Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Video. Fortissimamente video. Il futuro dei social network è appeso alle clip, a quanto pare. E forse non è un caso che Snapchat stia facendo numeri pazzeschi in un periodo di stanca per il macrocosmo social. La notizia odierna, però, è un'altra. E arriva un po’ a sorpresa. Che Mark Zuckerberg abbia il pallino dei video non è certo una novità (lo confermano i tentativi, andati male, di acquistare proprio Snapchat). Ma che Facebook stacchi assegni milionari verso media e celebrità disposti ad utilizzare Facebook Live (il servizio live-streaming di Menlo Park), un po' di stupore lo genera. Secondo un documento in possesso del Wall Street Journal, Facebook ha siglato 140 accordi per un totale di 50milioni di dollari con alcune importanti media-company (dalla Cnn al New York Times, fino a Vox, Mashable e Huffington Post) e con alcune celebrità (da Kevin Hart a Gordon Ramsay fino a Deepak Chopra e al quarterback della Nfl Russell Wilson). L'obiettivo è quello di spingere il più possibile la piattaforma del live streaming, cercando di sbaragliare la concorrenza a suon di dollari. Secondo i dati emersi, a svettare fra i contratti più generosi c'è quello di BuzzFeed, che per i video trasmessi da marzo 2016 a marzo 2017 riceve oltre 3 milioni di dollari. Seguono a ruota il New York Times e la Cnn. Justin Osofsky, VP per le operazioni globali e delle media partnerships di Facebook, ha detto: «Abbiamo voluto invitare un'ampia gamma di partner per poter ricevere un feedback da diverse organizzazioni su quello che può o non può funzionare». Costi di promozione, insomma. Niente di più. Per dovere di cronaca, va detto che le prime indiscrezioni riguardanti i possibili pagamenti di Facebook ad aziende o celebrità per creare Live Video multimediali, erano emersi qualche mese fa grazie a un'inchiesta di Recode. Il sito aveva raccontato dell'incontro fra un dirigente di Facebook e alcune agenzie delle star. Tema della discussione: soldi in cambio dell'utilizzo di Facebook Live. Un'occasione anche per le star. Via Il Sole 24 ORE
WhatsApp, con il suo miliardo e oltre di utenti attivi su base mensile, e Messenger, che ha recentemente raggiunto i 900 milioni, non sono gli unici servizi di messaggistica in crescita sotto l'egida di Facebook. Del network di Mark Zuckerberg fa parte anche Instagram e anch'esso sta vivendo un ottimo momento, avendo toccato quota 500 milioni di utenti. A soli 6 anni dal lancio, Instagram raggiunge quota 500 milioni di utenti con un tasso di utilizzo abbastanza elevato tanto che giornalmente accedono al sistema circa 300 milioni di persone. Di queste, l'80% vivono fuori dagli Stati Uniti a confermare un successo su scala mondiale. L'annuncio, riportato anche da Mark Zuckenberg che l'aveva rilevata 2 anni fa per un paio di miliardi, porta in dote a Facebook un asset strategico sul fronte della fotografia. Instagram conta oggi oltre 95 milioni di foto pubblicate ogni giorno delle quali 82 dedicate alla moda con oltre 4 miliardi di like. Instagram è in ottima salute dunque anche se sul profilo finanziario non ha ancora trovato una strada per monetizzare tutto questo engagment. L'uso in Italia è piuttosto elevato con circa 9 milioni di utenti iscritti. Tra i recenti iscritti a Instagram ci sono anche delle celebrità come David Beckham, il popolare calciatore inglese che ha giocato per un paio di stagioni anche nel Milan, l'ex atleta e personaggio televisivo statunitense Caitlyn Jenner, il calciatore tedesco Toni Kroos e T.O.P. della Corea del Sud. Breve storia di Instagram Instagram ha visto la luce quasi sei anni fa. Dopo essere stata pubblicata nell'App Store a inizio Ottobre 2010, ha raggiunto il primo milione di utenti in poco meno di 3 mesi. In meno di un anno dal lancio, ha raggiunto quota 10 milioni di utenti. Ad Aprile 2012 arriva anche per i dispositivi Android. Nello stesso periodo viene acquistata da Facebook per 1 miliardo di dollari. A fine 2013 diventa disponibile anche per i telefonini Windows Phone. Instagram: ricavi previsti a 5,8 miliardi nel 2020 Instagram, piattaforma per condividere foto e video acquisita da Facebook nel 2012, secondo gli analisti di Cowen&Co, nel 2020 genererà ricavi per 5,8 miliardi di dollari, con 700 milioni stimati per quest'anno. Instagram da allora è cresciuta fino ad avere più utenti attivi di Twitter. Secondo gli analisti, attualmente Instagram vale 33 miliardi di dollari, più dei 30 miliardi di Twitter e dei 19 miliardi di Snapchat. Il social network si prevede crescerà al 2020 grazie al maggior afflusso di utenti previsto, dai 300 milioni attuali ai 680 milioni tra cinque anni, e dall'ingresso di soggetti fra gli inserzionisti. La rete di photo-sharing ha solo recentemente ufficializzato di aver superato quota 300 milioni di utenti attivi, e ha preso provvedimenti nei confronti degli account spam, così come ha aggiunto nuovi filtri e funzionalità in uno degli ultimi aggiornamenti della sua app mobile. Instagram è stata acquisita da Facebook nel mese di aprile del 2012 per 1 miliardo di dollari. L'acquisizione è giunta in un momento in cui Instagram aveva solo 27 milioni di utenti su iOS. Tuttavia, l'azienda ha visto oltre un milione di download il primo giorno dal lancio su Android. Per Instagram, la crescita è anche l'affermazione dei suoi sforzi nel rimuovere lo spam disattivando account associati a persone inesistenti, account doppi o creati solo per fare spam sul servizio. Negli Stati Uniti, si stima che circa un utente su sei di smartphone utilizzai Instagram, secondo la società di ricerche di mercato eMarketer. La maggior parte di questi utenti, circa il 79 per cento, sono di età compresa tra 12 e tra 34 anni. Nata nel 2010 grazie a Kevin Systrom e Mike Krieger, la start up è stata acquistata da Mark Zuckerberg per 741 milioni di dollari nel 2010, quando era solo un'app per le foto disponibile per dispositivi mobili ma poi è stata resa disponibile anche sul web e ha aggiunto nuove funzioni, tra cui la possibilità di condividere brevi video. Di recente sono stati abilitati i video in loop. Secondo dati rilasciati da Facebook a gennaio di quest'anno, su Instagram gli utenti condividono più di 70 milioni di foto e video ogni giorno. Instagram introduce la Pubblicita' anche in Italia Se ne parla oramai da un paio di anni, e prima o poi il momento doveva arrivare: la pubblicità ufficialmente arriva su Instagram, anche in Italia. Era il mese di settembre 2013 quando l'allora chief operating officer di Instagram si aspettava che il sito fosse pronto per iniziare a vendere annunci entro un anno: "Vogliamo fare soldi nel lungo termine, ma non abbiamo alcuna pressione a breve termine," White ha detto al Wall Street Journal. Nel 2013 gli utenti di Instagram erano 'solo' 150 milioni, un cifra ritenuta piccola per guadagnare cifre importanti. "In teoria, [Instagram] potrebbe fare centinaia di milioni di dollari oggi, ma avrebbero bisogno di inserire molti annunci, il che rischierebbe di 'inquinare l'ambiente'", Brian Wieser, analista di Pivotal Research Group, ha detto due anni fa. Ora, da settembre 2015, con 300 milioni di utenti che utilizzano il servizio, le aziende possono utilizzare Instagram per promuovere i propri prodotti e farsi pubblicità, in 30 nuovi paesi del mondo, tra cui Italia, Messico, India e Corea del Sud. Il servizio pubblicitario di Instagram è stato in fase di test per almeno un anno, da quando deglle immagini si sono presentate con l’etichetta "sponsorizzato" nella versione USA dell'app mobile, disponibili per una selezione di marchi già membri attivi all'interno del social network. Da settembre, gli annunci pubblicitari li vedrete anche voi utenti italiani di Instagram. Un esempio? Tra una foto e l'altra potrebbe comparire quella dell'ultimo smartwatch creato da Samsung, oppure il trailer di un film Warner in uscita nei cinema. Potranno creare campagne pubblicitarie su Instagram piccole, medie e grandi aziende in tutto il mondo. I primi brand confermati sono Audi, Samsung, Toyota, Warner Bros, Yoox, Illy e altri. Mentre Instagram ha tolto il limite alle tipologie di foto che gli utenti possono postare - recentemente ha abbandonato il divieto di immagini rettangolari, ad esempio - la società sta dando agli inserzionisti molteplici opzioni. Ad esempio, un utente può condividere un video di 15 secondi sul servizio, ma un inserzionista può caricare filmati di 30 secondi. Gli utenti normali non possono postare link a contenuti esterni, ma gli annunci possono includere cinque diversi "inviti all'azione", compresi i collegamenti per installare nuove applicazioni o per fare acquisti. Gli annunci che chiedono agli utenti di installare applicazioni sono già un formato di investimento importante per gli inserzionisti su Facebook. Come si può distinguere una pubblicità da un post normale in Instagram? L'annuncio viene evidenziato dalla scritta ‘sponsorizzato’. Oggi, Intagram conta 300 milioni di utenti attivi al mese e 70 milioni di foto postate ogni giorno. Via PianetaCellulare
Che gia' in Facebook gli utenti scrivono di meno si sa, quindi non sorprende che Nicola Mendelsohn - vice presidente della piattaforma per Europa, Medio Oriente e Africa - ha previsto che in futuro, si parla tra soli cinque anni, ci saranno solo video nella piattaforma sociale, e niente piu' testi scritti (o se ci saranno, in una quantità molto limitata). Mendelsohn, nel corso del Fortune's Most Powerful Women International Summit di Londra, ha spiegato che gli utenti scrivono sempre meno testo, con le bacheche che sono piene di contenuti esterni condivisi. Presumibilmente Facebook sta prendendo una strada diversa rispetto a quella intrapresa quando è nato con lo scopo di permettere alle persone di scambiarsi messaggi e restare in contatto anche a distanza - oggi per questo esistono Whatsapp e molti altri servizi. "Cercare di prevedere dove una società di tecnologia sarà tra cinque anni è un compito difficile, dato l'attuale ritmo di innovazione" cerca di spiegare il giornalista di Fortune, e per Mendelsohn nei prossimi anni la comunicazione sarà "sicuramente" mobile e "probabilmente" sarà attraverso "solo i video". "Se dovessi fare una scommessa punterei tutto su video, video, video", ha commentato Mendelsohn. "I video sono il miglior modo per raccontare una storia, forniscono molte informazioni in pochissimo tempo", ha spiegato il VP. I contenuti video su Facebook, Mendelsohn ha detto, stanno crescendo anche più rapidamente di quanto l'azienda aveva previsto. E la recente funzione Facebook Live che permette agli utenti di condividere video dal vivo in diretta nel social network sta crescendo più velocemente di quanto previsto da Facebook. Via PianetaCellulare
Le millennials acquistano prodotti di bellezza in un solo canale: la profumeria. Le donne over 35 invece fanno shopping di beauty tanto in profumeria quanto in farmacia, non tralasciando un giro in erboristeria né un passaggio nelle corsie del supermercato. Entrambi i target, però, sono altamente infedeli al marchio. Sono i principali risultati dell’analisi qualitativa condotta da Pambianco Research sulle consumatrici finali, realizzata nella primavera 2016 e denominata “Le consumatrici italiane e il beauty: due generazioni a confronto – canali, preferenze e idiosincrasie”. Due i cluster intervistati: le 25-34enni e le 35-50enni, di classe sociale medio-alta, residenti nell’area milanese, città simbolo del lifestyle e trend setter in Italia. MILLENIALS DA SHOW-OFF A sorpresa, nell’indagine in oggetto, le giovani sono risultate più conservatrici rispetto alle donne mature. Le 25-34enni, infatti, sono attratte dall’allure delle marche prestige, amano lo show-off, sono esibizioniste, e, quando aprono la trousse, sono orgogliose di mostrare il rossetto di un brand di lusso con il suo pack raffinato. Assolutamente vietato il ‘mix & match’ che, invece, va tanto di moda nell’abbigliamento, dove le consumatrici abbinano il pantalone di Zara alla camicia Louis Vuitton. Nel beauty, invece, mischiare il lusso con il cheap è out. Per questo le millennials, attratte dal mondo dorato del luxury, sono fedeli a un solo canale, cioè alla profumeria sellettiva, che soddisfa il loro desiderio di status symbol. Nello specifico, le catene di profumeria sono il canale prescelto, perché permettono un’esperienza d’acquisto autonoma, self-service, non condizionata dal personale del punto vendita. Apprezzano, inoltre, di questo format, la presenza in assortimento di prodotti stranieri in esclusiva. Va detto che le giovani non disdegnano le profumerie indipendenti, l’importante è che siano lussuose e che abbiano un posizionamento chiaro. Lo standing del punto vendita, infatti, è un elemento differenziante rispetto alle catene, che solitamente hanno un assortimento trasversale, dall’entry price ai prodotti premium. Un aspetto curioso, invece, è che le vendeuse delle profumerie sono percepite come mediamente preparate, ma poco gentili, troppo snob, e per niente empatiche. Un’osservazione che potrebbe apparire secondaria, ma è invece rilevante, perché la relazione umana influisce molto sulla decisione finale di acquisto. Per quanto riguarda le farmacie, dove ormai sono presenti molti corner dedicati alla bellezza, le intervistate affermano di non apprezzarle per l’acquisto di cosmetici. Unica eccezione, nel caso in cui le giovani abbiano particolari problematiche della pelle, e, in questo frangente, si ricercano proprio in farmacia prodotti più scientifici, con la consulenza del camice bianco DELUSIONE E VOGLIA DI EFFICACIA Arrivando alle donne tra i 35 e i 50 anni, la ricerca ha rilevato una forte delusione da parte loro nei confronti dei prodotti di bellezza dalle promesse troppo alte. Mascara iper-allunganti, creme che donano una nuova giovinezza, sieri che spianano le rughe, addirittura pubblicizzati da testimonial 20enni o da star del cinema fotoshoppate. Insomma, promesse iperboliche, e risultati non all’altezza. Questa delusione spinge le donne older a cercare prioritariamente l’efficacia, cioè un prodotto che funzioni, che non prometta l’impossibile ma una performance raggiungibile. E in quale canale si possa acquistare diventa secondario, l’importante è che il prodotto dia i risultati promessi. Quindi, mentre le younger sono più esibizioniste e privilegiano la profumeria con i suoi marchi di lusso, le consumatrici più mature cercano il prodotto ‘giusto’ in qualsiasi canale. Anzi, amano la farmacia perché pensano di trovare un cosmetico dalla formulazione più scientifica, e quindi più credibile in termini di performance. Punto debole di questo canale, però, è proprio il farmacista: le intervistate, infatti, lo vorrebbero più preparato sui prodotti cosmetici, perché preferiscono la sua consulenza rispetto a quella della beauty assistent deputata al corner beauty. Il camice bianco mantiene un valore insostituibile, e le consumatrici non vogliono trovare in farmacia la stessa figura di beauty assistent presente nelle profumerie. Per quanto riguarda quest’ultimo canale, le donne tra i 35 e i 50 anni privilegiano i punti vendita indipendenti rispetto alle catene (al contrario delle giovani), perché nei negozi stand alone possono avere la consulenza del profumiere, per loro indispensabile nella scelta dei cosmetici. Allo stesso modo, trovano prodotti naturali nelle erboristerie oppure il marchio consigliato dalle amiche nel supermercato o nel drugstore. Va detto però, per quanto riguarda la grande distribuzione, che accetterebbero volentieri un marchio di lusso all’interno del superstore, purché sia esposto in uno spazio brandizzato che comunichi i valori aspirazionali della maison. Per quanto riguarda i drugstore, questi punti vendita hanno ancora un appeal marginale, probabilmente perché il target è residente nell’area milanese, mentre i drugstore sono maggiormente distribuiti in altre zone d’Italia, in particolare nel centro-sud della Penisola. Ciononostante, alcune consumatrici trovano in questo canale specializzato alcuni prodotti per capelli che non sono distribuiti in nessun altro canale. Le donne intervistate si affidano molto al passaparola, e sono totalmente disincantate nei confronti della pubblicità che utilizza testimonial troppo lontane dalla loro quotidianità, dalla bellezza irraggiungibile. Considerano più credibile la ‘signora della porta accanto’, purché abbia una pelle curata e luminosa, piuttosto che la star hollywoodiana dalla bellezza tanto perfetta quanto ritoccata artificialmente. LIBERI TUTTI Se l’orientamento verso i canali distributivi è diverso nei due target, entrambi invece sono allineati nel modo in cui approcciano i prodotti. Tutte le donne, cioè, risultano altamente infedeli al marchio, e piuttosto si fidelizzano al prodotto che trovano performante. Questa infedeltà al marchio è peculiare del settore beauty: risulta molto più accentuata rispetto ad altri settori, come la moda, dove c’è una maggiore fidelizzazione al brand. Invece, per quanto riguarda i cosmetici, le consumatrici non hanno alcuna remora ad abbandonare il marchio che usano da tempo in virtù di un altro che garantisca maggiori risultati, complice anche il prezzo che, ovviamente, è più contenuto in questo settore rispetto ad altre merceologie. La novità (ovvero un nuovo ingrediente, una diversa azione cosmetica, un packaging rivoluzionario, ma anche un immaginario valoriale intrigante a livello di comunicazione) è il driver che spinge all’acquisto. Un altro motivo che determina il ‘tradimento’ verso un altro brand è la credenza che sia necessario cambiare periodicamente la crema utilizzata, per una naturale assuefazione della pelle ai principi attivi. Insomma, per tutte queste ragioni, la sperimentazione regna sovrana tra le acquirenti di prodotti di bellezza. Nello specifico, l’investimento emotivo verso i prodotti per il viso è molto più forte dell’attenzione che si dedica a quelli per il corpo, mentre il mondo del make-up in generale sembra avere una connotazione meno giocosa rispetto a un tempo. Cioè l’approccio ludico e disimpegnato risulta in diminuzione, soprattutte nelle consumatrici older, a favore di un make-up con caratteristiche più ‘curative’. Il profumo, invece, è il segmento del beauty che, nella percezione delle consumatrici, è evoluto meno degli altri a livello di innovazione. Le consumatrici di entrambe le fascie di età conoscono, o pernsano di conoscere molto bene, l’affollato panorama di marche beauty presente sul mercato italiano. In particolare, le millennials si sentono molto competenti in fatto di beauty, motivo per cui privilegiano un’esperienza di acquisto autonoma in una catena di profumeria, cioè ritengono di non aver bisogno della consulenza delle vendeuse. Infine citano, tra i prodotti che fanno ancora fatica a trovare sul mercato, i formati minisize da mettere in borsetta. TENDENZE: DEVICE E INSTAGRAM Tra i trend considerati più in crescita, le donne intervistate segnalano il fenomeno dei beauty device, ovvero le attrezzature professionali o semiprofessionali per la detersione e l’idratazione della pelle, da utilizzare comodamente a casa, come una sorta di spa a domicilio. È una tendenza che fa molti proseliti e quasi tutte le donne sono concordi nel sottolinearne l’efficacia. Un altro driver che, secondo le consumatrici, spingerà sempre di più gli acquisti è la rarità, riferita cioè a prodotti non presenti sul mercato italiano, conosciuti solo per passaparola o attraverso i social media. Il trend bio è sottolineato soprattutto dalle donne adulte, mentre le più giovani declinano questa tendenza nelle preparazioni ‘casalinghe’, come la maschera fatta in casa. Infine, tutte segnalano Instagram come il social media che sarà sempre più utilizzato, perché permette di seguire blogger, make-up artist, personaggi fuori dagli schemi, ma anche persone assolutamente normali che danno consigli sulle soluzioni cosmetiche che hanno sperimentato. Via PambiancoNews
Nove mesi consecutivi di crescita per gli investimenti pubblicitari in Italia. Il mercato Adv nel nostro Paese, riporta Nielsen, cresce del 6,1% nel singolo mese di aprile: il quadrimestre si attesta a +3,4%, rispetto allo stesso periodo del 2015, grazie a un incremento nella raccolta superiore a 69 milioni di euro. Se si aggiungesse anche la stima della raccolta sulla porzione di Web attualmente non monitorata (principalmente search e social), il mercato chiuderebbe il mese di aprile a +7,5% e i primi quattro mesi dell’anno a +4,8%. “Da agosto 2015 a oggi, contiamo nove mesi consecutivi di crescita: seppur il mercato ci abbia abituato a usare molta cautela nelle previsioni, possiamo comunque parlare di un consolidamento della ripresa”, afferma Alberto Dal Sasso, Tam e Ais Managing Director di Nielsen. CRESCONO ANCHE I PERIODICI. Relativamente ai singoli mezzi, la Tv cresce a aprile del +10,3% e chiude il quadrimestre a +6,4%. Lieve segno positivo per i quotidiani che chiudono aprile a 0,8%, consolidando il periodo gennaio – aprile a -2,9%. L’andamento del mese è positivo anche per i periodici: aprile a +4,5%, quadrimestre a -1,6%. Gli investimenti sul mezzo radio restano positivi grazie al singolo mese di aprile in crescita del 3,8%, che consolida a +2,3% il trend per i primi quattro mesi dell’anno. Sempre buone le performance nei primi quattro mesi dell’anno per cinema (+16,8%) e outdoor (+9,7%). Resta positivo il transit (16,6%), che incrementa la quota nel mercato grazie all’aumento di copertura. NUOVA ROTTA PER GLI INVESTIMENTI WEB. Internet, relativamente al perimetro attualmente monitorato in dettaglio, registra un decremento del -0,6% del periodo consolidato e un calo ad aprile del -4,8%. Integrando il dato con le stime desk di Nielsen sull’intero mondo del Web advertising (aggiungendo principalmente search e social), il quadrimestre chiude a +8,1% (aprile a +8,9%). Via Business People
I media digitali stanno conquistando la comunicazione corporate e nei prossimi cinque anni cresceranno più di tutti gli altri canali. Lo dice un’indagine Doxa su 100 responsabili comunicazione promossa da iCorporate, società di consulenza per la comunicazione corporate e la gestione della reputazione offline ed online, che conferma la centralità del digital per costruire e difendere la reputazione aziendale e l’immagine del capo-azienda. L’interesse delle aziende per i social media, dunque, è sempre più orientata all'obbiettivo di farsi conoscere e di avviare un dialogo diretto con clienti e consumatori. Nei prossimi cinque anni, i manager e dirigenti intervistati vedono nei social network lo strumento che più di ogni altro è destinato a crescere per importanza (67%), seguito dal sito web aziendale (58%) e dai blog (48%). Per contro, ben oltre la metà (64%) pensa che l’importanza dei media tradizionali rimarrà invariata o, addirittura, diminuirà. Già oggi la totalità delle aziende intervistate dichiara di utilizzare i canali digitali per gestire la comunicazione corporate. In particolare, probabilmente per la natura fortemente relazionale di questa disciplina, lo strumento più utilizzato a tal fine è quello delle Digital Pr (72% dei casi), seguite a ruota dal sito web aziendale (69%). Ma i social media non sono da meno, con ben il 66% delle aziende che già comunica la propria dimensione istituzionale attraverso presidi attivi suFacebook (82%), Twitter (76%) e LinkedIn (62%). CORPORATE STORYTELLING. Perché le aziende vedono nei canali digitali una risorsa irrinunciabile per l’affermazione della propria reputazione? Tre le ragioni fondamentali. Innanzitutto, perché permettono di condividere più contenuti, con maggior frequenza e autonomia rispetto ai media tradizionali, più costosi e “selettivi”; in secondo luogo, per l’immediato accesso a feedback e insight provenienti dalla Rete; terzo, più in generale, per la possibilità di accrescere la visibilità complessiva dell’azienda, affiancando ai canali di comunicazione tradizionali anche quelli digitali e aumentare così la share of voice. «Lavorando ogni giorno al fianco di aziende, imprenditori e top manager, assistiamo a una progressiva presa di coscienza: la comunicazione digitale ha un potenziale immenso, ma, specialmente quando si toccano le corde della reputazione aziendale, è necessario gestirla con un approccio altamente professionale e orientato alla massima qualità», commenta Sergio Pisano, direttore generale di iCorporate. «I leader più illuminati sanno quanto sono esigenti i loro pubblici, anche sui social media, e per questo stimolano l’organizzazione per creare contenuti sempre più rilevanti e modalità di gestione delle relazioni sempre più innovative, all’interno del processo dinamico di affermazione del profilo corporate dell’azienda, on e offline». TOP EXECUTIVE IN PRIMA FILA. Il ruolo crescente della comunicazione corporate digitale è confermato anche dall’importanza che i capi-azienda vi attribuiscono: l’89% presta molta attenzione alle potenzialità offerte dalla Rete per costruire, consolidare e difendere la reputazione aziendale, e nel 59% dei casi hanno già aperto profili personali sui social media (Facebook 79%, LinkedIn 59% e Twitter 52%) per finalità puramente aziendali: ampliare il proprio network di contatti, creare opportunità di business e promuovere l’azienda in prima persona. Solo il 44% dei capi-azienda che ha aperto profili sui social media li gestisce personalmente: la maggior parte tende ad affidarsi a collaboratori fidati e specializzati,interni all’organizzazione o consulenti esterni. Francesco Foscari, Executive President di iCorporate, aggiunge: «Ricorrere a strumenti digitali per la comunicazione istituzionale non significa abbandonare la comunicazione offline. Questo i leader aziendali lo sanno bene. La sfida è riuscire a costruire un giusto mix tra canali tradizionali e digitali, adatto alle proprie specificità, individuando di volta in volta il canale più efficace per veicolare diversi contenuti. Con l’obiettivo di stabilire relazioni durature e di successo con tutti gli stakeholder e rafforzare la percezione dell’identità aziendale». Da ultimo, grazie anche all’ampia disponibilità di strumenti per l’analisi della web reputation che consentono di misurare i ritorni dell’azione con precisione e tempestività, la comunicazione corporate digitale è una modalità generalmente considerata molto efficace: innanzitutto, per influenzare i comportamenti di acquisto (secondo il 93% dei rispondenti) e per raggiungere le “online communities” (91%); inoltre, sempre di più, per ingaggiare partner di business (86%) e altri stakeholder chiave quali gruppi di opinione e di pressione (86%), autorità e istituzioni (81%), giornalisti (80%). Via Business People
Dopo molti anni di contrazione, il mercato italiano dei Media (pay e advertising) chiude il 2015 a quota 15,3 miliardi di euro, in linea con il valore 2014. Mentre la Tv chiude in pareggio e la Stampa registra un calo del 5%, gli Internet Media crescono dell’11% arrivando a valere quasi 2,3 miliardi di euro. Il 95% di questo mercato è legato alla pubblicità; la restante parte è legata all’acquisto[1] da parte degli utenti italiani di news online e di servizi in abbonamento legati a Video e musica in streaming. Nel 2016 ci si attende che gli Internet Media mantengano lo stesso andamento, con un trend di crescita analogo all’anno precedente. Questo è quanto emerge dai dati presentati dall’Osservatorio Internet Media del Politecnico di Milano* in occasione del convegno “Internet Media: il dato è tratto”. “Il mercato pubblicitario complessivo[2] nel 2015 vale 7,4 miliardi di euro, in leggera crescita (+3%) rispetto al 2014. L’Internet advertising[3] ha raggiunto i 2,15 miliardi di euro (+11%), rafforzando così la sua posizione di secondo mezzo pubblicitario italiano con una quota del 29% (rispetto al 27% nel 2014), alle spalle della Televisione, che continua a valere il 49% (50% nel 2014) ma sempre davanti alla Stampa che scende al 17% (18% nel 2014) e alla Radio (stabile al 5%). Nel 2016 abbiamo stimato che l’Internet advertising crescerà ancora di circa l’11% avvicinandosi ai 2,4 miliardi di euro”, afferma Marta Valsecchi, Direttore dell’Osservatorio Internet Media del Politecnico di Milano. “I dati confermano un media mix diverso da quello osservato in Europa, dove la Stampa continua ad avere un ruolo ben più rilevante che in Italia, attestandosi su una quota pari al 25%, a scapito della Televisione che vale il 33% e dove Internet nel 2015 è diventato il primo mezzo in Europa (36% di quota), in particolare grazie al mercato UK nel quale l’advertising online pesa il 43% del totale mezzi[4]” è il commento di Daniele Sesini, General Manager di IAB Italia. “I due terzi del mercato dell’Internet advertising in Italia sono riconducibili ai grandi Over The Top internazionali (e in particolare a Google e Facebook) che crescono del 16% nel 2015 e del 12% nel 2016, grazie, soprattutto, ai numeri di audience raggiunti, alla semplicità nella pianificazione e all’ampia disponibilità di dati profilati. Audience, dati e tecnologia stanno, quindi, diventando i principali ambiti di competizione nel mercato pubblicitario online” aggiunge Marta Valsecchi, Direttore dell’Osservatorio Internet Media del Politecnico di Milano. I formati pubblicitari online: la crescita è trainata dai Video La Display advertising, principalmente banner e Video, resta la componente dominante (57% nel 2015 e 59% nel 2016), raggiungendo un valore di 1,2 miliardi nel 2015 (+15% sul 2014) e di 1,4 miliardi di euro nel 2016 (+13% rispetto al 2015). Per l’acquisto di visibilità nei motori di ricerca (Search), nel 2015 sono stati spesi 702 milioni di euro, in crescita del 5% e si prevede un’ulteriore crescita del 3% nel 2016 fino a superare i 720 milioni. All’interno della Display advertising, il Video advertising stimiamo crescerà del 34% nel 2016 arrivando a quasi 490 milioni di euro, dopo aver ottenuto già nel 2015 una crescita del 25% e un valore assoluto di 364 milioni di euro. Questo valore è la somma di due componenti: da un lato, la raccolta derivante da YouTube e dai Social network, che nel 2015 vale circa i due terzi del totale Video e cresce del 40% circa; dall’altro lato, la raccolta sui siti degli editori/Media Company italiani e sui portali verticali, che vale un terzo del totale ed è complessivamente stabile in valore assoluto nel 2015. “Per la prima volta, abbiamo stimato anche il valore di mercato del Native advertising: in senso stretto, ossia considerando solo i formati cosiddetti Recommendation Widget e In-feed Unit, stiamo parlando dell’1% del totale mercato Internet advertising”, afferma Andrea Lamperti, Direttore dell’Osservatorio Internet Media. “Se consideriamo però l’accezione più ampia, includendo anche la Search, il Classified, i post sponsorizzati all’interno dei Social network e i lavori realizzati a quattro mani con l’editore (come i pubbliredazionali e gli advertorial indicati come contenuto sponsorizzato) scopriamo che il mercato del Native advertising in Italia vale già più della metà del totale (56% nel 2015)”. I device: un quarto del mercato Internet advertising è Mobile Nel 2015 l’Internet advertising su Smartphone è cresciuto del 54% arrivando a 452 milioni di euro, mentre quello legato alle App per Tablet è cresciuto del 35% arrivando a quota 84 milioni. I trend positivi sono previsti anche per il 2016: “Lo Smartphone è il device con il maggiore impatto sulla crescita complessiva del mercato: crescerà con un tasso pari al 48% nel 2016, a causa del costante e continuo spostamento dell’audience su questo canale. Arriverà così a valere quasi 670 milioni di euro[5] con un peso pari al 28% dell’Internet advertising complessivo: il 95% dei circa 230 milioni di aumento rispetto al 2015 verranno raccolti qui”, afferma Andrea Lamperti, Direttore dell’Osservatorio Internet Media. “Il Tablet (solo App) rimane marginale (5% del mercato pubblicitario online nel 2016), ma cresce del 45%. I due canali Mobile quindi passano da circa un quarto (nel 2015) ad un terzo del mercato pubblicitario online (nel 2016)”. Il Programmatic advertising varrà il 22% della Display advertising nel 2016 Il Programmatic advertising, dopo essere cresciuto nel 2015 del 113%, fino a valere 234 milioni di euro, nel 2016 stimiamo crescerà poco più del 30%, superando i 300 milioni di euro: la crescita è inferiore alle stime di fine 2015, anche perché gli investitori stanno cercando di valutare i benefici di queste piattaforme, vista l’entità non irrisoria delle fee tecnologiche e dei costi di gestione. L’incidenza sul totale Display adv inizia ad essere rilevante: 22% nel 2016. I Video crescono anche tra i contenuti pay A differenza dell’advertising, il mercato dei Media a pagamento registra un segno negativo nel 2015 (-3%), per un valore assoluto di 7,9 miliardi di euro. Inoltre, la componente derivante da Internet vale poco più dell’1% del totale, ossia 112 milioni di euro. La crescita del mercato Internet Media pay nel 2015 è del 24%. In particolare, la spesa dei consumatori (al netto IVA) per i contenuti Video online (SVOD, abbonamenti di contenuti Video On Demand) cresce del 27% e vale poco meno della metà del totale mercato Internet Media a pagamento; seguono i ricavi pay online legati alle news, che pesano poco più del 30%, ma calano del 2%. Completano il quadro i ricavi per gli abbonamenti a servizi musicali, che valgono oltre il 20% del totale e crescono dell’87%. I dati sul comportamento degli utenti Internet italiani confermano i trend in atto. “I Video si stanno affermando come formato privilegiato di consumo dei contenuti Media” afferma Guido Argieri, Telco & Media Director di Doxa. “L’80% degli utenti Internet guarda Video brevi online, soprattutto attraverso YouTube (74% degli utenti internet) e Facebook (50%) ma anche da siti e App dei quotidiani (14%). La presenza dei Video aumenta il tempo speso online: in particolare, grazie ai Video il 31% del campione passa più tempo sui siti dei quotidiani, mentre il 29% su Facebook. Online vengono visti anche film e programmi Tv dal 46% degli utenti Internet; stiamo parlando soprattutto di serie Tv, film meno recenti ma anche film appena usciti al cinema. Infine abbiamo stimato che 3,2 milioni di italiani utilizzano un servizio in abbonamento per contenuti Video online (TIMvision, Infinity, Sky Online e Netflix); tale valore include anche chi sta provando gratuitamente questi servizi”. Via Spot and Web
Il 2015 ha confermato il mobile payment come uno dei trend più importanti nei prossimi anni anche per il nostro Paese. Il mercato dei pagamenti in prossimità potrà intercettare nel 2017 tra i 3 e i 6 miliari di euro di transato e una base di utenti tra i 2,7 milioni e 4,8 milioni; numeri correlati anche alla diffusione di sistemi come Apple Pay, all’offerta commerciale delle banche e soprattutto all’arrivo di nuove startup.
L’evoluzione del mercato
Secondo il recente Global report di Worldpay i metodi di pagamento alternativi (APM) hanno toccato un traguardo storico lo scorso anno raggiungendo la quota di mercato del 51%, superando i pagamenti con carta di credito. Il boom dell’eCommerce è stato determinante nel guidare questo cambiamento: l’aumento degli acquisti in mobilità, la popolarità raggiunta dalle nuove applicazioni per i pagamenti e dalle tecnologie di prossimità (NFC) hanno reso lo smartphone molto più di un dispositivo per il semplice shopping online ma inizia ad essere considerato come la principale piattaforma per la gestione di denaro. Stiamo ufficialmente entrando nella “terza generazione” dei pagamenti con metodi alternativi per la mobilità. La prima era dei pagamenti digitali ha avuto inizio con il boom dell’e-commerce nei primi anni 2000 quando aziende come PayPal e AliPay avevano introdotto eWallet al mainstream. La seconda fase ha coinciso con l’ascesa dello smartphone all’inizio del nuovo decennio, con il crescente proliferare di nuove applicazioni mobili. Ora che gli APM hanno raggiunto la maggior parte del mercato e non vi sono segni di rallentamento di questa crescita è possibile sostenere che lo smartphone abbia contribuito a portare l’eCommerce al di fuori dei propri canali. Il recente Global Payments report ha anche stimato che l’eWallet supererà sul mercato, entro il 2019, sia le carte di credito che l’e-commerce arrivando a rappresentare il 27% del fatturato globale rispetto all’attuale 24% delle carte di credito. Ciò anche in considerazione della diminuzione delle vendite sul mercato dei personal computer a favore invece dei dispositivi connessi in mobilità quali smartphone e tablet che continueranno dunque ad erodere quote di mercato ai metodi di pagamenti più tradizionali come carte di debito, bonifici bancari e, naturalmente, contanti.
L’ascesa delle startup nel settore
Secondo una recente ricerca di Deloitte il mercato dei “servizi finanziari 2.0” crescerà talmente tanto da raggiungere 7 trilioni di dollari nel 2020. Probabilmente anche questo scenario ha influenzato molte startup come ad esempio la Venmo, la più popolare startup di p2p negli States, di proprietà di PayPal, ad esplorare l’ipotesi di sviluppare un proprio robo-advisor come fatto anche da Snapchat, per la quale già a partire dal novembre 2014 tutti gli utenti potevano utilizzare Snapcash per scambiarsi denaro tra di loro. I trasferimenti disponibili solo tra persone e non verso gli esercenti sono real-time e resi possibili dalla partnership con Square che ha fin da subito intuito le potenzialità del servizio di Snapchat. Ad oggi l’app conta 100 milioni di utenti attivi al giorno, il 60% dei quali tra i 13 e i 34 anni, proprio i più disaffezionati alle banche e a modalità di pagamento tradizionali e attratti invece da servizi finanziari innovativi fruibili attraverso gli smartphone, da cui sono oramai inseparabili. Un altro caso di questo tipo è ad esempio Satispay, l’app con cui chiunque abbia un conto corrente bancario di qualsiasi banca italiana può scambiarsi denaro con altri utenti privati e pagare per i propri acquisti nei punti vendita convenzionati facendo un “check-in” nel negozio in cui ci si trova. Ad oggi ha convenzionato più di 2 mila punti vendita e punta ad espandersi ancora in Italia ma non solo.
In casa Jusp, il mobile Pos rende facile per tutti i piccoli esercenti accettare pagamenti elettronici tramite pc, tablet e smartphone. Questa startup dei mobile Pos ha siglato anche un accordo con Fastweb che porterà il dispositivo ai clienti dell’operatore. Il servizio si chiama “Fast Pos” e promette di rendere i pagamenti con carta semplici e accessibili alle piccole e medie imprese che avranno così la possibilità di gestire in maniera digitale e in mobilità transazioni, firme e scontrini. Un’altra startup interessante è Solo, che rispetto ai mobile Pos come Jusp, Payleven o SumUp ha il vantaggio di non necessitare di un hardware dedicato. Si tratta infatti di un Pos virtuale, ovvero un link che rinvia ad una pagina personale del business o di chi riceve il pagamento e che permette a chi accede al link di pagare con carta di credito o di debito. Effettuato il pagamento arriva istantaneamente una mail di conferma di avvenuto pagamento, che è in realtà un bonifico sul conto corrente associato a quella pagina. La startup è partecipata dal venture incubator Digital Magics, e ha siglato un accordo con il Gruppo Uvet, polo distributivo leader in Italia nella fornitura per viaggi, per portare il Pos virtuale di Solo in oltre 1.300 agenzie turistiche del network. La fase di test è in corso a Milano e Bologna. Una sfida decisamente ambiziosa e stimolante considerato che alcuni big hanno iniziato ad offrire servizi similari, come ad esempio PayPal che nel 2015 ha lanciato PayPal.me, il personal link che funziona per il business (per ricevere pagamenti appunto per la vendita di beni e servizi) ma in questo caso anche per i pagamenti tra persone.
Il settore bancario
Nel corso dell’ultimo anno le banche non sono certo rimaste a guardare, sebbene abbiano assunto perlopiù una posizione difensiva inseguendo le innovazioni già presenti sul mercato. Uno dei maggiori successi del 2015 è senza dubbio Jiffy, il servizio di mobile payment inserito anche all’interno del Mediolanum Wallet di Banca Mediolanum: funziona con un meccanismo semplice molto simile all’applicazione di WhatsApp ma specifico solo per i pagamenti. Jiffy è veicolato attraverso le app di mobile banking delle banche aderenti ed ha avuto la forza di imporsi come standard di mercato nel settore bancario, sbarcando anche in Europa. Diverse le startup internazionali che si configurano come delle vere e proprie banche ma che operano solo in mobilità via smartphone:
1. Atom Bank: è una delle prime digital bank ad avere ottenuto l’autorizzazione da parte degli enti regolatori britannici usando addirittura parametri biometrici per il riconoscimento dell’utente al posto delle password. La banca spagnola BBVA ne detiene il 30% e garantisce tassi e fee più basse e servizi che aiutano a gestire soldi e risparmiare. E’ stata fondata nel 2014 da Anthony Thomson e oggi offre servizi mobile banking e conti di deposito.
2. Monese: è un servizio di digital banking che consente ai cittadini di aprire un conto corrente nel Regno Unito in pochi minuti anche se stranieri e senza cittadinanza. Il target della startup fintech sono proprio gli immigrati ed offre loro la possibilità di aprire un conto e ottenere una carta di debito Visa in pochissimo tempo con un semplice selfie e una foto del passaporto. E’ stata fondata nel 2013 da Norris Koppel ed oggi offre ritiro contanti, pagamento con carta, conto corrente, trasferimento internazionale di denaro.
3. Osper: è una carta di debito prepagata e un servizio di mobile banking dedicato soprattutto ai giovani che vogliono gestire soldi con più responsabilità. Esiste anche un’app con login separate per i ragazzi e i loro genitori. E’ stata fondata nel 2012 da Alick Varma ed offre i servizi di carta di debito prepagata, app che offre consigli su come spendere e gestire al meglio i propri soldi.
4. Mondo: è un’app che offre servizi bancari a costi più bassi rispetto a quelli tradizionali. Gli utenti possono accedere all’app tramite iPhone e ottengono una carta di debito prepagata Master Card. Possono caricare soldi nella carta e fare transazioni nei negozi e ritirare soldi al bancomat. Ricevono inoltre notifiche in tempo reale sulle loro spese. Fondata nel 2015 da Gary Dolman, Paul Rippon, Jonas Huckestein, Tom Blomfield, Jason Bates offre applicazioni per servizi bancari digitali.
5. Starling: fondata nel 2014 da Anne Boden, ex COO della Allied Irish Bank, come le altre banche digitali punta su servizi più economici e sulla tecnologia e fornisce informazioni e aggiornamenti in tempo reale.
6. Tandem: è una banca digitale fondata nel 2013 da Matt Cooper e Ricky Knox. A dicembre 2015 ha ottenuto una licenza dalla Banca d’Inghilterra. Qualche settimana fa ha avviato una campagna di equity crowdfunding con una raccolta record nei primi giorni di 1 milione in appena 15 minuti.
7. Simple: è un’app creata nel 2009 da Shamir Karkal, Alex Payne, Joshua Reich che aiuta i consumatori a spendere in modo più saggio e a risparmiare. La startup oggi offre un conto bancario e gli strumenti per gestire i soldi che sono accessibili via app e web. Acquistata dal gruppo bancario BBVA nel 2014, oggi serve più di 100mila consumatori e ha gestito più di 1,7 miliardi di transazioni.
8. Moven è un servizio che offre un’app, una carta di debito, il contactless payment, e consigli in tempo reale su come prendere decisioni finanziare più sagge e risparmiare di più, con aggiornamenti sulle spese e le transazioni effettuate. E’ stata fondata nel 2011 da Brett King, Alex Sion, Richard Nearn.
9. BankMobile: è la prima banca che offre conti di deposito senza fee, e accesso a più di 55mila ATM, anche questi senza alcuna soprattassa. La tecnologia messa a disposizione permette di avere tutta “una banca in una tasca”. Fondata nel 2015 da Jay Sidhu, Luvleen Sidhu offre pagamenti peer-to-peer, conti di deposito senza fee e tutti i principali servizi bancari trasferiti sull’online.
10. Digibank by DBS: è un’intera banca “trasferita” all’interno del mobile, fondata nel 2016. È l’unica banca indiana che consente ai clienti di aprire un conto senza firmare alcun documento. Gli utenti possono iniziare con un e-wallet che possono trasformare poi in un vero e proprio conto bancario.
Via Tech Economy
Creare un ambiente di lavoro ottimale – in grado di favorire la crescita professionale e umana delle persone – non fa solo bene ai dipendenti, ma anche all’azienda in termini di fatturato e di capitalizzazione di Borsa. È il risultato di una ricerca Top Employers-Hrci che, svolta per cinque anni (2011-2015) monitorando i principali indici di Borsa internazionali, documenta un sensibile incremento di valore dei titoli azionari e del fatturato delle aziende che investono in ambito HR. L’analisi ha messo a confronto 289 società internazionali quotate in Borsa e certificate Top Employer-Hrci con aziende analoghe, ma non certificate. I dati dimostrano come le aziende certificate ottengano performance sensibilmente migliori rispetto agli indici di Borsa e all’andamento medio di mercato delle aziende non certificate. In particolare, emerge non solo il dato dell’aumento di valore del singolo titolo azionario delle aziende certificate (+57,5% in cinque anni), ma ancora di più la performance del +51,2% (+8,6% annuo) rispetto alla media degli indici di Borsa. L’incremento del fatturato rispetto ad aziende analoghe non certificate è invece del 14,1% in cinque anni (+2,8% l’anno). “Attenzione”, precisa David Plink, Ceo di Top Employers Institute, “non stiamo dicendo che esista un rapporto diretto tra Best Practice in ambito HR e incremento del valore azionario o fatturato aziendale, ma che una gestione coinvolgente, motivata e diffusa della politica HR e una profonda attenzione al valore del capitale umano può contribuire positivamente ai risultati aziendali. Un ambiente di lavoro ottimale e una politica mirata alla crescita umana e professionale delle persone si traduce, in ultima analisi, in benessere diffuso e quindi anche in una proficua crescita aziendale”. Via Business People
In uno scenario in cui sempre più si parla di digitalizzazione della Pubblica Amministrazione, che da una parte si trova ad affrontare le nuove esigenze del cittadino e dall’altra le nuove direttive a cui deve adeguarsi, come questa può sfruttare al meglio i social network? E in che modo e con quali strumenti si può migliorare il rapporto con i cittadini e il livello dei servizi offerti? L’investimento in attività social da parte della PA è in crescita sì, ma lentamente. Ad esempio la presenza social dei comuni italiani secondo l’Anci (Associazione Comuni Italiani) è ancora molto bassa: solamente il 6% circa degli oltre 8mila Comuni italiani possiede un account sui principali social network. Se guardiamo, invece, alle Regioni – secondo i risultati un progetto di ricerca presentato dalla giurista Morena Ragone nel corso del convegno su social network e sentiment analisys che si è tenuto nei giorni scorsi a ForumPA – emerge che la maggioranza di queste possiede sia un account Twitter che Facebook. I motivi che portano la PA ad investire sui social media sono principalmente due: il primo, invariato rispetto al passato, per avvicinarsi e raggiungere il cittadino che è diventato sempre più esigente ma al contempo anche più aperto alla collaborazione ed al dialogo; il secondo, invece, riguarda le tendenze crescenti in merito all’uso e al tempo mediamente speso dagli utenti sui social, come dimostrato dal rapporto We are social “Digital in 2016”. Le PA sempre più adottano una strategia Citizen-Centric, mediante la quale si impegnano a favorire maggiore trasparenza e facile accesso ai servizi pubblici secondo le esigenze del cittadino, malgrado questo richieda un maggiore sforzo in termini economici e organizzativi che nel lungo periodo si traducono in benefici per la collettività. I 4 temi fondamentali di tale strategia sono: Comunicazione Gli account istituzionali sui social network spesso assumono il ruolo di un vero e proprio “sportello di informazione”, una sorta di prolungamento dell’ufficio URP: secondo l’indagine condotta da Anci il social network maggiormente impiegato è Twitter, attraverso il quale i Comuni svolgono attività informativa, come la promozione della cultura del turismo e news del territorio, ma non si aprono molto al confronto con i cittadini. Un vero peccato, se si considera la possibilità di dar vita, proprio attraverso i social, a nuove community pronte ad accogliere discussioni democratiche sulle tematiche riguardanti il territorio. Ascolto La PA interessata all’ascolto del cittadino può investire nella sentiment analysis di quanto discusso online, uno strumento utile a studiare la soddisfazione del cittadino e valutare la qualità della comunicazione online. Nello studio presentato da Morena Ragone, ad esempio, si sono evidenziate, tramite strumenti di sentiment analysis applicati a Twitter, le “polarità” delle discussioni classificandole come con accezione negativa, positiva oppure neutra. Dai risultati emerge che nella quasi totalità dei casi la polarità dei tweet pubblicati dalle Regioni è relativamente neutra e questo è probabilmente dovuto alla difficoltà comunicativa e semantica legata ai restrittivi 140 caratteri che Twitter permette di pubblicare e che dovrebbe far riflettere sulla necessità di adottare nuovi linguaggi che meglio si adattino alle caratteristiche del canale di comunicazione adottato. Social Media Policy La Social Media Policy è quel documento in cui vengono definite le norme di comportamento e i regolamenti in merito all’uso dei social media, rivolte sia ai dipendenti di un’organizzazione che ai suoi utenti con cui questa entra in contatto attraverso i canali di comunicazione istituzionale online. Dai dati presentati durante il convegno di ForumPA emerge che non tutte le PA dispongono di una social media policy: delle 13 Regioni che hanno risposto all’intervista effettuata solo 3 posseggono policy interne. Questo fenomeno comporta un generale disorientamento e disorganizzazione dei dipendenti non istruiti all’uso delle utenze istituzionali social. “La social media policy – afferma Marco Laudonio, che cura la strategia digitale del MEF ed è componente del gruppo di supporto al Responsabile Anticorruzione e Trasparenza dello stesso Ministero – è la carta di identità della pubblica amministrazione. Nel lavoro che abbiamo realizzato per il MEF, ad esempio, abbiamo aggiunto anche una sezione su cosa non postiamo proprio come forma di autodisciplina oltre che di assoluta trasparenza”. Servizi Attraverso i social network site si può dar vita a nuovi canali di erogazione dei servizi pubblici al cittadino, come ha affermato durante il convegno Giacomo Angeloni, Consigliere del Comune di Bergamo che ha sottolineato come sia possibile, attraverso i social, creare nuove occasioni di fruizione dei servizi offerti. La PA infatti grazie ai social network può offrire servizi di assistenza al cittadino attraverso la messaggistica in real time, la divulgazione di informazioni di pubblica utilità e la promozione di eventi sul territorio e di nuovi servizi erogati online come quello dei pagamenti elettronici, che in molti casi riducono le lunghe tempistiche amministrative migliorandone l’efficienza. Infine in un’ottica di autodisciplina la PA può diffondere questionari volti a raccogliere le opinioni e le valutazioni dei cittadini in merito ai servizi offerti, sia online che presso i diversi sportelli fisici dislocati sul territorio. Tutto ciò con l’obiettivo di cimentare un rapporto di collaborazione e fiducia reciproca tra cittadino e pubblica amministrazione. Case history interessante quella del Comune di Modena, che ha usato i social per “ascoltare”, ovvero diffondere questionari e sondaggi, ma soprattutto per creare community di cittadini modenesi che potessero supportare i processi decisionali dell’Amministrazione. Questo è stato possibile grazie allo sviluppo di una piattaforma di ascolto dal nome “Che ne pensi?”, che si propone di raccogliere le opinioni riguardo le grandi scelte strategiche della Pubblica amministrazione. Quale il freno al cogliere le Social Opportunità da parte della PA? Il limite vero sembra legato ad una scarsa consapevolezza di cittadini e dipendenti delle pubbliche amministrazioni rispetto agli strumenti digitali che riconduce tutto quindi a una questione culturale. Ma come si può dar vita a un nuovo fenomeno culturale volto all’innovazione? La risposta a questa domanda forse dovrebbe essere aggiunta nell’aggiornamento del Vademecum Pubblica Amministrazione e social media, purtroppo fermo al 2011, ma che potrebbe costituire un valido strumento di supporto per le PA. “I social media – afferma Stefano Epifani, direttore di Tech Economy – sono strumenti di contatto fondamentali tra PA e cittadini. Non solo perché rappresentano ormai un canale largamente utilizzato dalle persone, ma soprattutto perchè determinano un nuovo modello di interazione, più orizzontale e partecipativo, che la PA non può non prendere in considerazione. Certo è che il cambiamento è forte, e per portarlo avanti serve prima di tutto una vera e propria rivoluzione culturale. Molto è cambiato da quanto – anni fa – scrivemmo le linee guida per i social media nella PA, ma ancora oggi la necessità di comprendere come l’ecosistema della comunicazione sia cambiato è prioritaria, se la PA vuole davvero avvicinarsi ai cittadini”. Via Tech Economy
|
|
Ci sono 1081 persone collegate
<
|
aprile 2023
|
>
|
L |
M |
M |
G |
V |
S |
D |
| | | | | 1 |
2 |
3 |
4 |
5 |
6 |
7 |
8 |
9 |
10 |
11 |
12 |
13 |
14 |
15 |
16 |
17 |
18 |
19 |
20 |
21 |
22 |
23 |
24 |
25 |
26 |
27 |
28 |
29 |
30 |
|
|
|
|
|
|
|
|