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Errare è umano, ma per incasinare davvero tutto è necessario un computer.

Arthur Bloch
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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Altri Autori (del 01/07/2014 @ 07:15:42, in Social Networks, linkato 1701 volte)

«Clienti e social, maniere al bando. Rispondere con ironia umanizza l’azienda. E attira consumatori». Così titolava dieci giorni fa Italia Oggi, creando stupore e scalpore in tutta la Rete.

Il quotidiano riportava in realtà solo i risultati di uno studio con tanto di stemmi accademici, condotto da Gaia Rubera, docente di Marketing alla Bocconi di Milano, sul comportamento di alcuni brand su Twitter come Tesco Mobile. La compagnia telefonica inglese, infatti, «ha cominciato a replicare con scortesia e ironia alle rimostranze di alcuni consumatori». La conseguenza? Ha aumentato «di molto il numero dei propri follower», addirittura del 700%, e ha conquistato «mezzo milione di clienti», passando nel 2013 da 3,5 milioni a 4.  Clienti “veri”, dunque, che offline hanno scelto di usufruire dei servizi della compagnia. Alla faccia del «Convince&Convert»!

«Ma come?!?» si sono chiesti tutti. Stop alle buone maniere? Basta all’educatissimo (e molto britannico) «May I Help You?», tanto faticosamente imparato da Seth Godin?

Tre giorni dopo Il Fatto Quotidiano rincara: «Tesco Mobile, su Twitter l’antipatia è un successo. E conquista clienti». Spiega: «Agli utenti che si lamentavano del servizio sul social network, l’azienda ha risposto in modo sarcastico, antipatico, al limite dell’offesa». Questa «ruvida ironia», però, non solo «non ha danneggiato il marchio, ma gli ha permesso addirittura di incrementare esponenzialmente i suoi seguaci nel mondo virtuale e i suoi clienti nel mondo reale». È la strategia del «perdere un cliente per guadagnarne 500mila»: trattare con «brutalità» i «consumatori scontenti per attirare l’interesse degli altri visitatori della piattaforma digitale».

Non ci credete? Ecco un esempio. «Scarica immediatamente una ragazza se il suo gestore è Tesco Mobile», twitta Felipe. Che per tutta risposta si sente chiedere da Telco: «Sei veramente nella posizione di poter scaricare una ragazza?».

Incantevole freddura.

Dall’ancora più incantevole risultato: Felipe, rimasto spiazzato e così conquistato, è diventato un fan e si è visto poi arrivare a casa persino un ricco regalo dall’azienda, «per aver reagito così bene all’essere stato pubblicamente preso in giro su internet». Risultato? Altro che Customer Satisfaction: qui è amore! «Thank you @tescomobile for the gift», cinguetta Felipe, ormai perso per l’azienda: «much love for you!!».

Il tam-tam impazza in rete. Sui social network e nei blog la curiosità di addetti ai lavori e utenti lievita come un’onda. Ninja Marketing due giorni dopo rilancia: «La strategia Twitter di Tesco Mobile: prendi un cliente, trattalo male…». E lo dice chiaramente: «Dimenticate tutto ciò che pensate di sapere su Twitter e Customer Service. Abbandonate quel tono pacato con cui vi hanno insegnato a scusarvi per il disservizio e rassicurare il cliente». Tesco Mobile «conquista tutti con l’antipatia dei suoi tweet».

Ma come? Non si era predicata finora l’importanza assoluta di «cuore, amore, dedizione, spirito di servizio, “devozione”»? Di un «comunicare assistendo, assistere comunicando», in nome del principio «Understand them, THEN reply», «ascolta, POI rispondi»? Di un mettersi a disposizione così totalizzante da farsi carico prioritariamente della responsabilità dei problemi altrui – memori del «Bring us your problem» di Seth Godin?

Nessuna contraddizione.

Torniamo però ancora un momento a Tesco Mobile.

Che, non pago, usa la stessa strategia non solo coi clienti, ma anche con gli altri Brand. Una volta sfida il concorrente O2 a una rap battle a colpi di tweet. Un’altra ingaggia una storica conversazione con Yorkshire Tea e Jaffa Cakes. Ancora, di recente, lancia l’hashtag #BanishAverage, con uno spot che invita a trasformare le cose di tutti i giorni in esperienze incredibili.

Quello di Tesco non è in realtà il primo caso. «La migliore risposta di sempre sui social media», come è stata definita, spetta a un felice “cinguettio” di Smart USA a cui un utente, Clayton Hove, aveva indirizzato questo poco educato tweet: «Ho visto un uccello defecare su una Smart. L’ha sfondata». Risposta: «Non può essere stato solo un uccello. Più probabile che fossero 4,5 milioni. (Seriamente, abbiamo fatto il calcolo)».

Spiazzante.

Come l’infografica allegata, che mostrava con fare scientifico quanti uccelli dovessero fare i propri escrementi su una Smart per distruggerla: «4,5 milioni di piccioni, 360mila tacchini, 45mila emù».

Detto, fatto. Disarmato il detrattore. Che stranito e sorpreso, ma in realtà ammirato, non poteva astenersi dal riconoscere: «Outsmarted by Smart», ossia «Fregato dalla Smart».

In Rete ormai impazzano le discussioni, le ricondivisioni degli articoli sul tema, i rilanci – «Che cosa ne pensi?», mi viene chiesto più volte. Certo, la «brutalità» di certi interventi, al limite dell’offensivo, mal sembra conciliarsi con lo spirito “evangelico” del Social Care.

In verità, per chi scrive, nessuna sorpresa. Una riconferma, semmai, che arricchisce e impreziosisce ancora di più la necessità di quella #SocialEducation già più volte ribadita come prioritaria, come parte integrante del Social Caring: del principio del #DFTT, «Don’t feed the troll».

«La verità è che alcuni vogliono solo lamentarsi o trollare», sintetizza infatti Ninja Marketing. «E ci sono aziende, come Tesco Mobile, che hanno deciso di puntare su di loro per rilanciare la propria strategia social».

Prima però di esprimere con chiarezza il mio punto sul tema – caldo più di quanto si possa immaginare: se i Brand hanno intelligenza e spalle larghe per comprenderne l’importanza, potremmo essere a una svolta non solo nel Social Care, ma nelle forme e nei metodi di comunicazione con tutta la propria rete di contatti – la domanda è: che ne pensate voi? Come reagireste di fronte a un’azienda che, anziché stendersi a tappeto pronta a esaudire ogni vostro desiderio, vi prendesse bonariamente anche un po’ in giro, come farebbe un amico per scherzo e battuta (più o meno pesante)?

Via Tech Economy

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Di Altri Autori (del 02/07/2014 @ 07:27:16, in Internet, linkato 1353 volte)

Lo schermo di riferimento è quello del telefonino, molto di più rispetto al pc. E se la tv mantiene la leadership totale, nei target più giovani e a seconda dei momenti della giornata, deve spesso cedere il passo allo smartphone. Audiweb ha presentato per la prima volta i numeri relativi all’internet mobile che si integrano con quelli già disponibili da tempo sulla parte pc e completano così la Total digital audience che contribuirà a indirizzare meglio gli investimenti pubblicitari sulla rete.

Enrico Gasperini ha presentato i dati frutto di un lavoro lungo due anni e che vedono l’Italia prima al mondo a raccogliere l’audience che arriva da smartphone e tablet. Le cifre relative al mondo mobile fanno riferimento al periodo gennaio-marzo, coprono due sistemi operativi come iOs e Android che valgono il 75% del mercato e si riferiscono alla fascia di età 18-74 anni. In pochi mesi però si dovrebbe arrivare a una rilevazione mensile con l’allargamento anche agli altri sistemi operativi e ai target più giovani. Secondo Audiweb online troviamo con qualsiasi schermo l’82% degli italiani con punte del 100% fra gli studenti, del 68% fra le casalinghe e del 97% nella fascia di età 18-34 anni. In totale si tratta di 35,6 milioni di persone delle quali 20,7 utilizzano strumenti mobile per connettersi alla rete.

Tutti i trend relativi al consumo di internet sono in crescita con gli smartphone che salgono del 7% e i tablet del 113%. 1,8 milioni di persone accedono solo con smartphone e 168mila vanno su Internet solo tramite tablet. Mensilmente 17,2 milioni si collegano con uno strumento mobile (24 milioni da pc) e 14,5 milioni lo fanno nel giorno medio (12,5 milioni da pc). Il tempo di utilizzo mensile da mobile è di 38 ore con circa un’ora e mezzo al giorno, mentre ci colleghiamo con il desktop venti ore al mese e 1,18 ore al giorno. Nel giorno medio 7,4 milioni di utenti fanno completamente a meno del pc per collegarsi a internet e il 91% fra 18-24 anni sono multiscreen.

Via Quo Media

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Di Altri Autori (del 03/07/2014 @ 07:06:59, in Mobile, linkato 1393 volte)

Saranno gli smartphone e i dispositivi mobili a gestire le nostre vite. Dal controllo della casa al cruscotto dell'auto, dalle applicazioni aziendali a quelle del fitness e della salute, dal piccolo schermo a quello da polso. La Google I/O Conference che si è conclusa venerdì a San Francisco è stata sì una dimostrazione muscolare delle potenzialità espansionistiche di Android ma anche e soprattutto una risposta diretta (e un filo maligna) al keynote di Tim Cook di un mese fa durante la World Developers Conference. I due giganti, con accenti e toni diversi, sembrano guardare entrambi nella stessa direzione. Meno rigidità sul codice, più attenzione agli sviluppatori, l'obiettivo è sempre di più allargare i confini dei loro sistemi operativi per entrare velocemente in nuovi mercati.

La Apple post-Jobs alla Wdc ha aperto il suo ecosistema alla salute e alla domotica, ha allineato la piattaforma mobile (iPhone) con quella fissa (Mac) ma più che altro ha dato la sensazione di essere una azienda più morbida verso le terze parti. Google ha presentato Android L, ha aperto all'auto, riorganizzato i contenuti video per il piccolo schermo, lanciato telefonini low cost, mostrato i primi device indossabili. Ha insomma ribadito la sua intenzione di voler arrivare ovunque. Se uniamo i puntini e mettiamo insieme termostati (Nest), videocamere (Dropcam), palloni aerostatici, auto ed elettronica di consumo il disegno che compare è impressionante.

Quelli a confronto sono due ecosistemi che crescono a ritmo altissimo, inglobando oggetti, mercati e nuovi consumatori. Un miliardo di persone in tutto il mondo utilizzano dispositivi Android che nei tablet ha raggiunto una quota di mercato nei tablet arrivata al 62%. Apple può contare su 800 milioni di apparecchi iOS in circolazione e 80 milioni di Mac. Prima o poi inizierà il censimento per auto, domotica e dispositivi indossabili. Strutturalmente quelli di Apple e Google sono nuvole informatiche che contengono numeri e informazioni digitali sulla nostra vita. Unire i puntini non basterà.

Via IlSole24Ore.com

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Di Altri Autori (del 04/07/2014 @ 07:01:39, in Brand, linkato 1597 volte)

Un sondaggio di Forrester Research evidenzia la poca soddisfazione dei clienti del nostro Paese con le multinazionali. Buoni i rapporti con Ikea, Apple e Amazon. Deludono Mediaset Bancoposta, Unicredit e Tim
Italiani chiedono troppo? O sono le grandi aziende che non riescono a rispondere alle esigenze dei loro consumatori? Sta di fatto che il rapporto dei cittadini del nostro Paese con alcuni dei più grandi brand italiani e internazionali non è mai eccellente, nel migliore dei casi rasenta un livello accettabile. Secondo un sondaggio condotto da Forrester Research – The Customer Experience Index, Italy 2014 – e riportato da la Repubblica, in Europa gli italiani sono quelli che lamentano il peggiore trattamento come clienti alle prese con noti marchi.

In fondo alla classifica Mediaset, con un punteggio di 39 su 100, seguita da Bancoposta (40 punti), Unicredit (41), Tim (41), 3 Italia (42), Alitalia (43), Fastweb (44) Sky (46), Intesa Sanpaolo (la migliore tra le banche, con 46), Vodafone (46).

La classifica su la Repubblica

In testa alla classifica alcuni dei più grandi brand stranieri: su tutti Ikea (75), seguita da Apple (74), Amazon (74), eBay (69), Decathlon (69), Google (68). Le migliori aziende italiane sono Bottega Verde e Feltrinelli, entrambe con 64.
Secondo Forrester, le aziende italiane dovrebbero ascoltarli i clienti per capire i principali errori e lacune: coinvolgendoli nel processo di “re-design” dell'esperienza di acquisto, per esempio. È la "experience co-creation": terminologia anglosassone per descrivere qualcosa che all'estero comincia a diffondersi tra i principali marchi ma che in Italia appare ancora fantascienza.

Via Business People

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Di Altri Autori (del 07/07/2014 @ 07:49:57, in Digitale, linkato 1417 volte)

Se l’Italia arrivasse ad azzerare il disavanzo nella bilancia dei pagamenti per i servizi informatici, se sviluppasse il commercio online e l’uso della moneta elettronica fino a raggiungere i livelli medi europei, e se riuscisse a razionalizzare le banche dati della pubblica amministrazione centrale si renderebbero disponibili per nuovi investimenti in reti, tecnologie e servizi innovativi 3,6 miliardi di euro all’anno: quasi 10 milioni al giorno. Questo è il valore dello spread digitale secondo il Censis nel 7° numero del “Diario della transizione” che ha l’obiettivo di cogliere e descrivere i principali temi in agenda in un difficile anno di passaggio attraverso una serie di note di approfondimento diffuse nella primavera-estate del 2014. Tale spread, sostiene il Censis, attualmente penalizza l’Italia nella competizione internazionale.

Internet. Per quanto riguarda il grado di confidenza degli italiani con le nuove tecnologie digitali, le persone con età compresa tra 16 e 74 anni che utilizzano internet sono il 58% del totale, contro il 90% del Regno Unito, l’84% della Germania e l’82% della Francia (la media europea è del 75%). Di questi, solo il 34% interagisce via web con le amministrazioni pubbliche, contro il 72% della Francia, il 57% della Germania e il 45% del Regno Unito (la media europea è del 54%). Ed è ancora forte il ritardo del nostro Paese sul fronte degli investimenti in reti di nuova generazione. In Italia le famiglie con un componente di età compresa tra 16 e 74 anni con accesso alla banda larga sono solo il 68% del totale, contro l’87% del Regno Unito, l’85% della Germania e il 78% della Francia (la media europea è del 76%). I laureati italiani in discipline scientifiche e tecnologiche con meno di 30 anni sono solo 13,2 ogni mille abitanti della stessa età, contro i 22,1 della Francia, i 19,8 del Regno Unito, i 16,2 della Germania (la media europea è di 17,1). E le start-up innovative, alle quali la normativa riconosce agevolazioni fiscali, faticano a crescere e a dare spinta propulsiva all’innovazione. Delle 2.254 imprese iscritte nell’elenco ufficiale, il 60,9% non ha nemmeno un sito internet. Non stupisce che la bilancia dei pagamenti per servizi informatici dell’Italia sia strutturalmente in deficit, con un saldo negativo che nel 2012 ha raggiunto 1,49 miliardi di euro: le esportazioni valgono 1,88 miliardi e le importazioni ammontano a 3,37 miliardi.

Commercio online. Le imprese attive nel commercio elettronico in Italia sono complessivamente il 5% del totale, contro il 22% della Germania, il 19% del Regno Unito e l’11% della Francia (la media europea è del 14%). Le imprese italiane con almeno 10 addetti che hanno un sito web attraverso il quale ricevere ordinazioni o prenotazioni online sono l’11,7% del totale, con un valore delle vendite realizzate via web pari solo al 2,1% del valore totale delle vendite (si oscilla tra il 2,6% al Nord-Ovest e lo 0,5% nel Mezzogiorno). Il fatturato complessivo delle vendite online delle imprese con almeno 10 addetti, e che realizzano via web almeno l’1% del proprio fatturato, è arrivato a 12,2 miliardi di euro nel 2013, molto meno dei 96 miliardi del Regno Unito, i 50 miliardi della Germania e i 45 miliardi della Francia. Se l’Italia incrementasse le vendite online e i fatturati realizzati via web, raggiungendo il livello di commercio elettronico dei principali competitor europei, potrebbe liberare risorse da investire in reti e servizi innovativi per circa 1,4 miliardi di euro all’anno.

Pagamenti elettronici. Non va meglio con i pagamenti elettronici. Le transazioni con carte di pagamento (escluse le carte di moneta elettronica) sono solo 28 per carta all’anno, contro le 167 del Regno Unito, le 129 della Francia e le 30 della Germania. In Italia il denaro contante è utilizzato nell’82,7% delle transazioni, contro una media europea del 66,6%. Il maggior costo rispetto alla media europea della gestione del contante confrontato con mezzi elettronici equivalenti è stimabile in circa 450 milioni di euro all’anno.

Servizi online della pubblica amministrazione. Il nostro Paese è al penultimo posto in Europa per uso dei servizi online della pubblica amministrazione. Degli oltre 500 milioni di messaggi e-mail dei ministeri, solo il 27% è in uscita: segno di una scarsa interattività con l’esterno. Nel primo quadrimestre del 2014 le caselle di posta elettronica certificata sono cresciute del 172% rispetto allo stesso periodo del 2011, superando la soglia di 15 milioni di caselle attive. La firma digitale ha raggiunto a maggio 2014 la quota di 5,3 milioni di certificati attivi, in crescita rispetto all’inizio del 2012 del 62%. Pur registrando una notevole diffusione, la firma elettronica è però uno strumento ancora sconosciuto nella cultura collettiva.
La pubblica amministrazione spende (dati al 2012) oltre 3,9 miliardi di euro per beni e servizi Ict, con un trend in contrazione nel tempo (-8% rispetto a 5 anni prima), nonostante la crescita costante del parco tecnologico installato. Ad esempio, le caselle di posta elettronica dei ministeri e degli enti nazionali ammontano a poco meno di 2 milioni, in crescita rispetto all’anno precedente del 14,3%. La quota delle spese dello Stato destinate alla gestione e manutenzione dell’esistente è pari al 57% del totale della spesa Ict, in aumento del 3% rispetto all’anno precedente. La parte assorbita dagli investimenti si riduce progressivamente e riguarda principalmente la manutenzione evolutiva di applicativi esistenti, che pesa per il 41% del totale dei nuovi investimenti. Il 50,6% del valore dei nuovi contratti Ict è affidato con trattativa privata. Nel primo semestre del 2014 l’amministrazione centrale dello Stato ha speso 24,5 milioni di euro in consulenze informatiche, con una forte riduzione (-37%) rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Nel 2013 le spese in consulenza informatica sono state pari a 93,7 milioni di euro, che corrispondono ‒ per avere un ordine di grandezza ‒ al 73,4% della spesa destinata a traslochi e facchinaggi.

Via Tech Economy

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Di Roberto Venturini (del 08/07/2014 @ 07:17:40, in Marketing, linkato 2267 volte)

Riprendo, per parlarne anche a un pubblico diverso, un post che ho scritto per il blog di Digital PR.

Si chiama Real Time Marketing ed è una delle opportunità più interessanti che il marketing digitale ha messo a disposizione delle aziende. Come spesso capita si tratta di un’evoluzione di modelli pubblicitari tradizionali – classicamente l’annuncio pubblicitario realizzato in gran fretta e pubblicato sul quotidiano 24 o 48 ore dopo un “evento”, in genere sportivo.

L’idea è quella di reagire, questa volta davvero in tempo reale, a uno stimolo, un’opportunità di comunicazione che ci permetta di fare notizia, di diffondere un messaggio che faccia impatto, sorprenda, diverta, dimostri la nostra smartness.

Gli esempi non mancano – famosissimo quelli di Oreo al Superbowl che ha saputo approfittare di un imprevedibile blackout, ma anche quelli “costruiti” con cura gettando reti per poi raccogliere opportunità, come nel caso di Kleenex, che ha individuato in rete un piccolo numero di persone raffreddate e le ha coccolate inviando un “kit”. Ottenendo una vasta amplificazione mediatica, nettamente superiore in valore al costo dell’operazione e soprattutto dimostrando concretamente intelligenza e coolness (o, in forma un po’ più “blanda” e più in campo User Generated Content, l’operazione che ha visto Wendy trasformare in diretta in canzoni i tweet degli utenti, oppure Old Spice trasformarli addirittura in spot pubblicitari personalizzati).

In sostanza si tratta o di mettersi in agguato, sperando succeda qualcosa (possibilmente di probabile) e intervenendo con una propria comunicazione nel giro di pochi minuti, ad esempio presidiando un evento famoso come la cerimonia degli Oscar , che sappiamo essere molto popolare e la cui popolarità e seguito possiamo provare a intercettare entrando nella conversazione, proponendo una nostra visione (interessante, divertente, critica…).

A volte il tempo di reazione dev’essere rapido, anzi rapidissimo.

Citando un caso che abbiamo gestito direttamente, prendiamo l’esempio del down di Whatsapp del 2 aprile 2014. 50 minuti in cui i server della più popolare applicazione di messaggistica gratuita sono andati in crash. In quanto agenzia di Social PR di LINE, abbiamo deciso di intervenire in tempo zero con un messaggio chiaro e semplice su Twitter: “#whatsappdown Vi aspettiamo a braccia aperte! #LineUp”.Anche su Facebook abbiamo voluto dire la nostra, guidati da quel tocco di irriverenza con cui abbiamo da subito caratterizzato la comunicazione di LINE: “#whatsappdown Niente panico… Ci siamo noi!”.

In quel pomeriggio abbiamo deciso di dialogare un po’ con i nostri futuri potenziali clienti e abbiamo deciso di fare un po’ di sana infiltration anche su altri dialoghi tra utenti Twitter.

I risultati in termini social sono stati ottimi: oltre 150 menzioni su LINE, più di 100 interazioni su Facebook e, soprattutto, un grande impatto sul business: nella sola giornata del 2 aprile, LINE ha accresciuto del 30% la media dei nuovi iscritti, con un netto aumento degli unique browsing (persone che utilizzano l’app almeno una volta al giorno)

Aspettarli al varco

Un’altra possibilità/ modalità di intervento è invece costruire dei progetti in cui sappiamo già che qualche utente dirà una certa cosa (possibilmente un certo numero di utenti), predisponiamo una reazione un po’ eclatante e attendiamo che si verifichi l’evento che ci permette di scatenare la nostra azione (tipicamente, come nel caso di Kleenex, si tratta di attendere che una persona qualsiasi, ad esempio su Twitter, dica una certa cosa e far partire un progetto già predisposto accuratamente).

Specialmente nel primo caso, quello in cui ci si trova davanti una inaspettata opportunità di comunicazione, entrano in gioco una serie di fattori per riuscire davvero a farcela. In primis una capacità creativa dell’agenzia, ovvia; ma soprattutto l’essere in continuo monitoraggio della Rete – con i conseguenti budget allocati per un’attività che impegna risorse dell’agenzia e quindi comporta costi. Può comunque capitare che l’opportunità si manifesti anche per caso; che anche se non si sta monitorando in tempo reale e continuamente la Rete, balzi agli occhi di azienda o agenzia un messaggio, uno spunto da cogliere subito (e qui ci va anche un po’ di fortuna).

Qui diventa critica la capacità di essere flessibili, sia per l’azienda che per l’agenzia. Di sviluppare immediatamente un messaggio appropriato e potente, Di azzerare i tempi delle approvazioni, di essere fuori nel giro di minuti, non di giorni, sennò diventa molto meno interessante. Avere un sistema che riesce a mettere da parte le “procedure burocratiche”, il dover reperire il management, fissare appuntamenti per il giorno dopo. Avere la capacità di operare (anche) per rapidi colpi di mano, prendendosi magari qualche ragionevole rischio, in modo guerrigliero e quindi più sorprendente ed efficace. E soprattutto avere la capacità di non volerlo fare a tutti i costi. Come quando si vuole a tutti i costi raccontare una barzelletta, e la si racconta comunque, fuori contesto: non fa ridere, non funziona. Come molto spesso capita quando le marche cercano di forzare la mano non avendo una buona idea in mano (si veda questo articolo di Mashable).

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Di Altri Autori (del 09/07/2014 @ 07:12:04, in Digitale, linkato 1429 volte)

Lo spread digitale costa all’Italia 10 milioni di euro al giorno di minori investimenti in reti, tecnologie e servizi innovativi. La stima arriva dal Censis. Per recuperare il gap internazionale il nostro Paese dovrebbe azzerare il disavanzo nella bilancia dei pagamenti per i servizi informatici, sviluppare il commercio online e l’uso della moneta elettronica, fino a raggiungere i livelli medi europei.

Ma, soprattutto, sarebbe il caso di razionalizzare le banche dati della pubblica amministrazione centrale. Verrebbero così recuperati 3,6 miliardi di euro l’anno, ossia quasi 10 milioni al giorno). I numeri del ritardo italiano parlano ancora di un basso grado di confidenza con le nuove tecnologie digitali. Tra 16 e 74 anni chi utilizza internet è il 58% del totale (la media europea è del 75%). Ci sono poi da considerare i possibili spazi di crescita per il commercio online.

Le imprese attive nel commercio elettronico in Italia sono complessivamente il 5% del totale (la media europea è del 14%). Altro capitolo, il ritardo nella diffusione dei pagamenti elettronici. In Italia il denaro contante è, infatti, utilizzato nell’82,7% delle transazioni, contro una media Ue del 66,6%. L’Italia è poi al penultimo posto in Europa per uso dei servizi online della pubblica amministrazione. Degli oltre 500 milioni di messaggi e-mail dei ministeri, solo il 27% è in uscita. In crescita invece la posta elettronica certificata: nel primo quadrimestre 2014 segna un +172% rispetto allo stesso periodo del 2011.

Via Quo Media

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Di Altri Autori (del 10/07/2014 @ 07:18:11, in eCommerce, linkato 1630 volte)

È una sfida senza respiro, centimetro su centimetro. Impadronirsi del web in ogni modo, con ogni mezzo. Le big company non si danno pace. Nelle ultime ore Google ha lanciato l'ennesima sfida ad Amazon, scucendo 500 milioni di dollari dal suo portafogli per investirli in Shopping Express. Obiettivo? Introdurre un servizio di consegna rapida dei prodotti, settore già coperto dalla società di Jeff Bezos, che con Amazon Prime assicura all'acquirente la ricezione dell'oggetto in poche ore.

L'idea di Big G ha basi solide. Il mercato di riferimento, almeno all'inizio, sarà quello statunitense. Ma il progetto Google ha dalla sua parte un notevole vantaggio: la leadership inavvicinabile di Big G nel settore del product search. Offrire un servizio rapido ed efficiente potrebbe essere un bel problema per qualsiasi competitor, allora. Amazon incluso.
Per ora Google sta investendo per portare il servizio in tre città degli Usa: New York, San Francisco e Los Angeles. E ha già stretto accordi con alcuni marchi come Target, Costco, Toys R Us e Whole Foods. Ma Google Shopping Express è solo all'inizio del cammino.

Cosa lo differenzia da Amazon
A differenziare da Amazon il servizio sul quale Google ha deciso di puntare c'è un dettaglio non di poco conto. Il colosso di Mountain View, almeno per ora, non avrà gli enormi centri di distribuzione sui quali invece ha investito Bezos. Ciò vuol dire che i prodotti rimarranno nei magazzini dei fornitori originari. Google si farà carico di andare a prelevare la merce per poi consegnarla. Il tutto nel giro di poche ore. Per questo i 500 milioni di dollari investiti serviranno a preparare una vasta flotta di autisti, impacchettatori e mezzi. Il costo del servizio dovrebbe essere, secondo quanto scrivono negli Stati Uniti, di 4,99 dollari per ogni prodotto. Ma non è escluso che Big G punti ad abbonamenti annuali e a promozioni gratuite per far conoscere il servizio.

«Negli ultimi cinque anni abbiamo migliorato di molto Google Shopping, aiutando gli acquirenti a trovare i prodotti disponibili in zona. - ha commentato Tom Fallows, capo di Shopping Express, al web magazine Re/Code - Ma spesso ci trovavamo davanti a feedback nei quali gli utenti lamentavano i tempi di consegna troppo lunghi». Google Shopping Express è il servizio che correrà in loro aiuto. L'obiettivo è quello di consegnare un prodotto nelle 3/4 ore successive all'ordine effettuato online. Una sfida enorme, anche per un colosso come Google. Amazon ha investito tempo e danaro per arrivare ai risultati odierni, automatizzando i centri di distribuzione presenti in varie parti del mondo. La risposta di Big G è tutta da scoprire.

Via IlSole24Ore.com

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Fino alla fine degli anni ’80 dettava regole e orientava le scelte del pubblico. Nel decennio successivo era il marchio a dominare su tutto. Poi si è passati alla centralità del consumatore. La comunicazione pubblicitaria cambia e si reiventa, proprio come le mode. E nell’era della crisi economica e creativa dello spot, attinge dal baule dei ricordi e torna a raccontare storie alla maniera del vecchio Carosello.

Se Calimero, nel 1954, riuniva grandi e piccini attorno all’unica tv di casa, il nuovo Branded Entertainment punta a costruire cortometraggi, talent e web series attorno ad un unico marchio, con lo scopo di far rivivere quel legame intimo con lo spettatore/consumatore, chiave di volta per una comunicazione più efficace ed impattante.

Con il 20% all’attivo nel settore degli investimenti in adv e previsioni di crescita esponenziale entro la fine del 2014, il contenuto sponsorizzato si fa strada anche sul piccolo schermo italiano con format di successo come La Casa degli Assi (PokerStars), Un giorno per me – Missione Giovinezza (Pantene), The Apprentice o RDS Academy. È in questa direzione che puntano anche i player USA: gli investimenti per il Branded Content sono aumentati dell’8%, con una spesa di 1,86 milioni di dollari nel 2013 rispetto a 1,73 milioni dell’anno precedente (fonte: ContentWise).

Dalla soap opera allo spot, andata e ritorno. Pioniera del Branded Entertainment, la soap opera americana – sorella maggiore dell’italiano Carosello – serie o mini-drama pensata per le casalinghe, prodotta o sponsorizzata da aziende di detersivi e saponi. Una su tutte, la soap Sentieri di P&G che dal 25 gennaio 1937 conta più di 15.000 puntate.

Dopo circa mezzo secolo di strapotere, il fiume d’oro degli investimenti pubblicitari televisivi ha iniziato a cambiare direzione e morfologia, in concomitanza con le aspettative dei telespettatori 3.0.

“Negli ultimi anni coloro i quali hanno ricercato un coinvolgimento di tipo emotivo con i clienti, investendo in contenuti brandizzati, hanno ottenuto un considerevole vantaggio competitivo sulla concorrenza – spiega Massimo Romano, Media Hunter e A.D. di Spencer & Lewis – Ne è un esempio il format ibrido ‘La Casa degli Assi’, a metà tra Branded Entertainment e talent show, realizzato da PokerStars e prodotto da Magnolia. Dalla seconda serata di Italia2, il reality di poker sportivo è balzato in replica sull’ammiraglia Italia1 appassionando un numero sempre maggiore di neofiti di questa disciplina”.

Uno studio condotto da 2BResearch-Demoskopea per l’OBE – il primo Osservatorio del Branded Entertainment – dimostra quanto i nuovi contenuti sponsorizzati rappresentino un plus-valore per il consumatore stesso e un’ottima opportunità per il brand. Il 50% degli intervistati ammette: “Mi fa venire voglia di provare il prodotto”, “Mi ha avvicinato alla marca” e “Ha cambiato il mio approccio al brand”.

RACCONTARE IL MARCHIO ATTRAVERSO UNA STORIA. Pur non essendo mai in primo piano, nel BE il marchio viene raccontato attraverso tutti i suoi valori, i suoi stili tipici e iconici risultando immediatamente riconoscibile. Tutto questo imprimendo nello spettatore la sensazione che i contenuti siano stati pensati e realizzati dalla società per arricchire la sua esperienza e non per invitarlo esplicitamente all’uso o all’acquisto di un prodotto.

Oltre al fortunato “La Casa degli Assi”, un altro format sponsorizzato attualmente in onda su SkyUnoHD è l’adventure reality “Calzedonia Ocean Girls”, in cui il nome del brand è presente già nel titolo. Lo stesso vale per “RDS Academy”, talent per aspiranti speaker radiofonici prodotto in collaborazione con Vanity Fair; lo show  si è concluso il 7 luglio con la vittoria della varazzina Giuditta Arecco, che ha battuto in finale il trentenne barese Stefano Mastrolitti: “Il tratto distintivo di RDS Academy è stato proprio la crossmedialità, tradotta nel tentativo di riavvicinare i giovani alla radio attraverso un talent – continua Massimo Romano – Grazie al format, che ha portato gli spettatori alla scoperta delle dinamiche pure del mezzo radiofonico, la stessa emittente RDS è riuscita a riposizionarsi, guadagnando in termini di ascolti e di immagine.”

Prima di approdare in tv, il Branded Entertainment ha stregato anche il grande schermo. La rivista Esquire ha ribattezzato il film “Gli Stagisti” il nirvana del product placement, una pubblicità a chiarissime lettere per il colosso Google sotto forma di commedia. Il gemello italiano potrebbe forse essere Benvenuti al Nord che, con una marcia in più rispetto al capitolo precedente Benvenuti al Sud, intreccia avventure e disavventure dei protagonisti nella realtà di Poste Italiane.

Dimenticatevi l’era dello spot a metà programma: è il format stesso a diventare pubblicità, il talent brandizzato ha la meglio e i consigli per gli acquisti diventano reality.

Via Spot and Web

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Di Altri Autori (del 14/07/2014 @ 07:16:50, in Pubblicità, linkato 1537 volte)

Complice un maggio a scartamento ridotto, il settore pubblicitario italiano ha continuato a perdere investimenti nella prima parte dell’anno. Nei primi cinque mesi, il mercato ha lasciato per strada circa 110,5 milioni di euro rispetto allo stesso periodo del 2013, recedendo del 3,9%.

Nel solo mese di maggio, il passo indietro è stato del 5,5% (su base annua), mentre aprile si era chiuso con un laconico -4,4%. I dati di Nielsen non lasciano spazio all’ottimismo, anche se lo scorso anno le perdite werano state ben maggiori (-17,2% tra gennaio e maggio). Gli analisti non si aspettavano però numeri così in ribasso nell’ultimo mese in esame.

 “Per recuperare gli oltre 110 milioni persi in questa parte dell’anno, sarebbe necessaria una crescita del +3,2% nei prossimi sette mesi, visto che il periodo giugno – dicembre 2013 si era chiuso a -8,6%”, dice il rapporto. Intanto, tutti i media hanno registrato un saldo pubblicitario negativo a inizio 2014: i quotidiani hanno perso il 12,8% degli investimenti, i periodici l’11,6%. meglio la radio, con un -0,3%, mentre internet si ferma al -2,1%.

Via Quo Media

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