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  mymarketing.it: il marketing fresco di giornata... di Admin
 
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Errare è umano, ma per incasinare davvero tutto è necessario un computer.

Arthur Bloch
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\\ : Storico (inverti l'ordine)
Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 

Digital Transformation e “Digital disruption” sono tra i termini più di moda, e per una volta anche con buone ragioni, ogni volta che si parli dei nuovi paradigmi creati dalla tecnologia.

digital_disruption

Le si vede all’opera quando cambia il volto di un settore economico, quando vengono travolti dei big apparentemente inattaccabili (Nokia, Blockbuster, Kodak), quando si creano nuovi modelli (Uber, Airbnb). Ma anche per come la trasformazione sta impattando le organizzazioni.
Ho scritto tante volte delle competenze che devono avere coloro che aiutano questo cambiamentodall’interno delle organizzazioni e di come si debba creare una governance con nuovi standard.

Un altro grande tema è quello della capacità di collaborare opposta invece al livello di conflitto: come tutte le disruption infatti anche quella digitale colpisce chi non sa cambiare, ed è scontato, ma anche chi pur cavalcando l’onda non ha la giusta attitudine per posizionarsi in un nuovo modo di lavorare.

Il digital è diventato, lecitamente, un terreno di conquista e di affermazione personale e tuttavia non può più essere un’area separata dal resto dell’organizzazione con cui invece si deve relazionare profondamente e proficuamente, specie con le funzioni che se ne sentono più minacciate.

digital_disruption

Se la collaborazione sull’asse marketing-IT è ormai dibattuta da tempo (risolta poi è ben altra questione) sono molti i terreni in cui la digitalizzazione porta grandi opportunità e anche profondi cambiamenti, con le relative tensioni.
Dal mio punto di vista chi guida e accompagna il cambiamento deve quindi avere una profonda capacità di empatia e collaborazione oltre che la conoscenza nel dettaglio di come funziona l’organizzazione e dei relativi processi per calare all’interno della realtà le opportunità tecnologiche.

Non basta essere quindi degli appartenenti a una generazione di nativi digitali per poter concretamente portare beneficio alla propria organizzazione e tantomeno si può fare parte della scuola di coloro che ancora pensano che detenere le informazioni senza condividerle equivalga ad avere potere.

Sia chiaro, non parlo di organizzazioni idilliache e senza conflitti interni. Ma senza la capacità di gestire dei confini che cambiano in modo fluido non ci si può che finire nello scontro perenne e nella paralisi. E prima o poi questo all’esterno si vede (e si sente, sui conti).

Che esperienza avete in merito?

Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com

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Di Altri Autori (del 01/10/2015 @ 07:28:32, in Internet, linkato 1522 volte)

È diventato uno scontro di culture, ma è nato come una opposizione di modelli di business. La decisione di Apple di consentire con iOS 9 la realizzazione per iPhone e iPad di ad blockers, app che aggiungono al browser di serie Safari la possibilità di bloccare le pubblicità e molte altre funzioni dei siti web, è il punto di arrivo di una diversa visione di come dovrebbe funzionare il web in mobilità e delle conseguenze che ne derivano. Per Apple, che realizza oltre agli apparecchi anche il sistema operativo e i principali servizi connessi (app e cloud) mantenendo un forte controllo sull’ecosistema di sviluppatori terze parti (tutte le app devono preventivamente essere approvate da Apple per poter essere istallate), il maggior valore deriva dal buon funzionamento dei suoi apparecchi. Perché i margini più ampi per l’azienda vengono dalla vendita di telefoni, tablet, Mac e adesso orologi: il resto sono prodotti complementari per migliorare l’esperienza (e quindi stimolare la vendita) dell’hardware. Così, dai tempi del lancio dell’iPhone quando Steve Jobs dichiarò che Flash non avrebbe mai funzionato su iOS (lasciando nella disperazione una intera generazione di professionisti che avevano sviluppato competenze molto approfondite sulla piattaforma interattiva di Adobe e di utenti che dal telefono di Cupertino non avrebbero più potuto raggiungere quei servizi web) Apple mantiene un presidio su quello che può andare o no nei suoi dispositivi mobili.

La pubblicità sugli apparecchi di Apple, hanno pensato a Cupertino, non è una buona cosa: genera traffico dati inutile, appesantisce le pagine, fa lavorare i processori e consuma più rapidamente le batterie, oltre a raccogliere informazioni sugli utenti stessi. Consentire agli utenti di filtrare i tracker, oltre a creare una nuova categoria di app vendibili dagli sviluppatori (sulle quali Apple guadagna il 30%), fa più contenti gli utenti e limita il valore che la concorrenza può trarre da chi usa iPhone e iPad. E l’uso dei tracker per dare più servizi agli utenti, ad esempio consentire il mantenimento delle connessioni tra pagine web diverse? Per quello, dicono da sempre a Cupertino, ci sono le app. Dall’altra parte del mercato, ma bisognerebbe dire dall’altra parte del ring, c’è Google. Il cui modello di business, e di conseguenza la visione del mondo, è all’opposto: sta tutto nella rete, il browser è il sistema operativo, tutte le tecnologie che possono potenziare l’esperienza del web sono le benvenute e comunque i soldi si fanno con la pubblicità e i servizi freemium e non vendendo l’hardware con ampi margini.  La questione è ovviamente più complessa e sfumata: Apple difende la privacy dei suoi utenti non solo per motivi di lucro (ma ci sono anche quelli) e Google non vuole venderla per motivi di lucro (anzi, cerca di offrire più servizi che funzionino meglio). Ma è certo che le due aziende nel tempo hanno cominciato a parlare due lingue sempre più diverse. Il suggerimento di Gola profonda a Bob Woodward e Carl Bernstein in “Tutti gli uomini del Presidente”, “Follow the money”, vale perciò fino a un certo punto.  La “cura dimagrante” alla quale Apple sta sottoponendo i suoi stessi prodotti e servizi è infatti necessaria per dare respiro agli apparecchi che sono sempre più potenti ma con batterie sempre meno capaci (gli iPhone 6s hanno una batteria con meno capacità della precedente generazione, ma un processore due volte più potente). In rete poi stanno nascendo anche movimenti di hipster del web, che vogliono tornare alla creazione di pagine “fatte a mano”, prive di orpelli in javascript e che non vengono assemblate automaticamente dai “soliti noti”, con template in serie. A fronte di un web “a chilometro zero”, c’è però anche il bisogno di nuove tecnologie che permettano di sfruttare appieno la Internet delle cose e le possibilità offerte dal web mobile.

Perché alla fine il punto di scontro è sulla natura della navigazione dal palmo della mano, non dalla scrivania: prospettive di sviluppo diverse figlie di una cultura della rete diversa. Qui le prospettive divergono ancor più fortemente. C’è chi, come Chris Dixon, ritiene che, a fronte di un aumento dell’uso di internet su dispositivi mobili, siamo di fronte a un “declino del web”, perché «le persone passano sempre più tempo usando le app e non il web. E questo è grave, perché il mobile e il futuro e quel che le persone fanno sul mobile diventa quello che fanno su Internet. E adesso il web sta perdendo».

Altri, invece, leggono gli stessi dati all’opposto, come John Gruber: «Dovrebbe celebrare e non lamentarci del fatto che il web si stia diversificando oltre i confini del browser e i limiti di Html, Css e Javascript. Lasciamo i siti web a fare quel che sono bravi a fare nel browser e sfruttiamo invece le app native per quel che sanno fare bene anche loro. Gli utenti vanno naturalmente verso la migliore esperienza d’uso». «Soprattutto – conclude Gruber – non dobbiamo pensare al “web” solo per le cose che stanno dentro i browser. Invece, il web è il protocollo HTTP e la open internet. Dentro ci sono anche le app connesse».

Sul tema di chi raccolga il valore delle tracce lasciate dagli utenti, Gruber sfuma e così rimane aperta la questione: chi ne sa di più guadagna, ma di chi si tratta? Dei produttori degli apparecchi, dei fornitori della connessione o degli Over the top?  Internet in ogni caso resta la piattaforma di sviluppo per il web e per il mobile. Al suo interno ci possono essere forme diverse, coesistenti, di crescita a volte anche in conflitto ma sostanzialmente autonome. E l’incontro di modelli di business diversi, se sono chiare le regole fondamentali, ha come risultato il miglioramento per gli utenti e un mercato più efficiente. E magari apparecchi più performanti con pubblicità più utile ed efficace.

Via IlSole24Ore.com

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Avvertenza preliminare e doverosa: se non siete ancora stati in Expo Milano 2015 e volete rimanere con il gusto della sorpresa non leggete ancora questo post e sappiate solo che il padiglione giapponese fa parte di quelli da vedere.

La recinzione del padiglione giapponese (Ansa)

La recinzione del padiglione giapponese (Ansa)

Detto questo, il post nasce appunto dalla mia esperienza del weekend, in cui finalmente dopo varie visite all’Expo per motivi lavorativi ho potuto vedere con calma una selezione di padiglioni, ovviamente con l’occhio attento alla tecnologia disseminata all’interno. E il padiglione giapponese mi ha colpito tra tutti, oltre che per la bellezza, per l’uso sapiente di alcune scelte che sono ottime per dare degli spunti su come andrebbe utilizzata la tecnologia.

LA TECNOLOGIA VA PORTA E SPIEGATA

Il Giappone non ha lesinato nel numero di persone presenti nei suoi spazi, che vi accompagnano da una sala all’altra e vi invitano con grande gentilezza (e persistenza) a scaricare la app, grazie anche al wi-fi free e stabile presente. Moltissimi padiglioni hanno una app (in forma di cartello all’ingresso) ma qui l’utilità diventa reale e le assistenti vi avvisano quando usarla e come.Risultato, le persone la scaricano e poi la usano (anche perché, come vedremo subito, ne vale la pena).

LA TECNOLOGIA AL SERVIZIO DELL’ESPERIENZA

Il lato wow delle installazioni tecnologiche non scarseggia in Expo, anche se non tutti raggiungono l’obiettivo di comunicazione di un messaggio cui ambiscono senza eccezioni i vari paesi. Anche nel padiglione giapponese la sorpresa e la parte spettacolare non mancano, ma sono vincenti perché non rimangono solo fini a se stesse.

la fontana di immagini

la fontana di immagini (foto dell’autore)

Arrivati alla sala dell’innovazione infatti vi troverete davanti a una spettacolare “fontana” di contenuti dove mettendo in appositi spazi i vostri smartphone con l’app aperta potrete “catturare” trascinandole verso di voi le foto che cadono dall’alto. Ciascuna si trasformerà in unapprofondimento da guardare sul telefono, in una sezione apposita della applicazione. Un modo poetico, divertente e molto tecnologico di veicolare contenuti di approfondimento.

OGNI COSA A SUO TEMPO (MOMENTI DI MARKETING)

Nel padiglione ci sono tantissimi contenuti ma il tempo disponibile è poco, per non parlare della stanchezza dopo le file e del caldo. Ecco che la app eroga con la fontana (e poi a fine visita in altre sezioni) una grande quantità di contenuti di approfondimento da fruire con calma.

I contenuti salvati dalla cascata

I contenuti salvati dalla cascata

Per fare un confronto, un altro bel padiglione, quello tedesco, grazie alle seedboard (semplici taccuini  di carta con sensori, molto interessanti tecnologicamente) e a tanti altri elementi di interazione fornisce una montagna di dettagli che devono essere visti però sul posto. Troppi per il contesto e ilmomento di marketing, e peccato perché sembravano molto validi.
le seedboard del padiglione tedesco

le seedboard del padiglione tedesco

Nel caso del Giappone invece l’inserimento in una narrazione guida dalle esperienze diventa un modo vincente di fare storytelling. Il che mi porta alla considerazione successiva.

COINVOLGERE PER FAR PASSARE I MESSAGGI

Oltre all’esempio di prima della fontana alla fine del giro vi troverete a fare l’esperienza del “Ristorante Futuro” dove tra un misto di tecnologia (schermi touch da attivare con le bacchette e molto altro), animazione e karaoke vi riescono a spiegare in 20 minuti la cucina giapponesedivertendovi e passandovi il concetto che mangiare assieme ci rende amici.

Qui la tecnologia sta ancora piu sullo sfondo e quello che fa la differenza diventa la combinazione della qualità e rilevanza dei contenuti unite a un bel modo di porre il messaggio. E si esce felici e informati.

DARE SEGUITO ALL’ESPERIENZA: ALLA FINE UN FOLLOW UP DISCRETO E DI CONTINUITA’

Alcune ore dopo che avete lasciato il padiglione l’app vi sblocca una serie di contenuti ulteriori e vi ricorda con una notifica push che rimarrà attiva fino a fine EXPO, ma che se volete potete anche rimuoverla. Siccome difficilmente lo farete e terrete la app su device, potrete trovare nuove cose interessanti rispondendo ad un quiz ed interagendo con le diverse sezioni. Insomma l’esperienza continua, se vi va.

La schermata della app dopo la visita

La schermata della app dopo la visita

Sintetizzando quindi la tecnologia piu avanzata diventa di successo in presenza di tre elementi:organizzazione, contenuti di qualità ed esperienza coerente. Bella lezione.

Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
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Di Altri Autori (del 28/09/2015 @ 07:55:18, in Social Networks, linkato 1206 volte)

Instagram ha annunciato oggi di aver raggiunto la cifra record di 400 milioni di utenti attivi mensili con circa 80 milioni di foto al giorno caricate dagli utenti giornalmente.

A dare l’annuncio un post sul blog: “Siamo entusiasti di annunciare che la comunità Instagram è cresciuta fino a 400 milioni di persone. Mentre pietre miliari come questo sono importanti, ciò che veramente ci emoziona è il modo in cui la comunicazione visiva ci fa sentire il mondo un pò più piccolo. La nostra comunità si è evoluta ed è ancora più globale, con oltre il 75% degli utenti che vive al di fuori degli Stati Uniti. Degli ultimi 100 milioni che hanno aderito, più della metà vive in Europa e in Asia e i paesi che hanno il maggior numero di Instagrammer comprendono Brasile, Giappone e Indonesia.”

Il nuovo record di Insragram non fa che accrescere l’ecosistema di influenza di Zuckerberg: Facebook conta 1,5 miliardi di utenti, Instagram circa 400 milioni, Facebook Messenger 700 milioni e WhatsApp sfiora quota un miliardo. Il che vuol dire che circa 3,5 miliardi di persone usano servizi ricollegabili all’ecosistema FB: chiaramente molti utenti sono comuni ai servizi ma la cifra è comunque indicativa di come rappresenti una imponente fetta dell’attenzione del mondo Internet.

Ma la crescita di Instagram, fa notare il Financial Times, evidenzia anche un altro fattore: mostra, ad esempio, quanto più veloce è la crescita della base di utenti di Instagram rispetto a Twitter, che ha riportato “solo” 304 milioni di utenti mensili attivi e arranca nel faticoso percorso di soddisfacimento degli investitori.

Via Tech Economy

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Di Altri Autori (del 22/09/2015 @ 07:39:17, in Mercati, linkato 1539 volte)

1. Quando cerco di osservare da vicino le implicazioni insite nella Economia on demand, quello che soprattutto mi interessa riguarda: a) le grandissime potenzialità connesse alla rete digitale, pardon alle reti digitali; b) raccogliere elementi di conoscenza volti a capire se il futuro che ci aspetta sia davvero quello di una vita migliore e più densa di soddisfazioni. (Stavo per scrivere: una vita più serena, ma credo che sia meglio lasciar cadere questo taglio analitico. Mi sorge il sospetto che nell’epoca del Prozac una vita migliore non vada di pari passo con una più serena).
Analoghe curiosità le avevo manifestate 15 anni orsono, curando – insieme a Barbara Mazza – un testo sulla “net-economy”.
Siccome le parole sono pietre (lo hanno spiegato bene, ognuno con il suo linguaggio, sia Carlo Levi che Nanni Moretti), le forti implicazioni che, anni addietro, l’innovazione tecnologica portava con sé indusse non pochi osservatori a parlare di “new economy”. Sembrava di aver raggiunto, finalmente, un traguardo strepitoso. Ci stavamo scrollando di dosso il fardello pesante del sistema capitalismo basato sulla spropositata ricchezza di pochi a danno di molti.
Come capita poi spesso nella storia dell’umanità, a una fase di euforia ne succede una di attento discernimento: insomma, una sorta di corsi e ricorsi.
Al termine “new economy” parve più adeguato sostituire la parola “net-economy”, prima di tutto perché quel modo di fare economia di certo non incrinava i fondamenti del modello dominante e poi perché enfatizzare il network, ossia la rete, ossia la possibilità comunicare e fare comunità da una parte all’altra del pianeta risultava il tratto connotante l’aspetto più importante del mondo del business e del management. Tutto vero. Ma soltanto per poco tempo.

2. Da cinque/sei anni a questa parte siamo stati subissati di locuzioni che evocano paesaggi e rapporti inediti pieni di straordinarie possibilità. Ecco pochi esempi.
On demand economyL’Economia on demand sottende un modello basato sull’utilizzo di servizi che sono richiesti dal cliente seduta stante e ai quali, di conseguenza, l’impresa è in grado di rispondere just in time.
La Sharing economy richiama la condivisione di beni e servizi. Si tratta di servizi che possono essere usati da molti; in questo ambiente ritorna a contare di più il valore d’uso piuttosto che il valore di scambio (di marxiana memoria). Nello specifico, e soltanto nello specifico, la proprietà come status symbol tende a stemperare le sua cogenza per far posto alla fruizione e all’accesso.
Peccato che il modello si presenti esattamente rovesciato. Sarò più chiaro: se sei un tipo che indugia ancora nell’acquisto di un’auto piuttosto che avvalerti, al bisogno, della formula del car sharing di sicuro non sei cool e, probabilmente, sei anche un po’ agée.
L’Economia della fiducia è, oggi, assunta nella nuova versione che ha a che fare con il fidarsi dei servizi erogati e, soprattutto, degli operatori/professionisti digitali che li forniscono; la loro efficienza mette in campo un surplus di credibilità che si riverbera sul successo del prodotto relativo. La fiducia è questo, e molto altro ancora. Basterebbe risalire a Sir John Maynard Keynes per conoscere il peso che questo fattore ha esercitato ed esercita nelle transazioni economiche (e non).
La Ubereconomics può essere considerato il modello di business per eccellenza, è quello che ha fatto più discutere, è quello che si propaga di più, è, infine, quello che assomiglia di più alla  Emerging Platform Economy per antonomasia. Uber serve 55 paesi e ha innescato resistenze e conflitti, per dire, a Milano come a Parigi, tanto a Bruxelles quanto a San Francisco. Sta di fatto che ad oggi il fatturato dell’impresa si aggira intorno ai 10 miliardi di dollari. Sarà vera gloria? Vedremo.

3. Quali le conseguenze nella vita della gente? Ove per gente si devono intendere sia le persone in quanto utenti/consumatori, sia in quanto professionisti/lavoratori. Qui si apre una grandissima falla in termini di conoscenza. Tutti concordano sull’equazione tra flessibilità, conoscenza e incertezza, ma la letteratura dice poco più di questo. A me sembra che l’attenzione delle istituzioni sia stata completamente assorbita dalle mirabolanti rivoluzioni indotte dalle piattaforme digitali e dalle relative startup. Mi sembra finanche che la ricerca sociale abbia le armi spuntate rispetto alle importanti trasformazioni in corso sulle condizioni materiali e morali di vita delle persone comuni, quelle in carne e ossa. E che non si chiamano né Travis Kalanick, né Mark Zuckerberg.

Via Tech Economy

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Di Altri Autori (del 21/09/2015 @ 07:03:24, in Mobile, linkato 1543 volte)

E’ il trend del momento che, in prospettiva, appare anche il più promettente: è quello che, per effetto della crescente diffusione dell’IoT, lega internet a device e apparati che monitorano e raccolgono dati sulla nostra salute e benessere. Un interesse che si concretizza, nel solo panorama Usa, in oltre 165mila app dedicate alla salute e dispositivi wearable con funzioni innovative per la raccolta dati attualmente disponibili per i consumatori americani. E’ quanto emerge da uno studio pubblicato oggi dall’IMS Institute for Healthcare Informatics.

Benché la maggior parte delle applicazioni ad oggi disponibili guardino al benessere generale dell’individuo, lo studio fotografa un interesse crescente verso un più ampio utilizzo da parte del sistema sanitario soprattutto per quanto riguarda la gestione delle patologie croniche. Secondo lo studio, oggi, 1 applicazione su 10 è in grado di interconnettersi con un dispositivo o un sensore, fornendo biofeedback e dati sulle funzioni fisiologiche del paziente ampliando così l’accuratezza e la praticità della raccolta dati. Quasi un quarto delle applicazioni è incentrato sulla gestione delle patologie e delle relative terapie, mentre due terzi riguarda il fitness e il benessere delle persone.

I numeri

Il numero totale delle applicazioni mHealth è in rapida ascesa:  nell’App Store di Apple dal 2013 si è assistito a un incremento ben del 106% di App, e il 12% di queste rappresenta più del 90% di tutti i download effettuati, e circa la metà di tutti i download è attribuibile a sole 36 applicazioni.

Nel corso degli ultimi due anni, oltre al potenziamento della capacità di raccolta dati sugli utenti, si è assistito anche a un incremento del numero di applicazioni mHealth in grado di connettersi a reti social (dal 26% al 34% del totale), evidenziando l’importanza del social networking per stimolare la partecipazione dei consumatori.

Strategico il ruolo dei medici: il retention rate a 30 giorni delle applicazioni mHealth prescritte da un medico è infatti superiore del 10% rispetto a quelle selezionate autonomamente dai pazienti. Per quanto riguarda le applicazioni per il fitness prescritte da un operatore di settore, il retention rate presenta un incremento del 30%.

Le tipologie

Le app di mHealth analizzate possono essere suddivise in due categorie principali: quelle che facilitano il benessere generale come l’esercizio fisico e la dieta, e quelle che specificamente si concentrano sulla gestione di una malattia attraverso l’implementazione di protocolli di trattamento, come i memo dei farmaci. Le prime sono quelle numericamente più frequenti, con i due terzi dello app: fitness, stile di vita, stress, dieta e nutrizione. Trattamento e gestione di patologie, invece, interessano un terzo delle app analizzate  con solo una piccola quota specificamente concepita per particolari malattie.

I soggetti erogatori di prestazioni sanitarie concordano sul valore derivante dall’utilizzo di app mHealth, ma riconoscono il persistere di barriere che ne prevengono una capillare adozione. La maggior parte dei soggetti erogatori intervistati dall’Istituto sono fiduciosi che l’utilizzo di app mHealth possa ridurre la spesa sanitaria e incoraggiare i pazienti ad assumere un ruolo più partecipativo nel miglioramento del proprio stato di salute. Gli intervistati hanno evidenziato come l’integrazione dei dati mHealth con la cartella clinica informatizzata sia un aspetto essenziale per migliorare il processo decisionale del clinico e la comunicazione con il paziente.

Nonostante l’entusiasmo di fondo rispetto all’utilizzo integrato di app mhealth nel sistema sanitario, rimangono perplessità relative ad alcuni limiti ad oggi persistenti come: la limitata connettività e integrazione con sistemi di workflow; il lento cambiamento nei processi di erogazione delle prestazioni sanitarie; riservatezza dei dati, sicurezza e incertezze normative; assenza di evidenze scientifiche finalizzate a misurare l’efficacia delle applicazioni e incapacità di raggiungere i gruppi di pazienti più vulnerabili (principalmente gli anziani o coloro che non parlano inglese).

Via Tech Economy

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Il 97% degli italiani che comprano libri online sceglie quelli di carta mentre il 41% acquista ebook ma si arriva al 49% considerando chi scarica libri digitali gratuiti: sono questi i dati più sorprendenti che emergono dall’indagine Nielsen Consumer book buying, in digital and print, presentata ieri in anteprima a Editech 2015, l’appuntamento sull’innovazione tecnologica nel settore dell’editoria libraria, organizzato dall’Associazione Italiana Editori (AIE).

Lo studio è stato svolto su un campione di 2000 individui, rappresentativo degli utenti digital, di età compresa tra i 18 e i 64 anni e fotografa, per la prima volta nel nostro Paese in modo puntuale, le risposte dei consumatori italiani su come scoprono e acquistano online libri ed ebook.

Così, tra chi acquista online i libri digitali, uno su tre dichiara di leggerlo su PC o computer portatile e, sempre uno su tre, afferma di farlo su tablet, più frequentemente, iPad. Uno su 5 lo legge su un e-reader (con Kobo proprio davanti al Kindle), ma c’è anche un italiano su sei che lo legge sul cellulare. Tra gli italiani che comprano spesso o sempre libri, chi lo fa online cerca il prezzo migliore, con un terzo degli acquisti che convergono sugli store. Infatti un quarto di chi ha risposto all’indagine afferma di comperare spesso ebook perchè il prezzo è più basso rispetto all’edizione cartacea.

Oggi i libri di carta si scoprono e poi si comprano online prima di tutto grazie ai reading degli autori e alla serialità della narrazione. Gli ebook, invece, si scelgono dopo aver navigato, innanzitutto sui siti delle librerie online e poi sui siti degli autori ed editori e infine, ancora, grazie a reading degli autori. Per scoprire i titoli, invece, il passaparola funziona ancora bene per i libri di carta, meno per gli ebook, in cui blog e riviste online di libri risultano molto più efficaci. In entrambi i casi, l’email marketing o le newsletter di librai ed editori slittano agli ultimi posti per efficacia.

Da tener presenti le abitudini online degli italiani: 7 su 10, tra i 18 e i 64 anni, naviga su internet ogni giorno. Due terzi usa Facebook e Twitter ogni settimana, mentre la metà legge ogni settimana un quotidiano online e compra o cerca prodotti online. Un terzo usa ogni settimana giochi, tv o film online. E chi acquista ebook utilizza molto di più i social media rispetto a chi compera i libri di carta. I preferiti? Facebook su tutti, seguito da WhatsApp, Youtube e Google+ e Twitter. L’impegno settimanale nelle attività online decresce con l’età, in particolare per i social media e per guardare film e tv online. Al contrario cresce, con l’aumentare dell’età, la lettura di quotidiani e periodici online.

Via Tech Economy

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Di Altri Autori (del 16/09/2015 @ 07:38:59, in Internet, linkato 1476 volte)

Erano 29 milioni gli italiani collegati online a Giugno 2015, mentre a Luglio del corrente anno il numero è leggermente sceso a 28,3 milioni di utenti che si sono collegati a internet almeno una volta al mese, pari al 51,3% di italiani che hanno un minimo di 2 anni di età. Il tempo medio che un italiano passa connesso al web è di circa 44 ore e 20 minuti per persona (sceso da 44 ore e 50 minuti nel mese precedente).

Sono i dati aggiornati e diffusi da Audiweb relativi all’audience totale di internet (total digital audience) del mese di luglio 2015.

Nel giorno medio di Luglio 2015 l’audience totale ha raggiunto 21,3 milioni di utenti collegati in media per 1 ora e 54 minuti. Hanno avuto accesso ad internet da device mobili 20,5 milioni di utenti unici (da smartphone e tablet), il 46,4% degli italiani di 18-74 anni, e 17 milioni nel giorno medio. Gli accessi da pc a luglio sono rappresentati da 26,2 milioni di utenti (dai due anni in su) e 11,5 nel giorno medio.


Il rapporto rivela che, in base ai dati socio-demografici, nel giorno medio di Luglio erano online 11 milioni di uomini (il 40% degli uomini dai 2 anni in su) e 10,3 milioni di donne (il 37% delle donne dai 2 anni in su).

La fruizione di internet nel giorno medio da device mobili ha superato il 58% dei giovani tra i 18 e i 34 anni e sono i più giovani di 18-24 anni a trascorrere più tempo online con una media di 2 ore e 14 minuti ciascuno.

Per quanto concerne i dati sulla distribuzione del tempo trascorso online attraverso i device rilevati, nel mese di luglio Audiweb ha rilevato che il 71% del tempo totale passato online è generato dalla fruizione di internet da mobile e, più nello specifico, il 60,6% del tempo totale è generato dalla fruizione tramite applicazioni mobile.

La ricerca Audiweb Mobile è basata su un modello di rilevazione ‘user centric’ che integra i dati di navigazione da device mobili (smartphone e tablet) con i dati della fruizione PC. Al panel PC di oltre 40.000 panelisti viene affiancato un per gli smartphone un panel di circa 3000 persone (1.500 per il sistema operativo Android e 1500 per iOS), e per i tablet circa 1000 panelisti (Android e iOS). Il campione di riferimento della total digital audience è composto da persone con età di almeno 2 anni, ad esclusione dei dati “Mobile” che sono rilevati per i soli 18-74enni.

Via Punto Informatico

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Di Altri Autori (del 07/09/2015 @ 07:26:41, in Aziende, linkato 1516 volte)

Facebook ha presentato K-12 Education Project, iniziativa dedicata alle scuole ed ai software per l'educazione.

Il progetto è stato portato avanti insieme all'associazione californiana Summit Public School e vede Facebook offrire agli istituti scolastici software per supportare l'apprendimento, basato in particolare sul principio che ciascun discente ha i propri ritmi: in pratica permette agli studenti di creare con gli insegnanti lezioni personalizzate e progetti specifici ed ai professori di utilizzarlo per organizzare e tener traccia di punteggi e quiz svolti.

Come racconta lo stesso social network, si tratta di un progetto a cui hanno lavorato nel corso degli ultimi anni un piccolo team di suoi sviluppatori insieme ad un gruppo di educatori locali: il tutto è partito dall'idea di ricreare l'esperienza di una classe e "metterci al centro l'ambizione degli studenti di poter sfruttare tutta la tecnologia e le informazioni disponibili per crescere nel mondo di oggi".

L'interesse di Facebook, oltre a provare sul campo nuovi possibili strumenti di collaborazione (eventualmente anche in ottica sviluppo di suite per il mondo del lavoro), è probabilmente legato anche alla sua base utenti: arrivato al record di avere connessi in una sola giornata un miliardo di persone, ovvero una persona su sei sulla Terra, i suoi unici limiti appaiono quelli strutturali, quelli costituiti dal digital divide (per cui sta già lavorando) ed i limiti di età che gli impediscono di raggiungere una non trascurabile fetta della popolazione.

Non si tratta tanto un limite autoimposto, quanto una conseguenza dei dettami del Children' s Online Privacy Protection Act (COPPA), lo strumento normativo che negli Stati Uniti regola i prodotti ed i servizi online destinati ai minori di 13 anni e che tramite il passaggio per gli strumenti educativi il social potrebbe ora puntare a superare. Certo, i nuovi strumenti rappresentano per il momento una piattaforma del tutto disgiunta dal social network e per il momento limitata a solo ad una ventina di scuole: ma anche la cavalcata di Zuckerberg è iniziata da una sola università.

Per conquistare le scuole, d'altra parte, stanno lavorando anche altri attori della Rete: Dropbox ha annunciato da poco un nuovo vertice per i servizi all'educazione, Jason Katcher, e Google - dopo aver già predisposto una versione dei propri servizi e del proprio browser tagliate su misura dei più piccoli - ha ora lanciato una nuova estensione per Chrome a disposizione degli insegnanti per condividere istantaneamente link con l'intera classe, per chattare con gli studenti e tener traccia ti quanto fatto a lezione.

Via Punto Informatico

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Di Altri Autori (del 03/09/2015 @ 07:46:09, in Advertising, linkato 1629 volte)

L'accesso ai siti web dallo smartphone o altri dispositivi mobili è in crescita, e capita spesso che facendo clic su un risultato delle ricerche in Google si apre la pagina di un sito web che mostra un annuncio che copre l'intera pagina web, cosa che può essere fastidiosa. Ora, Google sembra voler prendere provvedimenti contro quei siti che non mostrano prima il contenuto di una pagina e adottano modi facili per promuovere le applicazioni o altro.

"A partire da oggi, aggiorniamo il Mobile-Friendly Test per indicare quando i siti dovrebbero evitare di mostrare annunci che invitano l'utente ad installare app, nascondendo una notevole quantità di contenuti sulla pagina." scrive Google nel Webmaster Central Blog rivolgendosi ai webmaster. "Il report Mobile Usability mostrerà al webmaster del sito il numero di pagine in tutto il portale che hanno questo problema". Tramite il sopra citato tool, i webmaster potranno quindi conoscere quante e quali pagine sono contro le nuove regole di Google.

"Quando si tratta di cercare su dispositivi mobili, gli utenti dovrebbero ottenere le risposte più importanti, non importa se la risposta vive in un'applicazione o una pagina web" scrive ancora Google. Di recente Google ha reso più facile agli utenti trovare e scoprire applicazioni e pagine web mobile-friendly, ovvero ottimizzate per i dispositivi mobili. Tuttavia, "a volte un utente può toccare un risultato di ricerca su un dispositivo mobile e vedere l'annuncio che invita ad installare un'app, che nasconde una notevole quantità di contenuto. La nostra analisi mostra che non è una buona esperienza di ricerca e può essere frustrante per gli utenti, perché si aspettano di vedere il contenuto della pagina web".

Cosa cambierà per gli utenti? L'azienda di Mountain View ha anche detto che a partire dal 1 novembre le pagine web per cellulari che accolgono gli utenti che arrivano dalla sua pagina di risultati di ricerca e mostrano un annuncio che invita ad installare un'app nascondendo così una notevole quantità di contenuti non sarà considerato mobile-friendly - questo significa che quelle pagine saranno retrocesse nei risultati delle ricerche, e quindi il sito potrà avere meno visibilità e, di conseguenza, registrare una diminuzione del traffico.

Il webmaster che vuole promuovere la propria app, consiglia Google, può utilizzare banner orizzontali di dimensioni più contenute che non impediscano ai ricercatori di visualizzare il contenuto della pagina.

Via Punto Informatico

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