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  mymarketing.it: l'isola nell'oceano del marketing... di Admin
 
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Errare è umano, ma per incasinare davvero tutto è necessario un computer.

Arthur Bloch
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\\ : Storico (inverti l'ordine)
Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Altri Autori (del 12/11/2013 @ 07:44:03, in Social Networks, linkato 2437 volte)

Sapevate che dal 2010 i lavori retribuiti che includono attività sui social media sono aumentati del 1357% a livello globale? Il dato arriva da un analisi fatta da LinkedIn, che ha monitorato le offerte di lavoro postate sulla propria piattaforma negli ultimi 3 anni.

 Inoltre, un recente studio condotto da Adobe mostra come il social media rimarrà la più importante area marketing dei prossimi tre anni.

 Quindi, negli ultimi tre anni si sono aperti nuovi scenari e nei prossimi tre ci sarà spazio per ampliare il business. Per avere un quadro completo non ci resta che capire lo stato di salute delle principali piattaforme per individuarne i trend.

 A questo proposito Facebook con i suoi 1,18 miliardi di utenti, di cui quasi il 58% attivi tutti i giorni con una media di 20 minuti al giorno, è destinato a mantenere una posizione di privilegio, ma rischierà di perdere la leadership.

 Al di fuori dei mercati emergenti, dove la crescita è ancora in corso, Facebook avverte un calo tra le generazioni più giovani, in particolare quella degli adolescenti [13-17 anni].

 Uno studio condotto Piper Jaffray a fine Settembre di quest’anno ha rilevato che sempre più adolescenti stanno passando da Facebook a Twitter e soprattutto a Instagram. Questo perché si tratta di strumenti meno impegnativi e la privacy è assicurata dall’assenza dei genitori.

Gli altri social, Google+ e Pinterest su tutti, rischiano di dividersi le briciole, mentre Tumblr sembra stazionario.

 In forte crescita la tendenza a entrare in altre piattaforme, sicuramente minori e focalizzate su argomenti specifici. Instagram si è oramai emancipata da social di nicchia ma ne mantiene tutte le caratteristiche che troveremo chiaramente nel 2014: mobilità, velocità e verticalità di contenuto.

Via Republic+Queen Magazine

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Di Gianluigi Zarantonello (del 11/11/2013 @ 09:00:00, in Marketing, linkato 1637 volte)

Ho scritto tante volte che quando si parla di digitale si tende a dimenticare il quadro strategico e si precipita nella tattica.
Ho anche detto altrettante volte che il marketing ormai è digitale e che tutti quelli che se ne occupano non posso più temere la tecnologia ma devono invece saperla sfruttare con abilità senza diventare dei puri tecnici.

Una delle conseguenze di questi due temi irrisolti è che oggi si tende a pensare ai mercati e ai consumatori come a qualcosa di totalmente altro da 20 anni fa ed alle attività di marketing come lontane dalle teorie che hanno fondato la disciplina.
Questo è vero nei modi ma non nei concetti, perché il marketing si occupa sempre di soddisfare bisogni, solo che non lo fa più per grandi gruppi omogenei di persone ma per individui informati, connessi e con aspettative differenziate.
Ma che chiedono pur sempre di soddisfare delle necessità, esplicite o latenti.

La classica piramide di Maslow

La classica piramide di Maslow

I video online soddisfano infatti il bisogno di intrattenimento, le foto digitali quelle di documentare ricordi ed emozioni, gli smartphone e i social media quello di comunicare e tenersi in contatto e così via.
Con le statistiche alla mano, gli esempi non mancano anche per i settori non prettamente tecnologici: il 43% degli italiani usa le nuove tecnologie per soddisfare il bisogno di informazioni sulle aziende, per quello di risparmiare tempo compiendo certe operazioni da casa (es. Il 30% di uso di home banking) o per quello di avere più scelta con gli acquisti online (24,4%).

Il primo grande errore dunque, legato al mancato utilizzo di una metodologia tipo quella POST, è di scambiare il bisogno da soddisfare con la tecnologia che utilizziamo, scegliendo un mezzo perché alla moda senza considerare le persone cui ci rivolgiamo e senza un obiettivo.

A rovescio poi molti grandi player sono caduti negli ultimi anni perché ciò che loro offrivano ai proprio clienti non era uno strumento ma il soddisfacimento bisogno che vi stava dietro, che è stato esaudito in modo migliore e diverso da terze parti, rispondendo però alla stessa richiesta del consumatore.
Blockbuster, Kodak, BlackBerry, Nokia sono solo alcuni nomi della lunga lista che si potrebbe stilare.

Immagine tratta da http://www.cmbinfo.com/

Immagine tratta da http://www.cmbinfo.com/

La seconda grande opportunità che viene spesso perduta è poi quella di usare i nuovi strumenti digitali per ascoltare prima che per comunicare.
Si tratta di un retaggio del marketing push, questo sì superato, basato su di una spinta unidirezionale dell’azienda verso i potenziali target.
Il vero valore che giustifica le quotazioni miliardarie dei social media o dell’ecosistema di Google è invece data dalla montagna di dati che le persone ogni giorno mettono a disposizione dei brand sulla rete, spontaneamente. C’è per questo chi parla di figure come il Chief Data Officer e chi calcola in oltre 300 miliardi di dollari il costo di un cattivo customer service che invece da questo ascolto può trarre grande forza.

Qui il problema vero diventa filtrare il rumore di fondo, certo, ma quante realtà anche importanti si prendono davvero la briga di provare a capire che cosa le persone stiano chiedendo a loro e al mercato, senza trovare risposte?
Nella maggior parte dei casi i brand si buttano anche loro nella mischia, partendo da ciò che credono unilateralmente e aumentando il rumore. Qui i dati tratti dal rapporto The State of Social Business di Altimeter Group.

A questi dati di fatto corrisponde senza dubbio un aumento della complessità e della velocità che non ha avuto probabilmente eguali negli ultimi anni, e che pone delle sfide che Chris Heuer, CEO di Alynd riassume così in un suo guest post: “The market leaders in the 21st century will need to focus on modernizing talent management, operational systems and organizational models for a fully connected society, where the social physics are fundamentally different than the one we lived in just over a decade ago. [...] This is compounded by a need for the organizations be more agile, so that they may respond in real time to both opportunities and threats, and to empower employees to serve as authentic ambassadors of their brands in both situations”.

Questo vuol dire dunque muoversi guardando sempre di più al cliente, visto che come scrive Rita Gunther McGrath le barriere all’ingresso della teoria del vantaggio competitivo sono sempre più labili e che i mercati sono delle arene dove si possono conquistare degli spazi anche fuori dai tradizionali confini del proprio business.

Questo può essere aiutato in modo dirompente dalla tecnologia, che secondo lo studio di IBM “The Customer-activated Enterprise” è diventata la priorità anche per i CEO.
Ma se si confonde la tecnologia con il mercato si rischia di non essere rilevanti e di dimenticare che la missione del marketing è di essere significativamente differenti per essere scelti.

Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com

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Di Altri Autori (del 07/11/2013 @ 07:18:13, in Internet, linkato 1576 volte)

YouTube meglio di Facebook tra i teenager statunitensi. Secondo l’indagine di The Future Company, società che si occupa di ricerca e sondaggi, il 50% degli intervistati (compresi tra i 13 e i 20 anni) ha eletto il sito video di Google come il suo preferito, mentre il 45,2% ha scelto il social network di Mark Zuckerberg.

Il dato, anche se parziale, conferma la perdita di fascino di Facebook presso i minorenni, motivo per cui il sito ha deciso di rivedere le norme sulla condivisione dei contenuti e l’accessibilità alla sua rete da parte degli utenti tra i 13 e i 17 anni.

Con le ultime modifiche, che rendono di fatto i profili dei più giovani visibili a tutti (equiparandoli a quelli di un iscritto adulto), Facebook vorrebbe ripopolare il suo traffico di teenager, segmento molto ambito dai pubblicitari che investono nel social network e ne garantiscono i ricchi guadagni.

Via Quo Media

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Uno degli aspetti più difficili e interessanti del mio lavoro è dato dall’evoluzione in senso digitale dell’organizzazione aziendale e mi capita spesso di riflettere su come i mezzi che oggi abbiamo a disposizione possano influenzare il nostro modo di operare. E in molti casi trovo che ci sia una grande immaturità nel loro utilizzo.

Sicuramente il contesto culturale italiano non ci aiuta, infatti siamo spesso portati a pensare che lavorare tanto, comprese le sere e i weekend, sia sinonimo di efficienza e produttività.
Ovviamente questo non è vero, tantomeno per chi usa molto la testa e poco le mani, ma il fatto di avere sempre al seguito dei device perennemente connessi ci ha creato questo mito di poter agire in qualsiasi momento e, di conseguenza, di essere appunto produttivi.

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Io credo che le cose siano invece un po’ diverse, e non parlo solo della qualità della vita (su cui si potrebbero spendere molte parole) ma di capacità di lavorare in una realtà moderna così competitiva e veloce.
Che abilità servono?

1) saper programmare in modo nuovo quello che si deve fare e avere pronte delle alternative: essere sempre raggiungibili non vuol dire decidere al momento

2) avere la visione di insieme: quando si modifica al volo un tassello occorre la consapevolezza del fatto che ogni azione ha una ricaduta su altre realtà interconnesse nell’ecosistema

3) essere flessibili è un beneficio che si costruisce con fatica impostando strumenti e procedure che permettano velocemente un cambiamento improvviso o la gestione dell’emergenza. Se ogni variazione costa invece tanta fatica non è questione di impegnarsi di più: c’è un problema.

4) saper cambiare idea è un’ottima cosa se questo risponde a un’esigenza reale, supportata da fatti e dati. Altrimenti si chiama insicurezza, e non ha nulla a che fare con i benefici dei nuovi strumenti di lavoro.

5) bisogna saper collaborare: banale ma se proviamo fastidio davanti a software fatti apposta per questo e viviamo male il fatto di dover passare informazioni e lavorare in team vuol dire che il problema non sono gli strumenti, è la testa

6) non si può fare tutto solo a distanza: ogni tanto bisogna parlare guardandosi in faccia. Anche perché è più difficile fare certe di persona sparate e viene meno il coraggio di replicare le mail grondanti sangue per qualsiasi stupidaggine che si scrivono di notte quando si è sfiniti dalla sindrome da Burnout. E dunque ci si capisce meglio.

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immagine tratta da Manageronline.it

Tutto questo non ha nulla a che fare con i software e gli strumenti in dotazione perché alla fine, come recita la legge di Conway, “any piece of software reflects the organizational structure that produced it“.
E dunque il cambiamento deve partire dall’organizzazione e dalla cultura aziendale.
Un recente report del MIT Center for Digital Business e di Capgemini è molto netto: “whether using new or traditional technologies, the key to digital transformation is re-envisioning and driving change in how the company operates. That’s a management and people challenge, not just a technology one.”

Voi che ne pensate?

Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com

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Di Altri Autori (del 05/11/2013 @ 07:13:44, in Social Networks, linkato 1360 volte)

Non sono più solo i grandi social network mondiali ad attirare le attenzioni degli utenti. Business Insider ha confrontato le grandi reti sociali di tutto il mondo in due modi, ovvero valutando la dimensione totale del pubblico e considerando i mercati in cui ognuno ha il maggior potenziale di crescita, insieme ai loro dati demografici in termini di paese di origine.

Dal confronto emergono dati interessanti:

Facebook vanta ancora la più grande popolazione di utenti a 1,16 miliardi al mese ma è meno noto che Youtube non abbia numeri così inferiori, viaggiando sul miliardo anch’esso. L’86% degli utenti Facebook sono esterni agli Stati Uniti.

Il gigante social network della Cina, Qzone, è in terza posizione a 712 milioni di utenti totali . Per avere una dimensione del fenomeno basti pensare che è due volte più grande della app di messaggistica WhatsApp, e tre volte più grande di Twitter.

Tre dei primi 10 sociali del mondo sono piattaforme di messaggistica : WhatsApp , LINE , e WeChat.

Facebook ha 95 milioni di utenti in Cina ( nonostante il fatto che sia ufficialmente bloccato ), 68 milioni in India , 42 milioni in Brasile . In altre parole in questi mercati si raggiunge una massa di utenti due volte più grande della popolazione di Facebook negli USA.

Quasi il 25% degli utenti di LinkedIn sono in India ed è l’unico grande social a non essere bloccato in Cina, dove ha oltre 20 milioni di utenti nel paese.

Google+ ha 100 milioni di utenti in Cina , Twitter ne ha 80, e YouTube 60 milioni.

Via Tech Economy

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Di Altri Autori (del 31/10/2013 @ 07:24:00, in Tecnologie, linkato 1523 volte)

Le nuove tecnologie hanno conquistato ormai un posto fisso nella vita di tutti i giorni. Sempre più persone utilizzano i servizi offerti da Internet e della rete in mobilità e lo fanno soprattutto grazie ai nuovi device che veicolano sempre e ovunque contenuti da fruire. Questo fenomeno riguarda gran parte della popolazione che comprende non solo giovani e adulti, come si potrebbe più facilmente pensare, bensì anche gli utenti più piccoli.

Quasi due bambini su cinque, infatti, ha cominciato ad utilizzare un tablet o uno smartphone prima di riuscire a parlare con frasi di senso compiuto. A rivelarlo è un nuovo studio condotto dall’istituto di ricerca Common Sense Media secondo cui il 38% dei bambini al di sotto dei 2 anni ha utilizzato un dispositivo mobile per giocare o guardare video.  Un incremento importante se si pensa che nel 2011 la percentuale di bambini era solo del 10%.

La percentuale incrementa con l’aumento dell’età: a 8 anni, infatti, il 72% di bambini hanno utilizzato almeno una volta uno smartphone, un tablet o altri dispositivi simili. ”Questo è il vero segnale che indica l’arrivo della nuova generazione digitale”, afferma Jim Steyer, CEO  di Common Sense Media.

Lo studio ha inoltre mostrato che l’uso di dispositivi mobili tra i bambini molto piccoli sta crescendo rapidamente, specialmente se comparato con altri media. L’audience televisiva è rimasta stabile, registrando per il 2011, così come per il 2013, che la percentuale di bambini al di sotto dei 2 anni incollati allo schermo è del  66%.  L’uso del computer è cresciuto dal 4% al 10% nel corso dei due anni, mentre la visione di DVD è diminuita, dal 52% nel 2011 al 46% nel 2013.

La ricerca dimostra che, non solo più bambini utilizzano tablet e smartphone, ma che il loro uso si protrae per periodi di tempo maggiori. La quantità di tempo trascorso utilizzando questi dispositivi è, infatti, triplicata : nel 2013, i bambini dai 0-8 anni hanno speso una media di 15 minuti al giorno con in mano dispositivi mobili, in aumento rispetto ai 5 minuti in media al giorno nel 2011. ”Stiamo assistendo ad un cambiamento fondamentale nel modo in cui i bambini consumano i media“, ha dichiarato Steyer . “I bambini che non possono nemmeno parlare cammineranno fino ad una TV e cercheranno di farla funzionare toccando lo schermo come per un iPad o un iPhone “.

Il CEO di Common Sense Media non manca, però, di sottolineare come in questo utilizzo da parte dei bambini dei nuovi dispositivi abbia ovviamente i suoi pro e i suoi contro. La preoccupazione, infatti, è che se da un lato i tablet possono essere un ottimo strumento educativo, dall’altro, se abusati ed utilizzati come babysitter, potrebbero causare gravi danni allo sviluppo.

Via Tech Economy

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Di Altri Autori (del 28/10/2013 @ 07:47:46, in Social Networks, linkato 1591 volte)

Tre anni compiuti qualche settimana fa, il social network Pinterest sembra voler festeggiare in grande stile. Nel giro di pochi giorni, infatti, si sono susseguiti numerosi annunci riguardanti l’espansione del colosso fondato da Ben Silbermann.
Un po’ come è successo per Twitter, trovare un modo per iniziare a fare soldi (di quelli a 9 cifre) non è sempre facile.

L’idea c’è, è geniale, ma come monetizzarla?

I cervelli dietro Pinterest si sono finalmente decisi e hanno presentato alla stampa il nuovo business model per il social network, che finora era sostentato da sponsorship e venture capital.
Niente di innovativo ma nemmeno troppo scontato: Silberman dice no ai banner pubblicitari, ma segue piuttosto la strada di Facebook e lancia i “promoted pins“. Questi contenuti pubblicitari, appariranno a fianco dei risultati organici con solo una didascalia a distinguerli. Visto la contraddistinta attenzione allo stile che pervade il brand, tutto sarà confezionato ad arte ed il cattivo gusto messo al bando.

Al momento in fase di rodaggio e disponibile solo per alcuni importanti marchi, la piattaforma pubblicitaria sarà presto disponibile tramite API anche per gli altri inserzionisti.
L’azienda è una favorita nella Silicon Valley, tanto da essere stimata $2.5 miliardi. Con 46 milioni di iscritti in tutto il mondo, Pinterest è secondo solo a Facebook nell’indirizzare utenti ad un sito esterno. Ci si aspettava che Pinterest mettesse in piedi un sistema di affiliazione e ci aveva anche provato mettendosi in partnership con Skimlinks, ma è durata solo un mese. Nel futuro, c’è un’altra partnership, questa volta con Telefónica che renderà l’app sempre aperta in Home Page per tutti gli utenti del gestore di telefonia mobile.

Tutto questo sembrerebbe incitare ogni pubblicitario a lasciar perdere Facebook, Twitter & co. per focalizzarsi su Pinterest. Eppure, sulla base dei dati di GlobalWebIndex, aggiornati al 2013, emerge che il fenomeno Pinterest è veramente esploso solo negli Stati Uniti ed in Canada, mentre in Italia non sembra aver attecchito. Infatti negli Stati Uniti si trova il 15% degli utenti equivalenti approssimativamente al 46% dell’utenza attiva mondiale, mentre da noi non si supera il 7% di account creati con solo il 2% di utenza attiva.

Chi è su Pinterest?
Maggiormente donne, 2/3 rispetto agli uomini. Di conseguenza, i Brand che hanno maggior successo appartengono ai settori del fai-da-te, arredamento, cosmesi con qualche rara eccezione per alcuni marchi di tecnologia.

Vale la pena investire su Pinterest?
Si, se operate nel commercio (in-store & online), avete un marchio women-friendly e siete disposti a dedicare parecchie risorse per creare una strategia di successo.
Per tutto il resto, forse è meglio rispolverare la cara e vecchia email. Infatti il 13% dei clienti abituali conclude un acquisto tramite questo formato, mentre solo l’1% arriva da contenuti social.

Via Republic+Queen Magazine

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Di Altri Autori (del 22/10/2013 @ 08:06:40, in Mobile, linkato 1523 volte)

Presentato il primo report "Mobile internet access and use among European children" studio basato sulle risposte fornite da 2mila giovanissimi di età compresa tra i 9 e i 16 anni, provenienti da Danimarca, Italia, Regno Unito e Romania. Il rapporto è stato realizzato nell'ambito del progetto di ricerca Net children go mobile finanziato dal Safer Internet Programme della Commissione Europea.

Emergono responsi interessanti, e prima di vedere di cosa i nostri giovani sono dotati, isoliamo lo sparutissimo dato relativo alle non dotazioni: in Italia solo il 7% del campione non possiede un cellulare abilitato alla navigazione. Nel contesto in cui l'indagine si situa il 53% dei ragazzi possiede uno smartphone, usato quotidianamente per navigare dal 48%. In Italia i giovani che accedono ad internet usando un device mobile sono il 42%, prevalentemente sia reti 3G sia wi-fi, il 28% solo da reti wi-fi, segno che gli operatori telefonici hanno ancora una grande fetta di mercato da spartirsi con offerte mirate e sempre più competitive.

I device mobili rimpiazzano sempre più quelli fissi: il 26% dei ragazzi assunti a campione usa lo smartphone durante gli spostamenti, percentuale che sale al 39% e che considera coloro che ne fanno uso anche tra le mura di casa, nella privacy della propria camera da letto. In Italia, e anche questo è un dato che mostra un certo interesse, l'81% dei ragazzi naviga da casa ogni giorno (a prescindere dal mezzo utilizzato), l'uso quotidiano della Rete da scuola è prerogativa solo dell'8%. Anche sforzandosi di credere che le scuole siano poco propense a lasciare agli studenti una qual certa libertà nell'approcciarsi agli strumenti informatici, resta una percentuale piuttosto scarna o, se si preferisce, che lascia spazio a ampi margini di miglioramento.

Per quanto riguarda l'aspetto dei social network, in Italia, il 64% dei ragazzi ha un profilo su una rete sociale, al di sotto della media degli altri Paesi, in cui la percentuale si assesta al 70%. Nel dettaglio in Italia, il 15% dei bambini di età compresa tra i 9 e 10 anni ha un profilo su un social network, percentuale che sale al 52% dei ragazzi di 11-12 anni. Con il 96% Facebook si guadagna le preferenze dei giovani italiani. Per un uso consapevole della Rete arriva in aiuto "Anche io ho qualcosa da dire", il tour itinerante partito da Genova e promosso da Telecom Italia.

Via IlSole24Ore.com

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Di Altri Autori (del 21/10/2013 @ 07:54:44, in Social Networks, linkato 1601 volte)

I messaggi condivisi su Facebook e Twitter portano alla luce segnalazioni sulla diffusione di alcune malattie nelle nazioni e nel mondo: la piattaforma Sickweather può rivelare quali sono le aree più interessate da un'epidemia durante la giornata. Abilita ad esempio le previsioni di picchi improvvisi di influenza grazie al monitoraggio continuo del web. Raccoglie i post degli iscritti nei social network che dichiarano di essere ammalati fino a plasmare una bussola sul territorio durante le emergenze. Inoltre permette l'accesso agli archivi dei giorni precedenti ricostruiti ora dopo ora. Ha anche un'applicazione su Facebook. Negli ultimi anni i social media hanno dimostrato di essere una risorsa decisiva di data mining. E diventano un laboratorio dove costruire applicazioni creative in crowdsourcing grazie alla collaborazione del pubblico online.

Downrightnow è un punto di riferimento quando nei social network si diffonde la voce dell'inaccessibilità di una piattaforma sul web come ad esempio la posta elettronica, una rete sociale digitale o uno spazio di videostreaming. Aggrega gli avvisi e indica quando superano una soglia critica: in questo modo se una persona non riesce a consultare la sua casella email può verificare in tempo reale quando un problema è locale oppure coinvolge una platea più ampia. Anche in caso di attacchi distributed denial of service da parte dei pirati informatici Downrightnow contribuisce a una stima dell'estensione dei danni e della velocità di reazione degli spazi inclusi nelle sue analisi fino al ripristino delle attività online.

I social media sono un'agorà dove monitorare in diretta gli umori sul web. La Loughborough University ha avviato il programma Emotive: nel Regno Unito esamina 2mila tweet al secondo per capire lo stato d'animo che le persone esprimono nei micropost fino a sviluppare un'ampia lente d'ingrandimento nel territorio. Anche l'United States Geological Survey ha una sonda nei social network e ha elaborato una piattaforma che scandaglia i tweet con la parola «terremoto»: i dati raccolti sulla frequenza dei micropost sono poi distribuiti mediante Twitter quando avvengono catastrofi naturali. Finora la rete sociale online ha dimostrato di essere utile nella ricerca scientifica per contribuire a rilevare le prime segnalazioni di un sisma percepibile dagli esseri umani. Metwit, invece, è uno spazio di previsioni meteo arricchite dal crowdsourcing con indicazioni dal territorio che possono aggiungere informazioni preziose e insieme compongono una visualizzazione dei fenomeni.

Quello del data mining nei social media è un settore ancora in evoluzione come emerge anche nella documentazione preliminare inoltrata da Twitter alla Sec in vista della quotazione in Borsa: nei primi nove mesi dell'anno l'accesso della sua piattaforma online abilitato ai partner esterni ha generato l'8% del fatturato del social network in grado di alimentare la sua macchina da soldi attraverso la pubblicità. Twitter evidenzia l'interesse dei servizi finanziari ad avere informazioni in tempo reale acquisite mediante i micropost.

Via llSole24Ore.com

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Di Altri Autori (del 17/10/2013 @ 07:18:17, in Internet, linkato 2008 volte)

Sono 13,2 milioni gli italiani che hanno scelto l’online per i loro acquisti nell’ultimo trimestre, con una stima di oltre un miliardo di euro spesi con cadenza mensile nel corso del 2013. Questi alcuni dei dati salienti dell’ultima indagine condotta da Human Highway per Netcomm, il Consorzio del Commercio Elettronico Italiano e presentata nel corso del Digital Fashion.

Gli eShopper si dividono in due  categorie: 5,1 milioni sono acquirenti sporadici, mentre 8,1 milioni sono acquirenti abituali con tre o più beni comprati negli ultimi tre mesi. Gli sporadici hanno al loro attivo uno o due acquisti nel trimestre, hanno effettuato complessivamente 6,5 milioni di acquisti (il 14% del totale) e hanno generato 680 milioni di euro nel trimestre (16% del totale). Gli abituali, invece, hanno realizzato tre o più acquisti nel trimestre, hanno compiuto 40,1 milioni di acquisti e hanno generato 3.540 milioni di euro nel trimestre. Proprio questi ultimi – gli acquirenti online abituali – guidano la crescita dell’ecommerce nel nostro Paese, generando l’86% del valore totale delle transazioni.

In particolare, nell’approfondimento dedicato agli acquisti online di prodotti “fashion” i consumatori che hanno comprato un prodotto di moda almeno una volta nella vita sono cresciuti di 1 milione di unità (1,1 milioni) nell’ultimo anno, arrivando a sfiorare quota 9 milioni di individui, con un incremento del 14,5% rispetto all’ottobre 2012.  Inoltre, nei primi 8 mesi del 2013 gli acquisti online di prodotti di abbigliamento hanno generato transazioni per un valore superiore del 25,5% rispetto allo stesso periodo del 2012 (dati dell’Osservatorio CartaSì).

Numeri incoraggianti che mostrano anche come il web entri sempre più da protagonista nel processo di scelta e acquisto dei consumatori, senza dimenticare la dimensione fisica dello shopping: “sondando più in profondità i comportamenti di chi ha fatto esperienza sia della modalità di acquisto online nella moda (web o via mobile/app) sia di acquisto in negozio tradizionale – spiega Roberto Liscia, Presidente di Netcomm – Consorzio del Commercio Elettronico Italiano - osserviamo che si preferisce compare sulla rete perché il catalogo è più ampio, per una maggiore convenienza e perché si trova sempre quel che si cerca. Sul canale tradizionale ci cerca ancora assistenza e servizio al cliente, a dimostrazione di come proprio nell’integrazione multicanale i brand del fashion possano trovare la vera ricetta per competere”.

Via Tech Economy

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