Chitika, società di analisi del traffico internet, punta il dito contro Google + e non esita a dichiarare il social network di Mountan View un "fallimento". Attraverso un' analisi grafica pubblicata sul proprio sito viene mostrato come si è sviluppato il traffico internet generato da Google+ dal giorno del lancio della beta pubblica(20 settembre) fino a una settimana dopo.
Il dato evidenzia che, nonostante un picco dove il traffico sarebbe aumentato del 1200% grazie alla promozione e alla curiosità degli utenti , lo stesso è rapidamente sceso a un livello simile a quello della beta privata. Secondo Chitika, il motivo per cui Google+ un "fallimento" risiede nel fatto che il social network non ha offerto alcuna vera innovazione ed è difficile da integrare con altri siti esistenti. È vero anche che Facebook, presente sul web da più a lungo e forte di una comunità molto più ricca, si è adattato rapidamente per rispondere alle nuove funzionalità offerte da Google +. Paradossalmente, si può ritenere che Facebook ha beneficiato dell'entrata in scenda di Google +, visto che i suoi utenti, hanno avuto accesso a molte nuove funzionalità che magari non avrebbero mai avuto se non fosse nato un pericoloso concorrente. In sintesi, nonostante un ottimo avvio, sembra che Google + non riesca ad ottenere il successo sperato. Se la società di Mountain View ha ancora qualche asso nella manica per rivitalizzare il proprio servizio, non dovrà aspettare molto tempo per metterli in opera, pena un distacco con la concorrenza che potrebbe diventare incolmabile.
Gli utenti dei social network sono attenti ai consigli e alle informazioni sui prodotti fornite dagli altri utenti della rete. E’ quando emerge da una recente ricerca condotta da NMIncite e Nielsen. Il 63% dichiara che le valutazioni e le recensioni online degli altri consumatori sono una fonte privilegiata di informazioni sui prodotti.
Circa la metà degli utenti poi dichiara che prevalentemente si affida a ciò che i social network dicono di un determinato prodotto, prendendo sempre meno in considerazione i siti web delle aziende produttrici. È interessante inoltre notare come le pagine ufficiali delle case produttrici su Facebook (15%) e l’account di Twitter (7%) sono tra le fonti ritenute meno attendibili. In particolare le notizie che provengono dal web sono considerate attendibili perchè gli utenti non esitano, in caso di esperienze negative, a criticare i prodotti senza alcun timore.
Circa il 65% degli intervistati poi dichiara di essere venuto a conoscenza di un determinato prodotto, di una marca o di un rivenditore direttamente dal tam tam della rete. Non solo i frequentatori dei social network si fidano delle recensioni online, ma tre su cinque di loro scrive recensioni e fa valutazioni. Tra questi, le donne sono più propense (81%) degli uomini (72%) a giudicare e condividere le impressioni.
Tuttavia questa vivacità si riduce spesso ad una critica, a volte molto ironica, alle volte rabbiosa e un po’ volgare, di tutto ciò che succede in giro senza grandi proposte alternative.
Molto italiano, non trovate? E non mi dite che è il mezzo, perché in altri paesi con i social media ci hanno fatto la rivoluzione! " class="wp-smiley" />
Beh, con un veloce parallelismo lo stesso capita anche quando si parla di web e social media marketing: per ogni cosa che un brand o un altro soggetto si sforzi di fare c’è sempre e subito pronta una frotta di commentatori dall’”epic fail” facile.
E per di più molto permalosi se poi si discute del tema in generale e lo si fa in modo un po’ semplicistico e divulgativo, come accade nelle rare occasioni televisive.
Per tutte queste persone, heavy user dei social network, sembra inconcepibile che le aziende non siano pronte ad affidarsi in tutto e per tutto a loro, che li traghetteranno verso un radioso futuro.
Ma quanta esperienza hanno costoro delle aziende, delle loro esigenze e delle loro fenomenologie organizzative? Poca temo, così come d’altra parte le aziende non hanno l’umiltà di ascoltare nuove idee e paradigmi, come dovrebbero fare almeno quando gli spunti non siano posti in modo ingenuo.
Quello che vorrei dire dunque, in modo costruttivo e non polemico, è che serve una maturazione del settore dopo l’entusiasmo dei primi tempi, e che non basta twittare tutti i giorni per essere un guru dei nuovi media, in grado di giudicare dall’alto ciò che fanno le aziende.
Certo, sui social da noi un ragazzo smaliziato ha molto più know how di un veterano del marketing offline, e bisogna dunque fare cultura, finché però gli eventi di settore saranno solo un simposio di addetti ai lavori, senza nemmeno un dirigente d’azienda (ma li invitiamo o no? e gli diamo contenuti comprensibili?), temo che continueremo a sentire belle citazioni sui mercati come conversazioni. Mi chiedo ad esempio quanti marketing manager (non digitali) ci fossero all’ultimo, interessante IAB Forum…
Meglio tardi che mai. In Italia il web continua a diffondersi e, secondo il rapporto nazionale sui media digitali, coinvolge ormai il 53% della popolazione. Una percentuale in aumento rispetto al 2009, quando a connettersi alla rete erano 47 italiani su cento.
La ricerca curata da Gianpietro Mazzoleni, Giulio Vigevani e Sergio Splendore mostra come la presenza di internet nello Stivale sia sempre più tangibile, con le attività di e-commerce, ad esempio, ma anche con il traffico dei siti d’informazione.
Il mondo digitale, inoltre, non è più una cosa per giovani (il 53% dei cittadini tra i 14 e i 29 è utente abituale) ma un fenomeno omogeneo.
Di Altri Autori (del 26/10/2011 @ 07:05:16, in Mobile, linkato 1838 volte)
Se il predominio negli smartphone passa attraverso la disponibilità (e la qualità) delle applicazioni è indubbio che Google sia oggi nella condizione di poter alzare la voce al cospetto di Apple. La forza dell'ecosistema di Cupertino (apps, iPhone, esperienza d'uso) non è in discussione ma la crescita registrata da Android, anche sotto il profilo della capacità di attrarre sviluppatori e utenti, è evidente.
E lo dicono i numeri. Stando per esempio ai dati resi noti da Abi Research, nel corso del secondo trimestre il negozio virtuale di Mountain View ha superato per numero di download effettuati l'App Store della Mela: il 44% di tutti i programmi scaricati dagli utenti sui propri telefonini da aprile a giugno è attribuibile infatti all'Android Market, contro il 31% raggiunto dallo store della Mela. Il restante 25% delle apps è stato quindi "pescato" dai negozi delle varie Amazon, Nokia, Microsoft e Research in Motion.
Il forte incremento delle vendite di smartphone androidi ha naturalmente contribuito al "clamoroso" sorpasso ma a confortare i vertici di Cupertino c'è il dato che riguarda il numero di download effettuati da ogni utente, visto e considerato che ad ogni dispositivo iOs venduto corrispondono circa 2,4 prodotti basati su Android (ed entro il 2016, stando alle previsioni, tale rapporto sarà di 3:1).
C'è però un altro studio, a firma della società specializzata Research2Guidance, che mette in risalto come Google abbia fatto passi da gigante per annullare il gap che la separa da Apple quanto a disponibilità di applicazioni da offrire agli utenti mobili. L'Android Market avrebbe infatti superato a settembre la fatidica soglia di 500mila software disponibili al download avvicinandosi quindi alle 600mila accessibili per gli utenti di iPhone nell'App Store di Apple. In realtà l'effettiva dote dello store di Mountain View è oggi nell'ordine delle 315mila apps in quanto ben il 37% sono state sì pubblicate ma subito dopo rimosse (la percentuale per Apple è del 24% per un netto di 456mila apps e quella del Marketplace dei Windows Phone è del 13%, per un totale di circa 35mila).
Google "paga" quindi un approccio più leggero verso gli sviluppatori che caricano nel Market demo o versioni di testing e incomplete dei programmi che poi non vengono ultimati (e quindi cancellati) mentre a Cupertino permangono criteri più rigidi nella selezione delle apps, di cui sono per esempio bandite le versioni multiple di prova. Quanto, in generale, allo stato di effervescenza del mercato delle applicazioni mobili parlano chiaramente i numeri elaborati dagli analisti di Abi Reserarch: fra giochi, musica e servizi di vario genere, il totale delle apps che verranno scaricate su scala mondiale dovrebbe arrivare nel 2011 a quota 29 miliardi, rispetto ai nove miliardi dell'anno passato. E tanto per rafforzare il concetto c'è anche la stima elaborata da Berg Insight, secondo cui i download raggiungeranno il tetto dei 98 miliardi entro il 2015 (il 40% verrà effettuato nella regione Asia Pacific) e il giro d'affari delle apps a pagamento arriverà a 8,8 miliardi di euro rispetto agli 1,6 miliardi registrati a consuntivo nel 2010.
La prima ragione riportata nel testo è la disponibilità sempre maggiore di buone connessioni 3g e, prossimamente, 4g che abilitano una navigazione affidabile e veloce, con il plus di accessi alternativi come il wi-fi pubblico. Una tendenza in atto anche in Italia, nonostante i costi alti di navigazione in mobilità e la scarsità di reti wireless accessibili.
A tutti questi argomenti mi permetto di aggiungere una citazione di quello che è il grande tema dell’ipertestualità diffusa, concessa da strumenti come i QR Code, la realtà aumentata e, presto, l’Rfid e l’NFC.
Per molti anni le aziende che hanno avuto a che fare con i media si sono confrontate con editori che vendevano loro spazi pubblicitari, e dunque non hanno avuto alcun controllo su di essi se non per quanto riguarda quanto acquistato su questi paid media.
In un secondo momento poi alcune imprese hanno iniziato a sviluppare media propri, i cosiddetti owned media, su cui avere il pieno controllo, fenomeno che si è democraticizzato con l’avvento del web e dei siti aziendali.
Infine, soprattutto grazie all’avvento del social web, è arrivata a maturazione una nuova categoria, gli earned media, ossia quei particolari mezzi in cui la visibilità si conquista con il word of mounth e dove l’acquisto di spazi, dove presente, è complementare.
Quest’ultima categoria ha dunque suscitato, non senza ragione, grande entusiasmo e attenzione, sia per gli indubbi vantaggi di un approccio più dialogico con il consumatore sia (soprattutto?) per il risparmio monetario.
Non entro qui in tutti i temi del corretto approccio al social media marketing, mi preme però evidenziare un tema banale e dimenticato: come dice il nome gli earned media non sono mezzi propri, anche dove riteniamo di avere il pieno controllo, come ad esempio nel caso delle pagine Facebook.
Il servizio infatti potrebbe cessare il qualsiasi momento, come da contratto, in più a moltissime aziende sfugge il fondamentale particolare che i lead degli utenti dei social, a meno di specifiche attività, restano dei vari Facebook e Twitter. Ossia non si sa quasi nulla di loro e in caso di chiusura del servizio sono a tutti gli effetti persi.
D’altra parte il traffico che può essere intercettato su questi mezzi è difficilmente riproducibile su siti e strumenti propri, senza contare i costi di sviluppo, gestione ed evoluzione di certe feature social da parte di chi non ne abbia il know how. É il dilemma dei social media, di cui mi sono già occupato: meglio inventare ogni giorno la ruota o consegnare ad altri i nostri clienti?
Una risposta c’è, e sta nel non facile equilibrio tra un’attiva ma intelligente presenza sugli earned media focalizzata però ad un percorso graduale di acquisizione sugli owned media, che vada da una semplice registrazione al sito alla sottoscrizione di una loyalty card fino a tutti i gradi del crowdsourcing e della co-creazione.
Dal mio punto di vista è questo percorso strategico che finora è mancato nell’approccio ai nuovi media, siano essi paid o earned, con molte aziende che hanno progressivamente abbandonato il presidio del proprio sito e di altri canali di comunicazione a favore delle più facili pagine social.
I tempi e gli strumenti invece sono maturi per consentire ad ogni azienda di costruire i propri mezzi attraverso cui comunicare ai propri clienti, risparmiando anche budget da reinvestire in adv e in social media marketing, con lo scopo di incrementare ancora il circolo virtuoso della relazione. E in questo i social media sono importanti ma da soli non bastano.
Resta poi molto importante la costruzione di metriche adeguate, in combinazione con la capacità e la volontà di leggere i dati che gli strumenti digitali sono in grado di fornirci.
Ho la percezione che queste logiche stiano iniziando solo ora ad affermarsi nelle aziende più illuminate, ma la progressiva necessità di misurare il ROI dei nuovi media porterà, almeno così mi auguro, sempre più imprese a ragionare seriamente su questi temi.
Si è aperta a Londra la Conferenza internazionale sul cyberspace che vede la partecipazione dei rappresentanti di 60 Paesi del mondo, oltre ai maggiori operatori del mercato internet.
Vantaggi socio-economici, sicurezza e affidabilità dell'accesso, cyber-crimine e sicurezza internazionale, sono gli argomenti oggetto della due giorni di conferenze fortemente voluta dal ministro degli esteri britannico, William Hague. Alla due giorni londinese partecipano rappresentanti provenienti da Stati Uniti, Russia, India e Cina, personalità della rete come Jimmy Wales di Wikipedia o Joanna Shields di Facebook.
Ho avuto la fortuna di partecipare nel giro di una settimana al 4th Iads-Igds IT Executive Meeting (Mestre) e al Forum Italiano Gartner Executive Partners (Napoli), incontrando CIO e analisti tecnologici provenienti dalle maggiori aziende italiane e da tutto il mondo.
Ho dunque avuto modo di sentire moltissime opinioni ed esperienze da cui trarrò senz’altro nuovi post, c’è però un primo tema comune a entrambi gli incontri e che mi piace evidenziare, ossia il mutamento organizzativo che sta interessando le persone che si occupano di tecnologia in aziende per cui quest’ultima non è il core business.
Da un lato infatti il cliente finale ha in mano sempre più tecnologia (smartphone, tablet etc) che lo abilita a interagire con l’azienda e con i propri amici, e questo tipo di device è poco padroneggiato dalle tradizionali strutture IT.
Dall’altro lato internamente alle imprese molte attività innovative sui social network, sul mobile e altri fronti come l’e-commerce sono portati avanti spesso dal marketing o da altri dipartimenti, che non coinvolgono in questo il mondo IT.
Alla fine però il cerchio si chiude perché tutti questi strumenti richiedono, presto o tardi, un’integrazione con i sistemi gestionali dell’azienda (che frequentemente non sono adeguati alle nuove necessità), coinvolgendo solo a quel punto il personale che in precedenza non aveva partecipato.
Mi ritrovo molto in questa constatazione, anche perché il mio ruolo in azienda mi porta quotidianamente a portare avanti l’innovazione coordinando le persone di marketing e del business in genere con chi gestisce i sistemi informativi.
Inoltre ciò conferma la mia visione sui nuovi media, che richiedono ormai una professionalità in grado di disegnare la strategia, con il know how complessivo di più aspetti e la capacità di dialogare con tutte le aree aziendali.
A medio termine dunque sarà sempre più necessario affrontare le nuove sfide, come ad esempio the big data (ossia l’analisi coordinata delle quantità enormi di dati che vengono da social, customer care etc.), connuovi professionisti e un diverso modo di organizzare le risorse in azienda.
Secondo voi siamo pronti? Che esperienze avete in merito?
I social network hanno diffusione ormai capillare, ma a dominare la scena è comunque Facebook, capace di coinvolgere un’utenza molto differenziata per età e gusti. Secondo una recente indagine di Forrester sul web statunitense, il 96% degli internauti che usano i social network è iscritto a Facebook.
Una percentuale stabile tra le diverse generazioni (anche per quanto riguarda gli utenti sopra i 65 anni d’età). Alle spalle di Mark Zuckerberg & Co., il vuoto o quasi. Il secondo sito più seguito è LinkedIn, che coinvolge il 28% dell’utenza 2.0 e riscuote successo soprattutto tra i professionisti adulti (30-50 anni, target designato). In terza posizione c’è Twitter, che catalizza l’attenzione dei più giovani, teenager e universitari.