Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Autunno interminabile per il mercato pubblicitario nazionale. Secondo i dati raccolti da Nielsen, il settore ha perso il 7,2% (su base annua) durante lo scorso mese di novembre, con proiezioni arrivate al -12,5% per il 2013. Il capitale complessivo disperso, rispetto al 2012, è stato di 870 milioni di euro.
A soffrire maggiormente è stata la carta stampata, che ha registrato un -20% degli investimenti sui quotidiani e un -24,2% sui periodici. Male anche tv (-11%) e radio (-9,5%). Inciampa anche internet, che ha perso per strada il 2,3% della raccolta pubblicitaria a novembre.
In questo panorama desolante, la notizia positiva è la riduzione del decremento rispetto al mese di ottobre, che già aveva diminuito l’emorragia rispetto a settembre. “Si va delineando una chiusura dell’anno vicino a quel -12,5% previsto da più parti nei mesi scorsi, migliorando il -14,3% con cui si era chiuso il 2012”, dice Alberto Dal Sasso, advertising information services business director di Nielsen.
Il lento ricovero del mercato pubblicitario continua: la ripresa è fiaccata dal perdurare della crisi internazionale, anche se il 2014, con l’avvicinarsi di Expo, i Mondiali di calcio e le Olimpiadi invernali, potrebbe fornire spunti per un futuro rilancio.
Via Quo Media
In un futuro forse non troppo lontano Amazon sarà in grado di spedire i pacchi con gli ordini dei clienti ancora prima che questi abbiamo effettuato l’acquisto. E’ questo l’oggetto di un nuovo brevetto rilasciato al colosso dell’e-commerce secondo quanto riportato dal Wall Street Journal, un brevetto che consente il cosiddetto “anticipatory shipping”: Amazon sarà in grado di prevedere i prodotti che probabilmente saranno acquistati da determinati clienti, e “sposterà” tali prodotti verso i centri di spedizioni loro più vicini. Con grande vantaggio, ovviamente, per i tempi di spedizione e consegna che sarebbero ulteriormente ridotti.
Ma come Amazon riuscirà a farlo? Secondo il Wsj, Amazon studierà l’imponente di mole di dati sui suoi utenti per poi utilizzarli in modo predittivo. Ordini passati, ricerche su Internet, il contenuto dei carrelli, la tipologia di merce restituita e, forse, anche il tempo che il cursore del mouse trascorre su determinati articoli, a dimostrazione dell’interesse verso quel particolare oggetto, saranno scandagliati e verificati al fine di estrarne modelli di comportamento d’acquisto.
Secondo quanto scritto nel brevetto, Amazon potrà persino compilare parzialmente indirizzi stradali o codici di avviamento postale, nella marcia di avvicinamento al cliente, e poi completare l’ etichetta in transito. Amazon sostiene che il metodo di trasporto predittivo potrebbe funzionare particolarmente bene per un libro popolare o altri oggetti che i clienti vogliono il giorno in cui vengono rilasciati. Ma è anche plausibile che Amazon potrebbe suggerire prodotti già in transito verso i clienti per assicurare che essi siano consegnati effettivamente.
La consegna preventiva va ad aggiungersi ad altre iniziative con cui Jeff Bezos sta attirando l’attenzione di mezzo mondo. A dicembre ha annunciato il testing di Amazon Prime Air, un servizio di consegna pacchi con droni, che aveva subito suscitato reazioni contrastanti.
Via Tech Economy
I consumatori sono disposti a condividere i propri dati personali con i rivenditori, soprattutto se ricevono qualcosa in cambio. A rivelarlo un nuovo studio di IBM, condotto su oltre 30.000 consumatori a livello mondiale e pubblicato in occasione dell’edizione 2014 della National Retail Federation.
La percentuale di consumatori disposti a condividere la loro posizione con i rivenditori via GPS, ad esempio, è quasi raddoppiata anno su anno, toccando il 36%. Il 32% dei consumatori condividerebbe i propri dati “social” con i rivenditori e il 22% fornirebbe il proprio numero di cellulare allo scopo di ricevere sms. Questo perchè “Il consumatore è abituato ormai in molti settori – dall’assistenza sanitaria ai viaggi – a ricevere interazioni personalizzate attraverso diversi canali”, spiega Jill Puleri, IBM Retail Global Industry Leader. “Lo studio IBM dimostra che i consumatori sono disposti a condividere i dati che li riguardano, in particolare se ricevono in cambio un’esperienza personalizzata. È indispensabile che i rivenditori mettano in atto una strategia Big Data e l’analytics in grado di assicurare un saggio utilizzo delle informazioni dei consumatori, che consenta di conquistane la fiducia ed in cambio permetta di fornire loro dei vantaggi”.
showroomingIbm spiega che anche se le vendite omnicanale, ovvero la prassi di fornire ai consumatori un’esperienza connessa e personalizzata attraverso i canali online, il mobile commerce e il negozio tradizionale, sono l’obiettivo dichiarato di quasi ogni rivenditore, i consumatori non le richiedono in sé e per sé. Si aspettano semplicemente la possibilità di utilizzare la tecnologia in tutti gli aspetti della loro vita, incluso il modo di fare shopping. Lo studio, infatti, ha riscontrato che le cinque funzionalità più importanti per i consumatori sono: la coerenza dei prezzi tra i vari canali di shopping, la possibilità di ricevere direttamente a casa propria gli articoli esauriti in negozio, la possibilità di monitorare lo stato di un ordine, l’assortimento di prodotti coerente tra i vari canali e, infine, la possibilità di restituire gli acquisti online in negozio.
Lo studio IBM ha rilevato che i consumatori rientrano in quattro gruppi diversi, che si distinguono per il loro interesse e utilizzo delle tecnologie social, di localizzazione e mobile durante lo shopping. Il 19% dei consumatori intervistati resta indietro rispetto alla maggioranza della popolazione quando si tratta di utilizzare la tecnologia per fare acquisti. Un altro 40% di acquirenti si serve delle tecnologie social, di localizzazione e mobile per raccogliere le informazioni, ma tende a non utilizzarle per l’acquisto dei prodotti. Il 29% utilizza le tecnologie social, di localizzazione e mobile molto più diffusamente, dalla ricerca dei prodotti all’ordinazione delle merci. Il 12% dei consumatori intervistati rientra nella categoria degli “apripista”, ossia coloro che usano queste tecnologie tra vari canali e scelgono il rivenditore che offre questa possibilità.
E i dati di vendita confermano la tendenza crescente verso gli acquisti online. Nel 2013 l’84% degli acquirenti intervistati da IBM aveva scelto il negozio per il suo più recente acquisto, se si esclude la comune spesa alimentare. Quest’anno, la cifra è scesa al 72%. In altre parole lo “showrooming”, ossia l’abitudine di vedere e provare gli articoli in negozio ma di acquistarli poi via web, non è alla base di questa crescita delle vendite online. Anche se un maggior numero di intervistati ha fatto “showrooming” quest’anno (l’8% rispetto al 6% dello scorso anno), solo il 30% di tutti gli acquisti online è stato effettivamente frutto di tale pratica – con un calo di quasi il 50% rispetto allo scorso anno. Il 70% degli acquisti online è stato effettuato da persone che si sono rivolte direttamente al web.
Via Tech Economy
L’utilizzo dei social media da parte dei giornalisti, come fonte e mezzo per il loro lavoro, è ormai pratica diffusa e quotidiana. Secondo Il Network internazionale dei giornalisti, le applicazioni 2.0 più sfruttate dai reporter di tutto il mondo sono cinque.
Innanzitutto, RebelMouse, un aggregatore di social network che, attraverso l’inserimento di parole chiave, permette di fare ricerche incrociate su Twitter, Facebook, Instagram, YouTube, Google+, LinkedIn e Tumblr. Testate celebri come The Guardian e Al Jazeera hanno dedicato un angolo dei loro siti web ai risultati più interessanti dati dall’utilizzo di RebelMouse. Ottimi riscontri anche per Storyful Multisearch, che offre funzionalità simili e permette di ricevere una scheda diversa per ogni contenuto ricercato, a seconda dei diversi social da cui proviene (Facebook però non è supportato).
Geofeedia si concentra invece sui commenti in diretta, ovvero a evento in corso e a notizia calda, raccogliendo i post su Fb, i tweet, i video volanti di YouTube e le foto apparse su Flickr, localizzando l’origine del materiale (grazie a servizi come Foursquare). Si chiude con Topsy, che permette di setacciare tutti, ma proprio tutti, i messaggi postati su Twitter dalla sua fondazione a oggi, classificandoli secondo contenuto, numero di re-tweet e altro ancora.
Oltre a modificare sensibilmente la distribuzione dei contenuti giornalistici, i social media hanno così radicalmente cambiato le tecniche di una professione che non può fare a meno dell’interattività e della compartecipazione del web.
Via Quo Media
Si chiama Jelly ed è il primo social network del 2014. L'ha creato il co-fondatore di Twitter, Biz Stone insieme a Ben Finkel e si pone l'obiettivo di rendere più efficaci e divertenti le ricerche in rete: basta scattare una fotografia di qualcosa che ci incuriosisce, scrivere una domanda al posto della didascalia e attendere la risposta dalla nostra cerchia di amici o dai loro contatti.
L'applicazione è disponibile sia su Google Play che sull'App Store. Dopo un anno di rodaggio, ne ha dato notizia lo stesso Stone, amministratore delegato della startup, in un post sul blog di Jelly. L'app ha l'ambizione di porsi come un'alternativa più umana al motore di ricerca di Google, perché al posto del freddo algoritmo di Mountain View sfrutta la conoscenza diretta delle persone tramite Twitter e Facebook. Come ricorda l'amministratore delegato nel post di presentazione, “non è importate cosa conosci, ma chi conosci”. Così il nuovo social network prova ad unire la logica di successo delle Yahoo! Answers alla forma del popolarissimo Instagram.
Ad un primo sguardo il funzionamento dell'app non sembra molto diverso dal chiedere informazioni con un'immagine attraverso Facebook o Twitter. I followers possono già rispondere alle nostre curiosità. La novità riguarda la possibilità di disegnare sulle fotografie scattate dallo smartphone: una funzione che rende facile evidenziare il particolare dell'immagine sul quale vogliamo più informazioni. Inoltre, se si riceve una domanda alla quale non sappiamo rispondere, si ha la possibilità di girarla alla nostra cerchia di amici, aumentando la possibilità di ottenere una risposta rapida.
A differenza di Facebook o Twitter, le domande non verranno pubblicate sui profili di tutti i nostri contatti. Nonostante le ricerche possano apparire più umane, è comunque un'algoritmo, il Finkelrank (dal nome del co-fondatore), a scegliere chi può rispondere. Dopo aver dato il permesso all'app di collegarsi agli account dei nostri social network, Jelly scandaglia i followers e gli amici di volta in volta per capire quali persone possono essere le più adeguate a rispondere al singolo dubbio. “Non spariamo domande a tutti - ha spiegato Stone in un'intervista al New York Times - e speriamo di rendere l'algoritmo sempre più sofisticato”.
Se Jelly avrà un successo paragonabile a quello di Twitter è tutto da vedere. Di fatto non aggiunge una funzione inedita a quello che è già possibile fare con gli altri social network, ma rende più semplice, e grazie alla centralità delle fotografie anche più divertente, formulare una domanda ai contatti di Facebook e Twitter. Si tratterà di capire, come spiega Stuart Dredge sul Guardian, se gli utenti avranno voglia di aprire un'altra applicazione con la frequenza con la quale già usano Facebook e Twitter. E se le persone alle quali verranno rivolte le domande si sentiranno altruiste al punto da darci una risposta in breve tempo.
Via Sky TG24
La televisione ha dominato anche nel 2013, e il merito pare sia da attribuirsi alla svolta digitale, grazie alla quale la tv ha recuperato parte del suo pubblico moltiplicando l’offerta dei canali. Un’indagine condotta dal Sole 24 Ore illustra le preferenze degli ascoltatori: Rai 1 si conferma la rete più vista, seguita da Canale 5 e Rai 3.
Il 2013 è stato il primo anno interamente digitale della televisione italiana che ha compiuto il suo processo di trasferimento dall’analogico al digitale nel luglio del 2012. La digitalizzazione e moltiplicazione dei canali segmentati ha riportato davanti a un televisore acceso quanti se ne erano allontanati per insoddisfazione e distanza culturale dalla programmazione generalista. Nella media di tutti i giorni dell’intero anno si sono accomodate a consumare televisione 10,5 milioni di italiane ed italiani. Nelle due ore della classica prima serata le persone attente a quanto programmato in tv sono 26,1 milioni. La rete preferita dalla popolazione nel suo complesso è ancora una volta il primo canale della tv di Stato, lo è ininterrottamente dal 1995 e, da che esiste la rilevazione Auditel, non lo è stata soltanto negli anni 1992,1993 e 1994.
Tra i nativi digitali è Real Time il successo dell’anno, con una quota d’ascolto dell’1,5% nel giorno medio migliora la propria perfomance del 2012. Un altro alloro per il successo ottenuto va a Rai Yo Yo, che pur essendo un canale segmentato sul target bambini, target meno numeroso di altri, occupa la seconda posizione, e con una quota d’ascolto dell’1,3% sorpassa Rai 4, Rai Premium, Rai Movie, Boing e Iris, quest’ultimo supera Rai 4 e Rai Premium, si piazza sul terzo gradino del podio dei nativi digitali nel giorno medio e conquista il primato in prima serata. I canali nativi digitali sin qui citati sono editi da Rai o da Mediaset con la sola eccezione di Real Time e sono Rai e Mediaset a produrre l’ascolto più elevato tra gli editori di canali nativi digitali.
Via Quo Media
Penserete dal titolo che a inizio anno la stanchezza mi stia portando a un po’ di esaurimento e a un improvviso rifiuto di quello di cui mi occupo. Niente di più sbagliato (a parte un po’ di esaurimento, quello sì reale): l’anno appena trascorso mi dà ancora più convinzione che il mio ruolo (specie nella sua evoluzione) sia sempre più cruciale.
Immagine tratta da www.http://chiefmartec.com
Il punto è che il digitale ormai si avvia sempre di più a non essere distinguibile da marketing, comunicazione e anche strategia perché è pervasivo, determinante e potente. Ma non è un’entità astratta e autorganizzata.
Un sito o una tecnologia non può parlare al posto di chi non sa che cosa dire ma in compenso ha la grande dote di evidenziare, invece che mimetizzare, i casi in cui le idee siano confuse.
L’enterprise 2.0 (no, non quella di Startrek) non funziona se manca una cultura dell’organizzazione che premia lo scambio di informazioni e il coordinamento tra funzioni diverse.
Infine, solo per fare qualche altro esempio, se non sapete qual è il vostro target reale nemmeno Google è in grado di trovarlo per voi.
Il passaggio non facile che le aziende oggi vivono in realtà è mio avviso dovuto al fatto che da un lato imessaggi tutto sommato semplici che una volta bastavano sono diventati poco credibili e accattivanti e che dall’altro un mondo multicanale bussa alla porta aspettandosi un’esperienza coerente attraverso tutti i punti di contatto. Ciò viene fatto in grande parte attraverso la tecnologia ma alla fine è un dettaglio, rilevante ma un dettaglio perché è una parte della storia, e non la storia stessa.
L’ho scritto tante volte ma non c’è ormai molto tempo per chi non riesce a concepire un ecosistema di business dove a solide basi tecnologiche si affianchi una visione di insieme che parte dalla strategia e poi usa in modo fluido tutti gli strumenti senza mai partire dalla fine, dal “dobbiamo fare qualcosa su“.
Niente alla fine è del tutto nuovo: l’email marketing è ancora un potente canale che deve però parlare con il mobile, il sito è sempre la proprietà digitale per eccellenza ma si deve poter fruire su tutti i device, l’estetica è fondamentale ma non è più solo soggettività perché si può misurare puntualmente ciò che funziona meglio.
Quello che deve cambiare allora è sì la competenza ma prima ancora l’organizzazione. Potrebbe essere l’obiettivo del 2014, voi che ne dite?
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
«Youtility»: ecco il nuovo fenomeno che sta facendo impazzire l’America. «Why smart Marketing is about Help, not Hype»: così recita il sottotitolo del libro di Jay Baer, nuovo manuale del Social Media Marketing, inteso come “aiuto”, non “strillo”, “lancio pubblicitario”. Un “marketing così utile”, spiega, “che la gente sarà felice di pagare”. “Help, not Hype”: “la differenza tra aiutare e vendere sta tutta in due lettere. Ma queste due lettere sono i fattori determinanti del successo del business oggi”.
“Come uscire dalla crisi?“, ci siamo chiesti più volte.
La crisi che tutti noi viviamo ogni giorno, che impatta cittadino, cliente e azienda – la quale deve continuare a vendere per sopravvivere e cerca un’alternativa nei social network.
Ma anche la nuova crisi determinata dall’imporsi dell’esigenza di “pubblicità” anche nei Social: dunque d’investimenti economici imprevisti, di spese nuove che gravano sul bilancio. «Ooops, Facebook non è mio!», sembrano scoprire tutti ora che il buon Mark [Zuckerberg ndr] ha cambiato zitto zitto l’algoritmo e, in due minuti, ha spedito una galassia di aziende nel buco nero dei News Feed, rendendole invisibili.
Soluzioni: investire milioni in pubblicità? Beato chi può: certo diverrà strada sempre più necessaria. Ma non sufficiente. “E i contenuti?”, si chiedeva giustamente Piero Vendittoli in una discussione sul tema giorni fa. “Riuscirebbero a mantenere vivo il falò dei contenuti? A prendersi cura dei fan? È una comunicazione a senso unico. Io pago, tu mi leggi. Cosa, non ha importanza. Come i cartelloni 6×3 per strada. Mi vedi, ma io non vedo te”.
Altre soluzioni? Certo: un ripensamento radicale della strategia di comunicazione. Ma come? Andando a battere i sentieri, per molti ancora inesplorati, del “Villaggio dei Social Media”. Google+ anzitutto, ma anche Instagram e Vine, WhatsApp e SnapChat.
“Google+ is Google”, dichiara Martin Shervington a «Social Media Examiner“. Tanto basta a piazzarlo – coi suoi 540 milioni di utenti attivi – come alternativa urgente a Facebook: della serie che “se ancora non lo sfrutti, il peggio è il tuo”, come tante volte ribadito da Alessandro Vitale, per cui da anni Facebook non è che un «FailBook».
Instagram? Certo. Proprio l’altro giorno il New York Times ha intervistato Liz Eswein, ritrovatasi d’un colpo imprenditrice milionaria con la sua start-up, «The Mobile Media Lab», che “ha generato oltre un milione di dollari di fatturato” insegnando alle aziende a usarne bene i servizi.
E non parliamo di WhatsApp: miniera d’oro di recente adoperata in modo esemplare da Hub09, che ha travolto la Rete portando sulla piattaforma niente meno che Babbo Natale, pronto a ricevere via messaggio la “letterina” e a chiacchierare in real time a suon di «Ohohoh!».
Ma tutto ciò potrebbe non bastare. «È un circuito destinato a farti aumentare sempre più l’investimento, a far arricchire “la macchina”» commentava Dario Ciracì quanto alla tendenza “Ads-oriented” che riguarda comunque ogni «Social Media». «Ora saremo tutti spinti a investire in Ads, ma a lungo andare, come già accade per gli AdWords di Google», CPM e CPC dell’annuncio cresceranno e «la differenza col costo degli AdWords diventerà inesistente».
I problemi così non si risolvono. Anche perché, nel frattempo, le aziende che provano a evolvere si sono imbarcate nel tentativo di “parlare in lingua social”, estranea fino all’altro ieri ma ora necessaria per il Customer Care come per Marketing o Vendite. Così l’“addetto ai lavori” si trova cacciato dal suo terreno, coll’onere di reinventarsi un ruolo chiave che lo riporti ad essere insostituibile.
Ecco una strada: «Youtility», “utilità, aiuto per Te”. Ecco il nuovo “modello di marketing per l’età dell’information overload”, dell’overload d’informazioni, di quel “buco nero del News Feed” che è vuoto, buio di trasmissioni interrotte, da cui un autentico Social Care a 360 gradi – che si dona a servizio prendendo per mano e camminando insieme ai propri amici in Rete – pare possibile exit strategy, via di fuga verso la luce di un rinnovato impulso al business.
Ecco sancito, dai Social Media Guru a stelle e strisce, il nuovo «marketing del volontariato» come già istintivamente lo avevamo definito in passato, e che cade certo a pennello sottoporre all’attenzione ora, giocando sul suo aspetto “natalizio & buonista” ma che, proprio nel suo essere risposta costante a un SOS, è aiuto che aiuta tutti – cliente e Brand. “Aiutati che Dio ti aiuta”? No. Piuttosto “Io aiuto te che aiuti me”. E non è un Do ut Des: qui c’è cuore, amore, dedizione, servizio, “devozione” verso il proprio network. Solo se mi metto al tuo servizio, dandomi a te completamente, tu mi darai la tua ben riposta fiducia: tu mi crederai.
“Per vincere”, continua Baer, «la domanda da porsi è: “Come possiamo aiutare?”». Ove riecheggia anche Seth Godin, col suo noto «May I help you?». «Se vendi qualcosa», dice Baer, «ti fai un cliente oggi, ma se aiuti genuinamente qualcuno ti fai un cliente per la vita».
Stessa spinta a un Social Media Marketing pienamente social (quasi davvero “sociale”, verrebbe da dire) invocata d’altronde anche da John Haydon, autore di Facebook Marketing for Dummies, nella recente intervista a «Social Media Examiner», che non a caso titola «Facebook Engagement: come esser visti nel News Feed». Vuoi coinvolgere la Rete? Lascia perdere autocelebrazioni e sponsorizzazioni massive, che trattano il network come «la lista contatti di una newsletter»: «sii utile». «Le aziende devono ascoltare la loro gente, porre attenzione alle loro domande. Prima capire, POI rispondere».
La crisi così può non solo trovare una via d’uscita almeno parziale, ma trasformarsi in irripetibile opportunità di crescita. Nel 2014 proviamo a portarci questo: un Social Care nuovo e inedito, consapevole che «se ti sarò utile, tu resterai con me». Se non penserò a me, allora sì che tu a me ci penserai. E comprerai.
Comunico assistendoti. Assisto comunicandoti. Altruismo egoista o egoismo altruista? Chissà. Ma se “aiuta”… perché no?
Via Tech Economy
"Il settore dei giochi per tablet e smartphone ci interessa, è un argomento che viene fuori spesso nelle nostre riunioni, e stiamo valutando la possibilità di portare alcuni dei nostri personaggi più famosi su questi dispositivi". A parlare è Reggie Fils-Aime, Presidente di Nintendo America. Durante un'intervista al canale statunitense King5, Fils-Aime ha aperto uno spiraglio a chi spera di vedere un giorno Super Mario e Zelda su tablet e cellulari. Una richiesta che arriva non solo dagli appassionati, ma anche e soprattutto dagli investitori e dai mercati finanziari, sicuri che l'arrivo di Mario e compagni su tablet garantirebbe a Nintendo guadagni nettamente superiori a quelli attuali.
Sarebbe una svolta storica per Nintendo, una compagnia che ha fatto la sua fortuna seguendo la strada del "giardino chiuso" di Apple, ovvero facendo vivere i suoi software più famosi solo sui suoi dispositivi. Se volevi provare il nuovo Super Mario o giocare a Metroid, dovevi per forza acquistare una console Nintendo. Domani, le cose potrebbero andare diversamente. “Stiamo pensando a piccole e veloci esperienze, titoli molto brevi e immediati, da usare come strumento di marketing per portare utenti dai tablet alle nostre console”, precisa Fils-Aime a King5. Insomma, attenzione a farsi prendere dall'entusiasmo: anche se un'apertura del genere da un'azienda tradizionalista come Nintendo è un segno importante, non c'è alcun piano concreto e al momento si parla di tablet solo come un mezzo per "rubare" pubblico dai dispositivi mobili e convertirlo alle proprie console. Nintendo pensa all'era post-console
Una strategia in linea con le tendenze attuali: oggi i bambini provano i loro primi videogame sullo schermo di un tablet. Il New York Times ha definito Angry Birds il nuovo Super Mario, proprio perché gli uccellini della Rovio sono stati capaci di influenzare un'intera generazione diventando un simbolo dei tempi, come fece Super Mario negli anni '80. E i risultati sono evidenti: i giochi di Angry Birds sono stati scaricati circa 2 miliardi di volte (con 240 milioni di utenti che giocano almeno una volta al mese), sono nati parchi a tema, cartoni animati, merchandising. C'è persino una stretta alleanza con Guerre Stellari e un film in arrivo, in lavorazione presso Sony Pictures. Insomma, un impero che lo scorso anno ha generato 2,7 miliardi di dollari di fatturato. Oggi, i bambini imparano prima a usare lo schermo di un tablet e a lanciare un uccellino con la fionda che a premere un tasto su una console portatile per far saltare Super Mario. I tempi cambiano, e Nintendo si deve adeguare.
Del resto, già in passato Nintendo aveva aperto a sperimentazioni del genere. Il primo Donkey Kong, nel 1981, venne distribuito su diverse piattaforme di allora, come l'Atari 2600. Più recentemente, quando nel 1991 la Philips lanciò il CD-i, i compact disc interattivi, Nintendo sviluppò una versione di Zelda appositamente per quella macchina. I risultati furono disastrosi: il CD-i di Philips fu un fallimento e quel Zelda, oggi, se lo ricordano solo i collezionisti. Ma con tablet e smartphone è una situazione diversa. Nintendo è in una posizione particolare: il Wii U, che si ispira proprio al mondo dei tablet (il suo controller ha uno schermo touch da 6,2 pollici), per ora ha faticato a ottenere il successo sperato, vendendo poco più di 4 milioni di console in un anno. Poche, se consideriamo che PlayStation 4 e Xbox One sono già oltre i due milioni di pezzi e sono uscite da appena un mese. Una situazione che sta spingendo Nintendo a tentare nuove strade. Anche quelle impensabili fino a qualche tempo fa, come affidarsi ai dispositivi che, per primi, hanno ostacolato la diffusione del Wii U e, solo in parte, del 3DS. Staremo a vedere. Intanto le dichiarazioni di Fils-Aime hanno scatenato il popolo del web, dove sta nascendo una nuova provocazione: e se la prossima console di Nintendo fosse un tablet?
Via Repubblica.it
Diffusi da Audiweb i nuovi dati di audience online del mese di novembre 2013: in base alla rilevazione si calcola che sono stati 27,5 milioni gli utenti online collegati almeno una volta da un computer con un’audience online da PC che, nel giorno medio, e’ rappresentata da 13,4 milioni di utenti collegati in media per 1 ora e 17 minuti.
In base ai dati socio-demografici di novembre, la popolazione online nel giorno medio e’ composta dal 44% di donne (5,9 milioni) e dal 56% di uomini (7,5 milioni). La maggior parte degli utenti online, il 48% (6,4 milioni) ha tra i 35 e i 54 anni e spende in media 1 ora e 19 minuti su internet, seguiti dai 25-34enni che rappresentano il 18,2% della popolazione online (pari a 2,4 milioni), collegati in media per 1 ora e 26 minuti.
Sul fronte della provenienza geografica, la popolazione online nel giorno medio risulta composta da utenti dell’area Sud e Isole nel 29,7% dei casi (circa 4 milioni), dell’area Nord-Ovest nel 26% dei casi (3,5 milioni), dell’area Centro nel 17,3% (2,3 milioni) e dall’area Nord Est nel 14,8% (circa 2 milioni).
Audiweb dà anche conto della fruizione dei contenuti video online nel mese di novembre: 49,3 milioni stream views, con 6 milioni di utenti che hanno visualizzato almeno un contenuto video su uno dei siti degli editori iscritti al servizio Audiweb Objects Video, con una media di 29 minuti e 10 secondi di tempo speso per persona.
Via Tech Economy
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