR TNS. “Alcuni brand avevano già capito quanto questo fosse importante. In passato Disney, Starbucks e McDonald’s avevano utilizzato i filtri di Snapchat per coinvolgere i consumatori in un modo che non venisse percepito come intrusivo. Questa è la chiave per evitare la percezione negativa dei consumatori nei confronti delle attività online dei brand”, ha concluso. L’aumento degli user in tutte le fasce d’età rappresenta un’opportunità per i brand che possono creare contenuti condivisibili e coinvolgenti. Peraltro, con il 30% dei rispondenti (il 35% in Italia) che ha dichiarato di essere contrario all’idea di vedere i propri comportamenti online tracciati dalla pubblicità, emerge la necessità di muoversi con attenzione.

 

Il ruolo degli influencer

 Lo studio ha inoltre evidenziato come gli influencer e le celebrità abbiano un ruolo chiave nell’influenzare la percezione sulle marche da parte delle persone. Infatti 2 utenti su 5 (40 % nel mondo, il 32% in Italia) di età compresa tra i 16 e i 24 anni, dichiarano di avere più fiducia in quello che le persone dicono online a proposito del brand che sulle informazioni trovate sui canali ufficiali come giornali, siti o pubblicità tv.

Via DailyOnline


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Di Altri Autori (del 30/09/2016 @ 07:20:25, in Aziende, linkato 1697 volte)

In questi giorni si è tornati a parlare di Facebook At Work, la piattaforma sviluppata dal noto social network dedicata al settore business e alla comunicazione aziendale. Il servizio dovrebbe essere pronto al lancio, secondo quanto riportato da Techcrunch, dal mese prossimo dopo un periodo di incubazione durato circa due anni.

Il prodotto fornirà alle imprese e ai loro dipendenti i classici strumenti di messaggistica assieme alla possibilità di chiamate e videochiamate, condivisione file e feed su notizie ed aggiornamenti di stato. I profili dei collaboratori potranno essere gestiti singolarmente dall’azienda ed abilitati all’accesso ai vari gruppi in base al settore di appartenenza.L’ambiente ricorderà da vicino Facebook in versione classica in modo da facilitarne l’utilizzo e favorire una più rapida diffusione, permettendo ad esempio di postare foto e video e di creare eventi social, ma non implicherà il collegamento tra le due piattaforme lasciando di fatto separati vita privata e lavoro.

L’utilizzo di Facebook At Work prevede un costo per singolo utente, dovuto in sostanza all’assenza di pubblicità, non ancora specificato ma che di certo sarà allineato a quello proposto da altri servizi affini come Slack o Microsoft Yammer. Facebook At Work sarà disponibile per web-browser e per sistemi Android ed iOS con un’app dedicata già presente sui rispettivi store. 

Via DailyOnline
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Di Altri Autori (del 28/09/2016 @ 07:24:35, in Mercati, linkato 1962 volte)
Il 75% dei baby boomers e dei consumatori maturi si dichiara preparato a un'interazione su più canali con i brand, una percentuale vicina a quella dei Millennials (85%). A dirlo, lo studioDigital or Die: The Choice for Luxury Brandspubblicato da The Boston Consulting Group e condotto su oltre 10 mila consumatori in 10 Paesi, Italia inclusa.

«Il digitale è una delle migliori notizie per le aziende del lusso in un momento in cui non ci sono più tanti negozi da aprire e tanti consumatori da conquistare. È un amplificatore molto forte», assicura
Nicola Pianon, Senior Partner e Managing Director di Bcg, coautore dello studio.

Questo fenomeno, tuttavia, non comporta esclusivamente una migrazione dei consumatori dall'acquisto in negozio a quello online (se il 41% dei luxury shoppers cerca beni e servizi online e li acquista online, il 9% fa il percorso inverso), riguarda invece la creazione di un ecosistema piuttosto articolato. Il 31% dei consumatori, per esempio, desidera un servizio di delivery integrato, il 24% vorrebbe invece uguali promozioni su tutti i canali. L'e-commerce vale oggi il 7% del mercato globale del lusso, quota che entro il 2020 dovrebbe toccare il 12%.

E in questo contesto è centrale il ruolo del fashion che, come dimostra una ricerca dell'Osservatorio eCommerce B2c del Politecnico di Milano, in Italia vale oltre € 1,8 miliardi, con una crescita del 25% rispetto al 2015. Non solo: l’e-commerce di moda vale il 10% di tutto l'e-commerce, con un tasso di crescita medio annuo dell’abbigliamento online pari al 30% circa, il doppio rispetto a quello dell’e-commerce nel suo complesso.


Via Business People
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Negli ultimi anni abbiamo più volte assistito a esempi più o meno vincenti di : dall’epico tweet di Oreo durante il blackout del Super Bowl 2013 ai consigli alimentari di McDonald’s dopo il morso di Suarez a Chiellini agli ultimi Mondiali, sono tanti i brand che hanno capito come entrare a gamba tesa in una conversazione globale e sfruttarne l’effetto virale per far guadagnare un’improvvisa “fiammata” di visibilità.

Sappiamo anche che l’instant marketing nasce attorno a eventi di interesse globale, che trascendono nazionalità, barriere linguistiche e differenze geografiche e che catalizzano l’attenzione di tutti per un periodo relativamente breve, durante il quale però la conversazione intorno a questo argomento è estremamente vivace e, soprattutto, univoca. Non ci si può sbagliare: quando si parla di quella cosa si sta proprio parlando di quella cosa lì, senza possibilità di dubbio né margini di errore.

Così, quando un paio di giorni fa sul web è diventata virale questa foto, nessuno ha dovuto spendere più di un secondo per capire di cosa si stesse parlando:

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Si tratta di una promozione lanciata da Norwegian Air, compagnia aerea low cost norvegese che, all’indomani della “notizia-bomba” del divorzio tra Angelina Jolie e Brad Pitt, ha pensato bene di comprare un’inserzione su diversi quotidiani, al grido di “Brad Pitt è tornato single”, per lanciare l’offerta sulle proprie tratte verso Los Angeles.

L’inserzione, pubblicata originariamente sul tabloid norvegese VG e poi replicata anche sui tabloid britannici con l’offerta in sterline, ha letteralmente “spaccato l’Internet” diventando un caso da manuale: il creativo di Norwegian ha saputo sfruttare l’improvviso interesse per la coppia vip in crisi matrimoniale e con sapienza l’ha tradotta in una campagna pubblicitaria comprensibile a tutti, che strizza l’occhio al pubblico femminile ma che non può non essere ben recepita anche da quello maschile.

E infatti la campagna si è inserita perfettamente nel discorso sul divorzio di “Brangelina” per poi costruirsi una conversazione tutta sua: in capo a poche ore, dopo che molti utenti hanno semplicemente twittato le foto dell’inserzione, mezzo web europeo stava parlando della geniale campagna di Norwegian Air, che senza manco usare direttamente i social e facendo fare tutto il lavoro sporco agli utenti, ha tirato in piedi il viralone del mese guadagnandosi una bella fetta di visibilità e probabilmente anche qualche cliente in più (non necessariamente sulle proprie tratte per Los Angeles).

Fino a qui tutto bene. Grandi applausi a Norwegian da parte di tutto il mondo.

Ma a qualche ora di distanza succede qualche cosa:  risponde. E lo fa con un’immagine pubblicata sulle proprie pagine social, questa:

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A voler vedere, la “risposta” di Alitalia non viene nemmeno recepita tanto male, almeno a giudicare dai commenti che sono iniziati a piovere sulla pagina Facebook della compagnia aerea:

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Ma, dietro la facciata innegabilmente sagace, a uno sguardo più approfondito la risposta Alitalia nasconde un paio di questioni che vale la pena di approfondire.

La prima è che in realtà Alitalia non offre nessuna reale promozione: la differenza tra la campagna di Norwegian e quella di Alitalia è che la prima prende pubblicamente parola per dire che i propri voli verso Los Angeles sono a un prezzo stracciato, la seconda invece si limita ad aggiungere un generico acquistate su Alitalia.com. E infatti non manca chi lo fa notare:

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Il fatto è che quando s’innesca un botta e risposta con un altro brand sui social media, solitamente lo si fa con l’obiettivo di risultare i più competitivi sul mercato, quelli che offrono il servizio più piacevole, insomma: si vuole dimostrare di essere i migliori. Ma con la sua risposta Alitalia “si mette in mezzo” senza offrire nulla per convincere gli eventuali clienti a volare con Alitalia e non con un’altra compagnia.

Si potrebbe obiettare che nemmeno Oreo, quando invitò tutti gli spettatori del Super Bowl a “inzuppare i biscotti al buio” perché per colpa di un blackout nello stadio il match si era interrotto per più di mezz’ora, aveva lanciato un’offerta speciale sul proprio prodotto. Ma la differenza sta nel fatto che Oreo – come Norwegian – è stata la prima a conquistarsi il proscenio dell’attenzione di migliaia di persone, in un luogo e un momento preciso. E a quel punto chi arriva prima detta le regole: quelli che seguono possono solo tentare di giocare al rialzo e cercare di fare meglio dei primi non soltanto in termini di viralità, ma anche di una reale offerta sui propri servizi. Sui social non si dovrebbe parlare se non si ha nulla da dire. Soprattutto se sei una compagnia aerea nota per le sue tariffe non esattamente a buon mercato.

Il secondo “inghippo” della risposta di Alitalia a Norwegian sta nel fatto che la foto è stata twittata sull’account ufficiale della compagnia aereataggando le principali testate giornalistiche italiane e perfino ad Aftenposten, il più diffuso quotidiano norvegese:

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Anche questo aspetto, da un punto di vista strettamente comunicativo, risulta piuttosto stridente e quasi fastidioso: la campagna di Norwegian è diventata virale online partendo da un contesto completamente offline – tanto è vero che l’ormai famoso “Brad is single” ha trovato pochissimo spazio sulle pagine social della compagnia norvegese. Alitalia invece ha scelto di gestire la faccenda con l’equivalente social del comunicato stampacon preghiera di cortese diffusione: e cioè taggando “gente importante” per fare in modo che la risposta a Norwegian venisse notata e ripresa subito dal web italiano.

Inutile dire che i meccanismi della viralità sono ben diversi e che taggare i giornali per mostrare le proprie prodezze invece che puntare su un genuino apprezzamento e coinvolgimento da parte degli utenti suona un po’ gigione. La risposta di Alitalia sarebbe diventata virale anche senza quei tag? Probabilmente sì. Ma bisogna anche riconoscere che un “Mi Piace” implica un impegno decisamente minore rispetto al fotografare una pagina di giornale e twittarla sul proprio account personale.

La risposta di Alitalia a Norwegian si deve quindi considerare un “EpicFail”? Non necessariamente. Ma non è neanche un “EpicWin”: perché se da una parte non si può negare che la trovata sia stata ben accolta dagli utenti, dall’altra non ha nemmeno prodotto un reale valore per il brand. Alitalia, infatti, non ha saputo (o potuto, o voluto) mettere veramente in mostra la competitività della compagnia aerea, non offrendo niente che incentivasse l’utente a pensare che Alitalia abbia voli particolarmente competitivi. Norwegian ha dato a tutti una buona ragione – seppur ipotetica – per usufruire del proprio servizio: un volo intercontinentale a un prezzo stracciato e l’idea che anche le altre tratte coperte dalla compagnia potessero essere a un costo interessante. Ma con la sua risposta Alitalia non ha offerto, nemmeno implicitamente, non solo nessun buon motivo per essere presa in considerazione per un viaggio aereo, ma neanche per dare un’occhiata al sito a caccia di promozioni come, ad esempio, uno sconto del 20% sulle destinazioni nazionali per chi prenota entro il 26 settembre:

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Certo, se ne sarebbe potuto fare un accenno nella risposta a Norwegian. Ma siccome questi sconti non ci azzeccano nulla con Los Angeles e #BradIsSingle, parlarne rovinato il calembour o quantomeno si sarebbe dovuto studiare una risposta più elaborata, quindi tanti cari saluti e vai con la battuta sulle ragazze che corrono in massa da Brad Pitt.

E così, mentre nel giro di 24 ore Norwegian si è costruita l’immagine di una compagnia aerea particolarmente conveniente, per Alitalia tutto finisce con una risata e un effimero bottino di “Mi Piace” che, come prima o poi accade a tutti, verranno presto dimenticati alla prossima polemica su un volo in ritardo o dopo una campagna social finita male.

Lesson Learned: Non cercare la viralità a tutti i costi se sotto sotto non hai niente da dire o da offrire. Nella migliore delle ipotesi avrai fatto sì parlare di te, ma sprecando un’occasione di far conoscere concretamente il tuo brand al tuo pubblico di riferimento.

Via Tech Economy
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