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  mymarketing.it: l'isola nell'oceano del marketing... di Admin
 
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Errare è umano, ma per incasinare davvero tutto è necessario un computer.

Arthur Bloch
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\\ : Storico (inverti l'ordine)
Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.

Di Altri Autori (del 30/06/2015 @ 07:26:52, in Aziende, linkato 1822 volte)

Amazon espande il suo programma di prestiti ai rivenditori: entro la fine dellanno Amazon Lending arriverà in altri otto paesi, mentre in Usa e Giappone è attivo già dal 2012. Si tratta di Canada, Cina, Francia, Germania, India, Italia, Spagna e Regno Unito che, secondo quanto riportato da Reuter, potranno beneficiare dei prestiti Amazon pensati per aiutare i venditori ad accrescere il loro magazzino e incrementare il loro business su Amazon. Il programma non è però aperto a tutti i venditori: si procede per invito e si viene scelti in base a determinate caratteristiche tra cui la sulla frequenza con cui esauriscono le scorte e la popolarità dei loro prodotti. Peter Faricy di Amazon, infatti, ha spiegato che il colosso è diventato più abile nel comprendere quali siano i momenti cruciali nel business di un venditore dove una maggiore disponibilità di capitale potrebbe fare la differenza: Sappiamo molto sui nostri venditori e invitiamo solo coloro che pensiamo si trovino nella posizione migliore per ottenere capitale e crescere.

Amazon offre prestiti da tre a sei mesi, del valore di mille dollari fino a 600 mila dollari, per aiutare i venditori guadagnando sugli interessi. La società ha dichiarato di aver prestato centinaia di migliaia di dollari nel corso degli anni con più della metà dei venditori che hanno replicato la richiesta di un nuovo prestito. Ma, sottolinea Reuter, non ci sono numeri o statistiche più precise a disposizione.

Secondo gli esperti i tassi di Amazon non sono inferiori a quelli di altri attori bancari e affini. Lo dicono, riporta Reuter, anche i venditori stessi: ci si muoverebbe su percentuali che vanno dal 6% al 14% ma quello che conta, sostiene ad esempio Stephan Aarstol, chief executive della Tower Paddle Boards, un venditore di Amazon, è la velocità e facilità con cui si ottengono i prestiti: cinque giorni per avere il primo. Il problema per il gestore di una piccola attività non è il tasso di interesse, è la disponibilità del credito.

Amazon non è il solo colosso del commercio elettronico che sta affiancando al suo business anche sistemi di prestito e finanziamento alle imprese: recentemente anche Alibaba, il rivale cinese di Google, ha lanciato MYBank proprio per supportare le piccole e medie imprese.

Via Tech Economy

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Di Altri Autori (del 29/06/2015 @ 07:28:56, in Pubblicit, linkato 1411 volte)

Cairo Pubblicità inizia a vender la pubblicità di La7 su YouTube. Ha già iniziato Urbano Cairo con la sua Cairo Pubblicità,società controllata da Cairo Communication, lattività di vendita degli spazi pubblicitari relativi ai contenuti televisivi.

In parole povere, Cairo Pubblicità ha fatto un accordo con Google per vendere direttamente la pubblicità relativa ai video di La7 pubblicati su You tube. Unattività questa che si si affianca a quelle già svolte fino ad oggi dalla stessa Google/YouTube.

In questo modo, da una parte Urbano Cairo si pone come apripista negli accordi con Google, sul fronte televisivo. Dallaltra parte si presenta ai priopri clienti investitori con una proposta in più: i siti di La7, ma anche la pianificazione nei canali ufficiali La7 sulla piattaforma YouTube (La7, La7d, Tg La7, La7 attualità, La7 intrattenimento, Food Maniac). Si parla di 40 milioni di contatti al mese nel primo caso e di ulteriori 8 milioni di contatti video al mese con YouTube.

Ora si tratterà di capire se la strada aperta da Cairo potrà essere seguita e come anche dagli altri editori in un momento in cui la pubblicità televisiva ha segnato un calo nel singolo mese di aprile (-2,8%), chiudendo il quadrimestre a -2,2%, pur confermandosi il mezzo più scelto dagli investitori pubblicitari (pesa il 59% del totale)

Via IlSole24Ore.com

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Di Altri Autori (del 25/06/2015 @ 07:28:17, in eCommerce, linkato 1766 volte)

Gli acquisti online hanno attratto 16,9 milioni di individui nellultimo trimestre, ovvero il 55,1% degli italiani che accedono a Internet in Italia, mentre gli individui che acquistano online almeno 3 volte ogni trimestre sono 11 milioni, il 36,0% degli utenti Internet e compongono il segmento degli acquirenti abituali, responsabili dell88% del valore degli acquisti. Lattenzione degli acquirenti, in questo trimestre, è rivolta sempre di più alle categorie di prodotto per la bella stagione. Sono questi alcuni dei risultati più salienti presenti nella quinta rilevazione trimestrale condotta tra gennaio e marzo dal titolo eCommerce Index Evoluzione degli acquisti degli italiani, promossa da Netcomm con il supporto di Human Highway.

Con il cambio di stagione, cambiano anche le categorie di acquisti online, infatti, gli utenti prediligono prodotti adatti al tempo libero e allaria aperta: i libri scalano la classifica negli acquisti con il 15,4%, seguiti dai biglietti di viaggio registrando il 13,1%, il terzo posto viene aggiudicato ai capi di abbigliamento con il 12,5% degli acquisti. Una differenza marcata rispetto agli acquisti registrati sotto Natale, in cui primeggiava la categoria di PC e Tablet con il 16,1% sul totale degli acquisti online, a seguire con il 12,9% la categoria degli smartphone e in terza posizione si trovano gli elettrodomestici con il 12,1%.
Si conferma la tendenza per cui molti acquisti vengono effettuati nei punti vendita tradizionali, ma un ruolo fondamentale prima di comprare un bene o servizio è rivestito dalla possibilità di prendere informazioni sulla rete commenta Roberto Liscia, Presidente di Netcomm. Anni fa avevamo coniato la definizione di infocommerce e, comunque, si osserva come la multicanalità si sia affermata come fondamentale opzione informativa e di scelta per il Superconsumatore. Infatti, sia gli utenti internet sia acquirenti tradizionali di alcuni prodotti attribuiscono un ruolo decisivo al catalogo e alle schede prodotto consultate presso un sito online prima del loro acquisto offline, ovvero in un punto vendita fisico.

I dati emersi dalla rilevazione periodica rivelano come gli italiani siano sempre meno diffidenti verso lacquisto online, al punto che solo il 5,7% degli utenti non si fida a pagare su internet. Sempre più è la comodità e i benefici che se ne traggono a determinare la scelta dellacquisto attraverso la rete, e la consegna dei prodotti fisici acquistati online avviene nel 93% dei casi a domicilio (casa o ufficio, con 1 prodotto fatto recapitare in ufficio ogni 10 ricevuti a casa), con una crescita del numero di consegne nel 2014 rispetto al 2013 che è stata intorno al 21%. Gli acquisti a distanza generano il movimento di 9,9 milioni di pacchi ogni mese in Italia e solo il 6% dei consumatori opta per il ritiro del prodotto in un altro luogo.

Lacquisto online continua ad essere per chi compra unesperienza convincente- continua Roberto Liscia, Presidente di Netcomm. La soddisfazione espressa dagli acquirenti in merito a tutto liter di acquisto online si attesta sulla votazione 8,5, in costante crescita da quando rileviamo questo parametro (aprile 2011, in cui era 8 il voto medio). Questo indicatore riassume il successo della modalità di acquisto a distanza attraverso la rete: chi inizia ad acquistare online continua a farlo e, anzi, compra progressivamente in categorie di prodotti sempre diverse, diventando egli stesso promotore del nuovo stile di acquisto presso le persone che non hanno ancora fatto lesperienza. Quando il livello di soddisfazione è così elevato il racconto dellesperienza positiva diventa virale, si socializza su piattaforme come Twitter e Facebook, e la sua diffusione nella popolazione si alimenta da sola. quello che abbiamo visto accadere negli scorsi anni e che può ragionevolmente continuare con questo ritmo di crescita anche nei prossimi. Siamo testimoni di una evidenza lampante: il digitale si conferma il vero asset con cui tutti gli operatori devono fare i conti se vogliono competere con successo per soddisfare le esigenze del nuovo Superconsumatore.

La frequenza media di acquisto nellultimo trimestre è stata pari a 3,4 transazioni per acquirente nei tre mesi (poco più di una al mese). La diversa frequenza di acquisto consente di distinguere tra acquirenti abituali (almeno una volta al mese) e acquirenti sporadici (uno o due acquisti nel trimestre). Tale segmentazione mostra che il mercato è sostanzialmente guidato dal segmento degli acquirenti abituali: 11 milioni di individui che generano la quasi totalità del valore del Net Retail. La crescita del valore complessivo del Net Retail nel 2014 è stata pari al 22,1% rispetto allanno precedente. La dinamica di crescita era già sostenuta nei due anni precedenti (di poco inferiore al 20% nel 2012 e nel 2013) e ha conosciuto una ulteriore accelerazione a partire dallautunno del 2013 lungo tutto il 2014.

Negli anni recenti si sta affermando una nuova modalità di acquisto a distanza, sempre online ma non sul web, bensì via app su dispositivi mobili: tra i 16,9 milioni di acquirenti online degli ultimi tre mesi si rileva che uno su dieci, ad aprile 2015, ha effettuato un acquisto tramite uno Smartphone (via web o, più frequentemente, via app) e che la quota di acquisti da smartphone cresce del 67% rispetto allanno scorso. La quota di acquisti da tablet cresce a un ritmo più contenuto rispetto agli smartphone: solo del 28% rispetto allanno scorso.

Via Tech Economy

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Di Gianluigi Zarantonello (del 22/06/2015 @ 09:00:00, in Strategie, linkato 1853 volte)

Ci sono alcuni argomenti che rischiano di cadere nei luoghi comuni e nella retorica appena si nominano,e uno di questi è la collaborazione.

Sharing_Economy

Immagine tratta da destinationmarketing.org

Si parla tanto, e spesso a sproposito, di sharing economy e di enterprise 2.0 ma oggi voglio tornare sul tema alla luce di oltre 6 anni di post (vedere qui e l’archivio del blog per credere) e soprattutto di un bel documento che vi linko qui e di cui vi riassumo alcuni concetti che ho trovato interessanti.

I 5 WE DRIVER

Alla fine un approccio collaborativo non è solo un bel concetto intellettuale ma anche qualcosa di obbligato sotto la spinta di 5 driver.

  1. Obbligo tecnologia. Il modo in cui viviamo e lavoriamo ci porta continuamente ad interagire, spesso in tempo reale, con molti soggetti attraverso diversi strumenti. Questo networking più o meno voluto va compreso e gestito ma ci obbliga a collaborare.
  2. Obbligo complessità. Ci troviamo in un ecosistema molto complesso, non ci sono vie di uscite da questo e l’acronimo di origine militare Vuca (volatilità, incertezza, complessità e ambiguità) va sempre piu di moda nella letteratura manageriale perché gestire questo contesto è un fatto di sopravvivenza. E serve collaborare.
  3. Obbligo innovazione. Ho scritto spesso che molte innovazioni si diffondono prima di essere realmente comprese, dagli individui e soprattutto dalle aziende. L’innovazione che attinge al crowdsourcing, alle collaborazioni tra funzioni diverse, enti accademici e quanto altro ci viene in mente ci aiuta a non basarci solo sulle nostre forze, in modo autarchico.
  4. Obbligo bramosia. Il documento cita Richard Branson e il suo concetto di “better world company”  ma l’idea di questa famosa sharing economy resta affascinate anche oltre qualche momento di retorica eccessiva e tutte le nostre aziende vorrebbero essere cosi (poi farlo è un altro argomento).
  5. Obbligo generazione. Questi millennials che sono citati dappertutto! In realtà il fatto diventa reale, le persone che non hanno conosciuto un mondo senza internet, cellulari, social e (presto) anche cloud sono ormai adulte, spendono ed entrano nel mondo del lavoro con un nuovo mindset e tante aspettative.

IL QUOZIENTE DI INTELLIGENZA COLLABORATIVA

Qui vi cito quanto trovate nel documento: “Peter Spiegel, ricercatore e futurologo di spicco in Germania, ceo del think tank Genisis che a settembre fa uscire il suo nuovo libro intitolato WeQ more than IQ. La sua tesi: l’IQ sta per un quoziente d’intelligenza individuale – la mia intelligenza, le mie competenze, il mio genio – ma oggi abbiamo bisogno di ‘We qualità’. Insomma, inizia la partita quoziente di intelligenza individuale vs. quoziente di intelligenza collettiva. Le risorse umane sono avvisate. […] Che non sia una semplice moda o slogan è evidente e non necessita di esempi ormai noti a tutti. Semmai il tema è come dominare questi processi di cooperazione fra società, economia e imprese. Il management ha impiegato tempo a capire che l’economia collaborativa non era (solo) l’ennesimo gioco da provare ma un nuovo paradigma”.

QUINDI NON SOLO TECNOLOGIA

Non lo dico di sicuro solo io: se la tecnologia abilita opportunità enormi essa da sola non basta a far collaborare le persone tra loro. 

Sharing va  bene, ma con un concetto dietro

Sharing va bene, ma con un concetto dietro

La digital transformation è fatta anche in larga parte di consapevolezza, di formazione, di motivazione e le persone devono trovare utilità e valore nel collaborare attraverso gli strumenti, senza trovarsi qualcosa di calato dall’alto.
La tecnologia oltre che un fondamentale abilitatore diventa anche uno dei fattori di spinta che ci obbligano a cambiare paradigma ma, come ho scritto qualche tempo fa, si tratta di ingegneria del software ma anche dell’organizzazione.

Voi che ne pensate? Quali sono le vostre dirette esperienze quando si tocca questo tema?

Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com

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Di Altri Autori (del 22/06/2015 @ 07:10:16, in Social Networks, linkato 1612 volte)

Twitter ha sempre cercato di spiegare come utilizzare al meglio il proprio social network agli inserzionisti allo scopo di massimizzare la portata e lefficacia degli annunci: ovviamente, se i risultati sono migliori per gli inserzionisti, Twitter riuscirà ad aumentare la loro fiducia, incrementando di conseguenza le proprie entrate. In questa fase della vita del social network catturare la fiducia degli inserzionisti e, quindi, degli investitori, sta diventando un aspetto cruciale: alla base delladdio dello storico fondatore Dick Costolo allazienda ci sarebbe, infatti, anche lo scontento di Wall Street per i risultati finanziari non entusiasmanti degli ultimi mesi.

Come riportato da re/code, proprio per questo Twitter ha pubblicato un nuovo studio specificamente incentrato sui direct response ad, un tipo relativamente nuovo di pubblicità per Twitter che ha lo scopo di ottenere un risultato specifico, come far installare unapp o far visitare un determinato sito web. Il problema che Twitter ha riscontrato, però, è che quando in questi tipi di annunci viene incluso un hashtag o menzionato un altro account, la loro performance risulta deludente

In dettaglio, secondo Twitter, quando si tenta di portare visitatori al proprio sito web tramite un tweet che non include un hashtag o una menzione, esso genera il 23 % di clic in più. Quando il tweet è focalizzato sullinstallazione di unapp, rinunciare allhashtag o alla menzione porta ad un aumento di clic dell11%.

Quello che è stato riscontrato in realtà ha una semplice spiegazione: tutte le altre parti cliccabili del tweet distraggono gli utenti dal compiere lazione desiderata da chi ha pubblicato lannuncio. Come dichiarato da Anne Mercogliano, responsabile marketing di Twitter, se stai cercando di partecipare ad una conversazione online è assolutamente necessario utilizzare un hashtag, ma per incentivare un clic specifico che punta fuori da Twitter è meglio non creare rumore.

In sintesi, gli hashtag possono distrarre gli utenti dal cliccare sul link sponsorizzato attraverso il direct response ad: questo si traduce in perdita di efficacia dellinserzione e uno spreco di denaro da parte degli inserzionisti, che rischiano di allontanarsi dalla piattaforma a beneficio degli altri social network.

Via Tech Economy

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Di Altri Autori (del 18/06/2015 @ 07:08:04, in Aziende, linkato 1609 volte)

Amazon, in costante ricerca di metodi innovativi per la consegna dei propri prodotti, sta valutando di creare un programma di crowdsourcing per la spedizione dei propri pacchi: si tratterebbe di pagare persone comuni per la consegna, al fine di velocizzare il processo e risparmiare, almeno secondo le fonti del Wall Street Journal.

Il servizio chiamato internamente On My Way si baserebbe sullidea di reclutare rivenditori in aree urbane per depositare i pacchetti. Le persone potrebbero usare unapp per capire dove stanno i pacchetti e dove devono essere consegnati, in modo da passare al negozio, ritirare e recapitare la merce.

Amazon sta seriamente prendendo in considerazione il programma ma i suoi sforzi per farlo partire potrebbero anche finire immediatamente. In effetti, non sono certo poche le sfide che un servizio del genere dovrebbe affrontare: ad esempio, non è chiaro come gestire le responsabilità nel caso in cui i pacchi scompaiono o vengano danneggiati (come riporta Business Insider Amazon notoriamente non si fida nemmeno troppo dei propri magazzinieri).

Inoltre, la società dovrebbe anche trovare un equilibrio per pagare sufficientemente le persone abbastanza da incentivarle, ma mantenendo comunque un basso limite tale da giustificare la messa in piedi di unoperazione di questo tipo.

Lo sforzo potrebbe essere motivato dal fatto che le spese di spedizione di Amazon sono aumentate del 31% rispetto allanno scorso, ma questa non è lunica soluzione paventata dal colosso di Jeff Bezos: è da tempo infatti che le-commerce preme lamministrazione USA per lapprovazione delluso dei droni a fini commerciali.

Proprio oggi, infatti, il suo vice presidente per le politiche globali, Paul Misener, ha ribadito limportanza di trovare delle regole e delle norme comuni per lutilizzo dei droni e ha incalzato la FAA (Federal Aviation Administration), invitandola ad interagire anche con lInternational Civil Aviation Organization al fine di trovare un modo per non limitare linnovazione tecnologica

Via Tech Economy

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Di Altri Autori (del 16/06/2015 @ 07:28:06, in Mobile, linkato 1724 volte)

I risultati dello studio internazionale The Battle for Competitive Advantage in the App Economy, commissionato da CA Technologies, hanno rilevato la necessità di una accelerazione da parte delle aziende che oggi devono competere in quella che viene definita leconomia delle applicazioni. Firmata da Oxford Economics, la ricerca si basa su un sondaggio riguardante la strategia applicativa e il relativo impatto sui risultati aziendali condotto fra top manager di tutto il mondo. I dati emersi mostrano chiaramente che le aziende si stanno adeguando a ritmi sempre più sostenuti alle nuove esigenze dettate dalleconomia delle applicazioni, approfittandone per rivisitare i concetti di vantaggio competitivo e differenziazione.

A fronte della crescente dipendenza dal software evidenziata dalle imprese in ogni settore, ridurre i tempi necessari per mettere sul mercato applicazioni di elevata qualità diviene uno degli elementi cruciali per distinguersi dalla concorrenza. Il 43% dei soggetti intervistati ritiene infatti che oggi la trasformazione di ogni realtà aziendale in unimpresa il cui business è fondamentalmente basato sul software costituisca una leva fondamentale ai fini del vantaggio competitivo percentuale che sale al 78% se si considera un orizzonte temporale di tre anni.

Maggiore agilità e un time-to-market più rapido sono i due principali fattori strategici emersi dalle risposte delle aziende interpellate in merito agli elementi che possono creare un reale vantaggio competitivo nellapplication economy. Secondo gli intervistati, questa trasformazione verso modelli di business e operativi sempre più dipendenti dal software incide in maniera significativa sui tempi decisionali: il 45% la considera già oggi una realtà, mentre il 61% ritiene che si concretizzerà nei prossimi tre anni.

incoraggiante vedere che le organizzazioni europee sono avanti nelladozione e nella comprensione delle potenzialità dellApplication Economy, ha dichiarato Marco Comastri, General Manager e President EMEA di CA Technologies..

Secondo i risultati a livello mondiale, la crescente dipendenza dal software ha effetti positivi anche sulla quota di mercato (47%), sullo sviluppo di nuovi prodotti e servizi (42%) e sui risultati finanziari (36%) tutte tendenze date in accelerazione dai manager intervistati.

Fra gli altri rilievi in evidenza:

  • Oltre la metà dei soggetti intervistati (51%) afferma di aver investito in nuove forme di software (mobile app, software gestito tramite API, ecc.) negli ultimi tre anni, mentre una percentuale di poco inferiore dichiara di aver intenzione di aumentare il livello degli investimenti nel corso dei prossimi tre anni.
  • Il 54% sta elaborando nuove strategie di interazione con i client.
  • A testimonianza del ruolo strategico attribuito al software, il 49% del c.ampione interpellato sta riportando in azienda gran parte dello sviluppo software e il 47% sta considerando o ha già in progetto una strategia di M&A per potenziare le capacità di sviluppo applicativo.

Per unazienda non è più sufficiente avere prodotti o servizi di qualità superiore. Al giorno doggi, il successo dipende dalla capacità di offrire una customer experience migliore, ha dichiarato Otto Berkes, Chief Technology Officer di CA Technologies. La trasformazione digitale in atto nelle aziende impone la necessità di far leva sulla customer experience elemento chiave di differenziazione nellodierna Application Economy.

Via Tech Economy

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Perché questo titolo? Beh dopo ormai 15 anni di onorato servizio nell’ambito del digital marketing prima e dell’ecosistema digitale poi non posso non notare che tanti progetti che usano la tecnologia ancora oggi sono di breve periodo, notiziabili e…senza un piano su ciò che avverrà dopo.

Non c’è niente di male a sparare i fuochi d’artificio, anzi!

Avrete sentito parlare del ciclo di hype, spesso anche da me: le tecnologie e le innovazioni che hanno un impatto sociale e sulla vita delle persone infatti raramente sfuggono a questo percorso. Siccome nel mondo multicanale ci deve conquistare una reputazione e una visibilità che non sempre può essere ereditata da quella che abbiamo nella nostra tradizionale attività di business, cavalcare l’hype è una capacità importante.

Come sopravvivere alle mode digitali: cavalcare l'hype senza farsi travolgere

Cavalcare poi non vuol dire sposare qualsiasi cosa per sentito dire, senza considerare i nostri clienti e tutti i fattori in campo, sia chiaro, tuttavia essere pionieri aiuta molto, a volte anche a prescindere dai risultati sui KPI che non siano quelli sulla visibilità. Insomma, ogni tanto centrare il momento giusto per un’iniziativa che possa essere poi integrata in seguito è utile, anche verso l’interno della vostra organizzazione, per dare forza e visibilità alle vostre cause.

I tempi però sono maturi per qualcosa di più

Non ho usato a caso il termine ecosistema. Ancora 5-6 anni fa si poteva pensare a progetti slegatida qualsiasi contesto tecnologico dell’azienda, oggi questo è molto meno fattibile perché la nostra reputazione e la customer experience passano attraverso la coerenza e la consistenza di tutti i punti di contatto che offriamo.

La pervasività dei dispositivi tecnologici

La pervasività dei dispositivi tecnologici

Se quindi non sempre si può partire da subito con un’integrazione profonda per non perdere il treno del momento bisogna pensare anche al dopo, pena la creazione di una serie di isole scollegate fra loro.

L’influenza degli strumenti digitali ormai è troppo forte e pervasiva, e il contributo che questi danno deve essere sostanziale, misurabile e di lungo periodo, anche quando non è roboante.

La fatica (e l’importanza) di trovare un equilibrio

Come si trova un compromesso accettabile tra queste due forze, la visibilità e la strutturazione? A mio avviso si passa ancora una volta per competenza e governance.

Competenze (bimodali) perché bisogna sapere riconoscere le opportunità vere da quelle di pura moda e capire per ciascuna le implicazioni sul disegno complessivo.

Governance perché bisogna avere un piano e un metodo con cui portare a bordo l’innovazione in modo sistematico, senza creare colli di bottiglia ma nemmeno senza lasciare all’anarchia l’ecosistema aziendale.

Con questi due pilastri si possono costruire serenamente tutti i tipi di iniziativa, senza dimenticare ogni tanto dobbiamo far ricordare che ci siamo. Mafe De Baggis dice che noi uomini e donne del digitallavoriamo per essere inutili quando la digitalizzazione sarà matura, io preferisco dire invisibili, perché guidiamo un processo che appare ormai naturale ma che deve essere continuamente evoluto.

E per non essere troppo invisibili (anche ai fini di budget!), ogni tanto serve un piccolo o grande fuoco di artificio.

Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com

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Le notizie dentro Facebook, dicevano le indiscrezioni, e ora cè lannuncio ufficiale dellazienda di Mark Zuckerberg: il nuovo prodotto si chiama Instant Articles ed è dedicato agli editori. Permette di creare, allinterno dellapp iOS di Facebook, articoli veloci e interattivi.

Facebook spiega la nuova offerta come risposta alla crescente condivisione di news allinterno del social network, specie su mobile, che ormai da anni è la prima piattaforma di accesso (nellultima trimestrale il 73% dei ricavi arrivavano proprio dallapp per smartphone). Il problema è la lentezza di caricamento: da click sul link allapertura dellarticolo lazienda calcola che in media ci vogliano 8 secondi.

Con Instant article lapertura diventa 10 volte più veloce. Instant Articles introduce inoltre una serie di funzioni interattive che stanno sperimentando al momento 9 grossi partner: The New York Times, National Geographic, BuzzFeed, NBC, The Atlantic, The Guardian, BBC News, Spiegel e Bild.

Nei video di demo si vedono alcune funzioni: sarà possibile zoomare e esplorare le foto ad alta risoluzione inclinando il telefono, guardare video in auto-play scorrendo larticolo, mappe interattive esplorabili, didascalie audio e la possibilità di mettere like e commentare le singole parti di un articolo. Lesperienza sembra ispirarsi alle web stories che da qualche anno sono diventate una opportunità per visualizzare in profondità - con video, grafiche, testo e immagini - reportage e storie anche di ampio respiro.

Il punto più delicato è il modello di business e il rapporto con gli editori, visti i trascorsi di Google. Facebook, a differenza di Google News che dà solo una anteprima e un link a un articolo, con Instant Articles fa qualcosa di più ma propone allo stesso tempo una spartizione dei ricavi ai publisher. Abbiamo progettato Instant Articles per dare agli editori il controllo sulle proprie storie, brand experience e opportunità di monetizzazione. Gli editori possono vendere pubblicità all'interno dei propri articoli e mantenere le entrate, oppure possono scegliere di utilizzare Facebook Audience Network per monetizzare gli spazi invenduti. Gli editori avranno anche la possibilità di monitorare i dati e il traffico attraverso comScore e altri strumenti di analisi spiega la nota di Facebook.
Come aveva scritto il Wall Street Journal, le pubblicità potranno apparire allinterno a Instant Articles. Nel caso in cui queste siano vendute dagli editori, il 100% dei ricavi rimarrà a loro, se invece se ne occuperà Facebook, dovranno rinunciare al 30%.

Via IlSole24Ore.com

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Di Altri Autori (del 08/06/2015 @ 07:51:01, in Social Networks, linkato 1688 volte)

Il tasto buy arriva anche sulle applicazioni per le fotografie
Dopo YouTube, Twitter e Facebook - e in attesa di Google - l'ecommerce conquista anche i social network "fotografici" con il tasto "buy": Pinterest e Instagram. Nel primo caso, gli utenti troveranno il pulsante per l'acquisto sotto l'immagine dei quasi due milioni di prodotti che saranno messi in vendita sulla bacheca entro la fine del mese. Si comincia ovviamente con la sperimentazione solo negli Usa e per i device Apple.
Instagram offrirà invece un panorama di servizi più ampio come "compra ora", "installa ora", "registrati a una newsletter" e "scopri di più". A fornire i dati per la profilazione delle offerte sarà ovviamente Facebook, proprietaria dell'applicazione.

Via Business People

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