Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Le ultime vicende che hanno visto YouTube protagonista, riguardanti la circolazione di materiale inappropriato, spesso inavvertitamente affiancato a pubblicità, ha spinto molti brand a congelare i propri investimenti in advertising sul sito e alla piattaforma ad avviare politiche molto restrittive nel tentativo di arginare il problema. YouTube ha, infatti, eliminato la pubblicità da centinaia di migliaia di video in un processo che sta chiamando de-monetizzazione, compresi quelli di youtuber molto seguiti come PewDiePie, uno dei canali più popolari del sito che ha offeso i telespettatori e gli inserzionisti con materiale antisemita all’inizio di quest’anno. I suoi guadagni sono scesi del 20% a 6,12 milioni di dollari, rispetto ai 15 milioni dell’anno scorso.
Le vittime collaterali
Il risultato collaterale è stato che molti Youtuber sono stati privati di gran parte del proprio business, anche se non necessariamente promotori di contenuti offensivi. Alcuni creator hanno perso fino all’80% dei propri introiti mensili, un colpo proprio alla gente che contribuisce maggiormente a rendere il sito il posto più popolare dove guardare video online. Molti di essi, hanno persino abbandonato la piattaforma ripiegando su altri siti rivali, come Twitch, la social tv di Amazon che continua a rivelarsi un avversario temibile per il business di Google. YouTube stesso ha detto che sta lavorando per rispondere alle preoccupazioni degli utenti, riconoscendo in una dichiarazione che “è stato un anno difficile per i creator”.
Calo dei ricavi
Il servizio video ha costruito una delle più grandi aziende media nel mondo, con miliardi di dollari di ricavi annuali. L’incentivo per gli utenti è di costruire un pubblico e di condividere la pubblicità in funzione dell’aumento del numero di spettatori. Ma alcuni youtuber stanno riconsiderando le loro posizioni avendo visto un calo dei benefici a seguito delle recenti vicende. Quanto emerso è chiaro anche da una serie di interviste che Bloomberg ha rivolto ad alcuni famosi youtuber come Joe Taylor, “ho dovuto cambiare tutta la mia vita”, ha dichiarato dopo che il suo canale dedicato alle moto chiamato JoeGo101 ha visto un immenso calo dei guadagni che sono scesi da 6.000 dollari al mese a circa 1.000, non abbastanza per pagare le bollette del 37enne.
I numeri dei creator
Complessivamente, le 10 stelle YouTube più pagate al mondo, individuate da Forbes, hanno guadagnato 127 milioni di dollari tra il 1° giugno 2016 e il 1° giugno 2017, al lordo delle tasse e delle spese di gestione. Le cifre si basano sui dati di YouTube, Social Blade e Captiv8, così come sulle interviste con agenti, manager, pubblicitari, produttori e avvocati. Il guadagno complessivo è aumentato dell’80% rispetto ai 70,5 milioni di dollari delle prime 10 stelle di YouTube dello scorso anno. In gran parte, questo è grazie alle views, che si traducono facilmente in dollari pubblicitari. Inoltre, man mano che YouTube è maturato, le sue star sono divenute più sofisticate nel marketing stesso, il che si è tradotto in tour da sold out, ospitate offerte di creazione contenuti di marca più lucrative e maggiori vendite di merci.
Le soluzioni proposte da YouTube
“Abbiamo bisogno di un approccio che ci permetta di fare un lavoro migliore nel determinare quali canali e video dovrebbero essere idonei per la pubblicità e rendere il nostro ambiente pulito e sicuro”, ha scritto il CEO di YouTube Susan Wojcicki in un blogpost. “Abbiamo ricevuto molte richieste dai nostri creator che ci chiedono di essere più accurati quando si tratta di rivedere i contenuti, in modo da non smonetizzare i video per errore”. Nonostante le nuove sfide, dunque, i canali di YouTube prosperano con cifre a sei zeri nel fatturato e sono in crescita del 40% rispetto allo scorso anno, secondo l’azienda. I creator hanno anche nuovi modi per fare soldi attraverso abbonamenti, sponsorizzazioni e altri strumenti, ha detto YouTube.
La sfida
Altri creator che sono riusciti a mantenere i propri guadagni inalterati, si dichiarano comunque frustrati dalla mancanza di trasparenza e comunicazione del sito. “L’azienda deve ancora condividere una serie di standard di quello che è accettabile per gli inserzionisti pubblicitari e se ti de-monetizza non ti spiega perché arrecandoti spesso per errore un danno enorme”, dichiara uno di loro. Il problema della comunicazione è facilmente riconducibile all’ampiezza del network, difficile da controllare e altrettanto da gestire in maniera integrata. La sfida per YouTube, dunque, è bilanciare le esigenze di youtuber, inserzionisti e fan poiché ognuno di questi gruppi è essenziale per l’ecosistema creativo di della piattaforma – nessuno può prosperare su YouTube senza l’altro.
Via 360com
Rallenta la flessione del giro d’affari dell’editoria in Italia, anche se il comparto, su scala internazionale continua ad essere in affanno. E’ questo il dato che emerge dal focus che R&S Mediobanca ha dedicato al settore, analizzando la situazione dei nove principali gruppi editoriali del Paese cui fanno capo i maggiori quotidiani nazionali d’informazione, attraverso i conti nel periodo 2012-2016 (inclusi i primi nove mesi 2017). Lo studio comprende il confronto con i maggiori editori di quotidiani in Europa e un’analisi del settore editoriale a livello mondiale.
Dall’analisi emerge che il giro d’affari mondiale dell’industria dell’informazione è in diminuzione, attestandosi nel 2016 a 153 miliardi di dollari, in calo dell’8,4% sul 2012. La riduzione, però, riguarda esclusivamente i ricavi da pubblicità cartacea (-26,9% nel 2012-16), mentre aumentano quelli da diffusione cartacea (+3,4%), da diffusione digitale (un notevole +254,4%) e da pubblicità digitale (+32%). Nonostante la crescita del digitale, nel 2016 il 91,6% del giro d’affari mondiale proviene ancora dalla carta stampata, segno di come a livello globale la gran parte degli investimenti pubblicitari e delle vendite si concentri ancora sui canali tradizionali.
Nel mondo dell’editoria mondiale – le cui tre piazze principali sono USA, Giappone e Germania – sta cambiando il modello, passando da un paradigma centrato sulla pubblicità a uno focalizzato sulla vendita. Continua infatti l’inversione di tendenza iniziata nel 2014, quando i proventi da diffusione hanno superato quelli pubblicitari: nel 2016 il 56% del giro d’affari mondiale dell’industria dei quotidiani proviene dai ricavi diffusionali. In questo contesto la pubblicità digitale garantisce all’industria dell’editoria margini di guadagno esigui: su ogni euro speso in pubblicità digitale, ben 61 centesimi vanno alle cosiddette “advertising tech companies”, soprattutto alle BigWeb companies: Google, con €75mld nel 2016, si accaparra la maggiore quota di ricavi da pubblicità digitale (principalmente attraverso Google Search e YouTube), seguita da Facebook, con €26mld; al terzo e quarto posto le cinesi Baidu (€9mld) e Tencent (€4mld).
Diffusione e prezzi dei quotidiani in Italia e negli altri Paesi Nel 2016 in Italia la diffusione cartacea complessiva è diminuita di circa 300mila unità, passando da 2,9 a 2,6 milioni di copie medie al giorno (-33,3% rispetto al 2012). In Europa le cose non vanno molto meglio: la diffusione cartacea registra un -20,5% sullo stesso periodo. A livello globale il calo risulta invece più contenuto in Nord America (-11,6%) e in America Latina (-12,1%), mentre l’Oceania è il continente che registra la diminuzione maggiore (-30,7%). In Asia invece la diffusione aumenta, grazie soprattutto all’apporto dell’India, e segna ben +40,1% nel quinquennio in esame. Quest’ultimo dato incide fortemente sulla dinamica diffusionale mondiale, portandola in segno positivo a +21%.
(Infografica elaborata da R&S Mediobanca)
Nel 2016 la diffusione dei quotidiani italiani (2,6 milioni di copie) corrisponde a poco più di quanto fatto registrare dai soli primi due tedeschi (Bild e Frankfurter Allgemeine, la cui diffusione aggregata è di poco inferiore a due milioni e mezzo di copie) e inferiore a quella dei primi due britannici (la somma della diffusione di The Sun e Daily Mail arriva a 3,3 milioni di copie).
(Infografica elaborata da R&S Mediobanca)
La top 10 dei quotidiani d’informazione più diffusi in Italia nel 2016 per copie medie al giorno (dati ADS): al primo posto il Corriere della Sera (268mila), a cui segue La Repubblica (232mila), La Stampa (161mila), Il Sole 24 ORE (131mila), Il Messaggero (113mila), Avvenire (108mila), QN-Il Resto del Carlino (105mila), QN-La Nazione (80mila), Il Giornale (72mila) e Il Gazzettino (56mila).
Capitolo a parte è quello relativo ai prezzi: i quotidiani europei sono mediamente più cari di quelli italiani: ad esempio la singola copia del francese Le Monde costa €2,40, quella del tedesco Handelsblatt €2,80. Bild, The Sun e Daily Mail costano meno della metà degli altri quotidiani di informazione, ma hanno una diffusione di circa cinque volte superiore.
(Infografica elaborata da R&S Mediobanca)
Qual è lo scenario dei principali gruppi editoriali italiani? I ricavi aggregati dei nove principali Gruppi editoriali italiani continuano a diminuire, attestandosi nel 2016 a €3,7mld (-25,7% sul 2012). Tuttavia il confronto 2016-2015 indica un rallentamento della flessione del giro d’affari. La top 3 per fatturato nel 2016 è composta da Mondadori (€1,26mld), RCS MediaGroup (€968mln) e L’Espresso (€586mln).
(Infografica elaborata da R&S Mediobanca)
(Infografica elaborata da R&S Mediobanca)
Anche l’occupazione si riduce. Considerando le 3.422 unità perse nel periodo 2012-16, la forza lavoro del comparto si attesta a quota 13.038 dipendenti nel 2016 (-20,8% sul 2012). Nel corso del quinquennio, solo Cairo Editore ha aumentato gli organici (+6,4%).
(Infografica elaborata da R&S Mediobanca)
Passando ai conti, i maggiori Gruppi editoriali italiani hanno cumulato nel periodo 2012-16 perdite nette per €2mld; solo Cairo Editore e L’Espresso hanno sempre chiuso in utile. Anche la redditività industriale è stata negativa nel quinquennio, pur con una forte dispersione fra i singoli Gruppi: la classifica per ebit margin 2016 vede al primo posto Cairo Editore (14,3%), al secondo Mondadori (5,2%) e al terzo L’Espresso (4,7%); in coda Il Sole 24 ORE (-15,4%) e Class Editori (-21,8%).
(Infografica elaborata da R&S Mediobanca)
Nel 2016 la struttura finanziaria resta mediamente solida, ma molto eterogenea, con i mezzi propri che rappresentano in media 1,4 volte i debiti finanziari. I più solidi nel 2016 sono Cairo Editore (senza debiti finanziari) e Caltagirone Editore, mentre i più fragili sono Il Sole 24 ORE e RCS MediaGroup. Sul fronte investimenti si registra un forte ridimensionamento: gli €24mld del 2016 segnano un calo del 69% sul 2012.
Il confronto con l’Europa Escludendo l’Italia, i Gruppi editoriali europei con il maggior fatturato per il 2016 sono il tedesco Axel Springer (€3,29mld) che edita i quotidiani Bild e Die Welt, e due società del mercato UK: l’Associated Newspapers Ltd. (€759mln) a cui fa capo il Daily Mail e il News Group Newspapers Ltd. (€521mln) che edita il The Sun.
(Infografica elaborata da R&S Mediobanca)
Come vanno i big player dei principali Paesi europei? Il confronto tra Italia, Francia, Germania e UK vede il nostro Paese e la Francia capofila per contrazione del giro d’affari nel 2016-15, con Germania e UK che segnano invece un leggero aumento, e fanalino di coda per quanto riguarda la solidità finanziaria; Italia ultima per tasso di investimento nel 2016. La migliore redditività industriale è registrata dalla Germania con un ebit margin del 7,4% nel 2016, mentre Italia (-1,3%) e Francia (-3%) sono in negativo. Nel periodo 2015-16 sono scesi mediamente dell’1,8% i ricavi delle società editoriali europee prese in esame a cui fanno capo i quotidiani d’informazione, mentre sono in controtendenza i ricavi delle società che editano testate economiche (+2,7% medio).
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Via Prima Comunicazione
- Internet parallele come monopòli: Amazon, Booking, Airbnb, Whatsapp, Facebook, Netflix. Le persone ahimè sono pigre, scelgono pochi strumenti, e usano sempre gli stessi per eseguire la maggior parte delle loro attività. L’importante (per la digital strategy) è saperlo, e sfruttare la pigrizia.
- Mobile: la app mania è finalmente finita. Non siete diventati ricchi a botte di un euro a download. La app della vostra azienda se la sono scaricata solo gli sviluppatori. È il momento di pensare al mobile come a un layer permanente, non come a un canale, o peggio a uno strumento. Cosa siete disposti a dare per entrare nei loro smartphone?
- Social: ehi, vi ho già detto che il piano editoriale è morto? E che Facebook sfrutterà sempre di più il proprio monopolio? E che non ci potete fare niente se non gioire e pagare (bene) e/o distinguersi dagli altri?
- Programmatic: chi sarà il primo a fare la domanda “quanto costa rispetto a quanto rende“? Chi ci guadagna nel mezzo? E poi: tre cookie profilanti non faranno spiccare un banner, che è un formato fuori dagli occhi (figurati dal cell, figurati dal cuore) dei millennial (e non solo), soprattutto in mancanza del punto 6.
- Creatività digitale: ancora adesso partiamo dal concept. Brainstorming intersecano ciò vogliamo comunicare, sinonimi e contrari, e ardite metafore e poi la battuta. Chi è di solito assente al tavolo? Il micro-segmento di persone a cui vogliamo dire qualcosa, la loro ricompensa per starci a sentire. Il concept creativo monolito (la “big idea”) per tutti ha ancora senso nell’era digitale (vedi il punto 6)? O forse meglio un algoritmo che faccia 5000 variazioni diverse per coprire 5000 microsegmenti?
- Rilevanza: la pubblicità digitale, nonostante tutte le tracce che lasciamo in rete, viene concepita come ai tempi della TV, un messaggio uguale per tutti, e che in più interrompe senza niente in cambio. Quindi, non è davvero rilevante per nessuno. E questo provoca il punto 10.
- Stories: le stories sono ormai un linguaggio autonomo. Instagram ha in mano il futuro dei social, che sarà verticale, creativo e pop. Sarà più spontaneo ed effimero. Chi ci perde, oltre a Snapchat? I fotografi influencer patinati di Instagram, forse?
- Content: sempre più contenuti, sempre più affollamento. È il dilemma del prigioniero: sarebbe meglio per tutti che se ne facessero meno e migliori, “ma se poi io ne faccio meno e lui di più, io perdo e lui vince”. Così perdiamo tutti, e amen.
- Influencer: se servono per aumentare awareness, reputation e vendite, perché non misuriamo nessuno dei tre? Semplice: perché con i fondi di magazzino del budget digital si fa prima a cacciare mille euro a post di Instagram e sperare che succeda qualcosa. Finché dura.
- Adblock ed editori: ci sono molti motivi perché le persone bloccano i banner, e nessuno di questi è la cattiveria verso gli editori. Il motivo è il punto 6. E gli editori continuano a vendere i dati dei propri utenti per pochi euro a CPM che non salveranno il settore. Iniziassero a vendere prodotti per cui (una minoranza) di persone sono disposte a spendere sarebbe una internet migliore per tutti.
Via [mini]marketing
Il Mobile ha conquistato una posizione di primo piano in tutto il mondo: conta per oltre la metà dei minuti complessivi spesi online in 13 Paesi, con quote che superano il 75% in Messico, India e Indonesia. In Italia questa percentuale si ferma al 62%, in linea con i dati di USA e Regno Unito.
Tuttavia, una percentuale significativa della popolazione internet italiana è fortemente dipendente dai dispositivi mobili. Le persone che accedono al web esclusivamente da Mobile sono il 26% della popolazione italiana, una percentuale molto più alta di paesi come Germania, Regno Unito e Stati Uniti (rispettivamente 4%, 8% e 12%), mercati in cui la maggioranza accede da più piattaforme.
L’Italia risulta anche il mercato più polarizzato in assoluto per quanto riguarda l’utilizzo di app: oltre l’87% del tempo trascorso via mobile è infatti speso all’interno di un’app, ma in termini di reach in Italia solo 11 app riescono a raggiungere un livello di audience abbastanza consistente attorno al 20% di penetrazione (contro le 20 degli USA o le 17 del Regno Unito). Queste alcune delle evidenze provenienti dalla relazione internazionale sull’uso dei dispositivi mobili per il 2017 di comScore, intitolata “Global Mobile Report”.
Questo nuovo studio si propone di esaminare le audience mobile, le categorie di contenuti e le applicazioni che stanno modificando il panorama digitale globale. La relazione si basa su dati multi-piattaforma relativi a 14 mercati internazionali (Stati Uniti, Canada, Francia, Germania, Italia, Spagna, Regno Unito, Argentina, Brasile, Messico, Cina, India, Indonesia e Malesia) allo scopo di evidenziare trend globali e differenze regionali nell’utilizzo dei dispositivi mobili.
“L’adozione del mobile avviene in maniera tutt’altro che uniforme a livello globale”, commenta Will Hodgman, Executive Vice President of international sales presso comScore. “Questa relazione dimostra che identificare le aree in cui il consumo digitale tende a concentrarsi sulle piattaforme mobili permette a proprietari di media, inserzionisti e relativi centri media di portare alla luce nuove opportunità potenziali in termini di audience e contenuti. Con l’ampliamento della misurazione delle audience mobile a livello granulare e basata su dati panel, comScore intende perseguire l’intento di individuare nuovi trend da azionare.”
Il Global Mobile Report si concentra sulle seguenti tematiche: • La percentuale del tempo digitale complessivo dedicato al mobile (e alle app) con le relative quote di audience, approfondendo anche l’influenza dei modelli di utilizzo “mobile-only” sul panorama digitale; • Le dinamiche a livello delle singole categorie di contenuti, identificando le categorie maggiormente caratterizzate da comportamenti “mobile first”; • I comportamenti dei consumatori in relazione alle transazioni da mobile; • I brand e le applicazioni mobile che hanno conquistato posizioni dominanti nelle categorie di Messaggistica Istantanea, Notizie, Retail e Social Media; • La maturità del mercato globale delle app, con identificazione delle categorie che registrano una crescita costante. I panel mobile migliorati in Germania, accanto a quelli di Francia e Argentina, hanno l’effetto di ampliare le già avanzate soluzioni comScore per la misurazione dell’universo mobile, le quali oggi si concentrano su ben 14 mercati globali. comScore è intenzionata a espandere ulteriormente le proprie capacità di misurazione del mobile a livello globale.
Via Spot and Web
L’algoritmo di Facebook, che smista i contenuti che ogni iscritto vede, è oggetto di modifiche costanti. L’ultima in ordine di tempo ed importanza è volta a penalizzare il cosiddetto “engagement baiting“. Dopo aver scoraggiato il “link baiting” ossia i post ingannevoli usati per portare visite ad un sito, il social network ora prova a combattere i post “acchiappa-interazioni”. Sono quelli che contengono frasi del tipo “metti mi piace se…”, “condividi se anche tu…”, “vota X se…”, “tagga un amico…”. Si tratta di pratiche molto comuni purtroppo anche tra gli amministratori di pagine aziendali italiane che, per qualche interazione in più, perdono di vista la qualità dei contenuti e l’identità del brand.
Da oggi i post “acchiappa-interazioni” scritti da profili e pagine verranno etichettati come di bassa qualità e di conseguenza la loro circolazione subirà una battuta d’arresto. Oltre ai singoli post verranno sanzionate anche le pagine che fanno largo uso di questa tipologia di contenuto. Ciò determinerà un abbassamento della loro visibilità all’interno della piattaforma. Sotto la scure dell’algoritmo non dovrebbero ricadere i post che chiedono aiuto nei casi di persone scomparse, denaro per buone cause, consigli di viaggio. Per individuare i post “ingannevoli” Facebook ha addestrato un modello di machine learning con migliaia di post di bassa qualità, ma gli errori potranno sempre succedere. Quindi il consiglio é di abbandonare qualsiasi pratica borderline tesa ad ottenere facili reazioni, puntando su articoli utili per il vostro pubblico di riferimento.
Via Vincos blog
Evoluzione positiva per l’umore degli italiani nel 2018 secondo la fotografia scattata dal sondaggio di fine anno Coop-Nomisma e dal Rapporto Coop. Un ritrovato ottimismo che contribuisce al miglioramento delle intenzioni di spesa, tutte in segno positivo tra il 2017 e il 2018.
Al top i soliti oggetti dei desideri: i viaggi (il 23,3% spenderà di più) e lo smartphone (il 64% prevede in crescita il budget destinato), ma ritornano voci evergreen degli italiani come l’arredamento, la ristrutturazione della casa e ancora investimenti per il tempo libero e la cura di sé (abbonamenti a teatro, stadio, pay tv fino al ricorso alla chirurgia estetica).
Le previsioni sui consumi. Se il 2017 è stato per i consumi un anno migliore delle attese sfiorando l’1,5%, sono buoni gli auspici anche per il 2018 grazie a un aumento del potere d’acquisto delle famiglie che dovrebbe raggiungere ritmi di crescita prossimi all’1%. Un bicchiere mezzo pieno che toccherà più i comparti dell’audiovisivo, computer e accessori (+ 8,5% nel 2018), telefoni e equipaggiamento (+7,8%) e solo in parte l’alimentare (+2,1%). Stando poi alla distribuzione moderna l’andamento sarà ancora positivo (+1%) ma più che dimezzato nei ritmi di marcia rispetto al 2017, anno contrassegnato da un eccezionale effetto climatico. Buona performance prevista per il largo consumo confezionato (+1,3%), del fresco ortofrutticolo (+ 1,6%), continua viceversa a registrare un andamento negativo il no food (-3,7%). A livello territoriale, la tendenza attesa è quella che di una parziale inversione di tendenza rispetto al 2017: archiviata una fase di sovra-performance del Sud in confronto alla media nazionale, si osserva un incremento del fatturato più solido nel Nord Italia (+1,2% e +1,4% per le aree del Nord-Ovest e Nord Est).
I primi risultati delle vendite natalizie L’anno si è chiuso con un boom di vendite sotto l’albero e la settimana di Natale fa registrare un +15,6% (iper + super dati Nielsen per Coop) rispetto alla stessa settimana di un anno fa. Più carne che pesce, molta gastronomia e formaggi con un Centro Sud che guida la classifica degli acquisti (Campania in testa con un +16,2% seguita da Molise, Umbria, Puglia).
Il boom dell'e-food nelle case degli italiani
L'atteggiamento e il sentiment degli italiani Tra le parole con cui gli italiani descrivono l’anno che è appena iniziato scendono di molto i termini dalla connotazione negativa quali “timore” e “crisi” (altre due parole d’ordine del 2017 indicate rispettivamente da oltre il 10% e il 7,6% del campione, ora entrambe intorno al 4,5% e il confronto è ancora più impietoso con i dati raccolti appena 2 anni fa a fine 2016 quando di luci in fondo al tunnel se ne vedevano davvero poche). Se ne avvantaggiano voci quali appunto “ripresa” (15,4%), “cambiamento” (15,1%), “benessere” (10,3%), “novità” (7,9%). A crederci di più gli over 50 rispetto a generazioni più giovani ma evidentemente meno appagate. E il Mezzogiorno a fare da pioniere della “ripresa” (parola che qui arriva al 18%).
Italiani e il ritorno al tempo libero
Italiani che si sentono meno in salute (pur non essendolo) Un aspetto che lascia intravedere la crescita ulteriore del trend salutista negli acquisti
Italiani e amore per i social
Ulteriori approfondimenti qui
Via Mark Up
Da tempo Instagram è il secondo social medium più usato dagli italiani e nuovi dati confermano un’ulteriore crescita dell’utenza. Quanti sono gli italiani su Instagram? A giugno 2017 erano 14 milioni gli utenti attivi ogni mese (confermati dal fondatore Mike Krieger), mentre erano 11 milioni a fine 2016. Secondo le mie stime è plausibile ipotizzare un utilizzo giornaliero di almeno 8 milioni di italiani.
L’applicazione, nata per essere un usata come diario visivo della propria giornata, in questi anni si è trasformata, diventando un catalogo patinato per persone e brand. Secondo la ricerca di Blogmeter “Italiani e Social Media” il 14% degli italiani lo usa per condividere esperienze, ma il 17% lo sceglie per seguire personaggi famosi.
Le aziende italiane, dalla fine del 2015, possono usare la piattaforma per veicolare la pubblicità. Ecco perché diventa fondamentale capire meglio qual è la composizione demografica degli “Instagramers”, anche rispetto a Facebook, in quanto la sinergia tra i due social può portare ottimi benefici commerciali.
Chi sono gli italiani che usano Instagram? La prima cosa da tener presente è che, a differenza di altre piattaforme, Instagram è utilizzato più da donne (51%) che da uomini. E ciò lo pone in diretta competizione con Pinterest, che anche nel nostro paese inizia a guadagnare terreno (circa 5 milioni gli utenti).
Il 55% degli utenti ha meno di 35 anni, mentre su Facebook la tendenza è ad un “invecchiamento” della base utenti (come dettagliato in questa analisi).
L’età prevalente non è quella di minori di 18 anni (10%), ma quella dei giovani tra i 19 e i 24 anni, che rappresentano il 25% di tutti gli utilizzatori. Quote del 17% per i 25-29enni e i 36-45enni. Bassa, invece, la quota degli ultra 56enni (6%).
Insomma Instagram è un servizio che non può essere più usato come discarica di contenuti già usati su Facebook. Al contrario richiederebbe una strategia di content marketing dedicata e investimenti in advertising oculati, visto che ormai anche qui la visibilità organica sta scemando.
Per rimanere sempre aggiornati sulle statistiche riguardanti i social media in Italia vi consiglio di tenere d’occhio la pagina dell’Osservatorio Social Media, mentre per i dati internazionali c’è “Social Media Statistics“.
Via Vincos blog
Non saranno i taxi volanti o i robot i protagonisti del mondo hitech nel 2018: nonostante le innovazioni più avveniristiche catturino l’attenzione e generino entusiasmo, a far girare l’economia digitale l’anno prossimo saranno ancora i business che già oggi sono il potente motore della crescita dei colossi hitech come Google, Facebook, Apple, Amazon, Alibaba e Tencent: pubblicità, commercio elettronico, servizi cloud. Come ha scritto in un commento il Financial Times, queste tre industrie hanno ancora ampi spazi per espandersi e generare ricchezza, sostenute da fattori quali l’adozione sempre più capillare dell’infrastruttura tecnologica, la preferenza verso i servizi digitali da parte di un numero crescente di utenti, la scelta di sempre più imprese di gestire le loro applicazioni su piattaforme realizzate da Google o Amazon.
La pubblicità digitale, per esempio, rappresenta circa il 40% della spesa globale in advertising e le possibilità di personalizzazione e segmentazione che offre potranno far salire ulteriormente questa quota, a tutto vantaggio delle piattaforme digitali dominanti, Google e Facebook, che hanno attratto quasi tutta la nuova spesa in pubblicità digitale degli ultimi due anni. Forse ancora maggiori potenzialità ha il commercio elettronico, considerato che le vendite online sono solo il 14% delle vendite retail complessive negli Usa e il 9% in Europa occidentale, riporta il FT sulla base di dati di Goldman Sachs. In Cina, patria del colosso dell’ecommerce Alibaba, le vendite online sono già al 22% del totale. Ancora Goldman Sachsha stimato tramite un sondaggio che solo il 19% delle operazioni effettuate al computer dalle grandi multinazionali è stato trasferito sul cloud, anche qui con potenzialità di crescita per molti anni. Le aziende americane che offrono servizi IT, piattaforme digitali e inserzioni pubblicitarie – Apple, Google, Microsoft, Amazon e Facebook – sono anche le cinque maggiori aziende del mondo per valore di mercato a fine 2017.
Anche i giganti però possono scoprire di avere i piedi di argilla. Apple dovrà dimostrare di saper produrre utili anche da attività diverse dall’iPhone, Microsoft di potersi rendere indipendente dai Pc, Facebook di saper migliorare il controllo sui suoi contenuti, Google di poter conquistare nuovi mercati con le search ads. Per tutti ci saranno nel 2018 le questioni regolatorie: se l’Ue vigila in particolare su concorrenza e fisco, Washington ha inasprito lo scrutinio sulla vendita di pubblicità politiche e possibili ingerenze di paesi stranieri. Da questo punto di vista i concorrenti cinesi Alibaba e Tencent non hanno problemi: sono perfettamente allineate con i dettami di Pechino. Ma dovranno dimostrare di sapersi espandere al di là del gigantesco, ma chiuso, mercato nazionale.
Via CorCom
he Daily Beast è riuscita ad ottenere dei dati interni di Snapchat che mostrano come viene usato quotidianamente dai suoi utenti e che evidenziano le sue difficoltà. L’azienda di Evan Spiegel, che ha 178 milioni di utenti attivi giornalieri, nasce come un ibrido tra applicazione di messaggistica privata (one-to-one) e social media pubblico (one-to-many). Quello che i dati trapelati rivelano è che la maggior parte degli iscritti ama usarla come mezzo di comunicazione personale. Come si vede dal grafico gli utenti che quotidianamente mandano messaggi crescono, aggirandosi intorno ad 80/90 milioni.
Invece coloro che postano Snapchat Story rimangono nell’intorno dei 50 milioni di utenti, nonostante la crescita degli iscritti. C’è da dire che le visualizzazioni di queste storie crescono del 4,3% fino a toccare i 143 milioni, ma molto più lentamente di quanto fanno le iscrizioni. In agosto, il 64% degli utenti ha preferito mandare “snap” ad amici (in media 34 messaggi al giorno) più che pubblicare Storie. Quest’ultimo formato di contenuti, che garantisce una visibilità allargata, è stato copiato con successo da Instagram, che dichiara un uso da parte di 300 milioni di persone al mese.
Negli scorsi mesi Snapchat aveva provato a dare più visibilità ai contenuti prodotti tramite le storie, lanciando Snap Maps, una mappa per visualizzare le storie geolocalizzate, ma i nuovi dati svelano uno scarso utilizzo della funzione. A settembre solo 19 milioni di utenti, in media, avrebbero visualizzato la mappa (l’11% della user base).
Anche la funzione Discover, pensata per mettere in evidenza (a pagamento) le storie dei brand e dei publisher, non sembra essere molto gradita. In media solo il 20% degli utenti vi accede quotidianamente.
Al momento, stando così le cose, si spiega sia la debolezza del titolo in Borsa, sia perché la maggior parte degli inserzionisti preferisca investire su Instagram. Vedremo se l’imminente redesigndell’applicazione riuscirà a spingere le persone a postare più contenuti pubblici, che privati. Infatti solo negli spazi pubblici è possibile far transitare messaggi pubblicitari senza urtare la sensibilità degli utenti.
Via Vincos Blog
I brand potrebbero non essere ancora pronti a puntare grossi budget su Amazon, ma stanno studiando seriamente la situazione. Circa due terzi (63%) dei 250 marketer appartenenti al segmento b2c contattati nel sondaggio di Catalyst (GroupM) hanno dichiarato di voler aumentare i propri investimenti sulla piattaforma durante il prossimo anno. Il 54% dei rispondenti hanno detto di voler potenziare anche i budget su Google, mentre il 53% punterà su Facebook. La crescita della fetta di mercato di Amazon sarà causata, in parte, al fatto di essere una nuova piattaforma per molti advetiser. Solo il 15% degli intervistati ha dichiarato infatti di utilizzare tutti i prodotti pubblicitari di Amazon, mentre il 17% ha affermato di aver sviluppato sulla piattaforma una strategia pienamente definita.
L’ad business di Amazon supererà Twitter e Snapchat
Si prevede che le revenue pubblicitarie del colosso, negli USA, toccheranno 1,65 miliardi di dollari nel 2017. Molto meno di Google (35 miliardi) e Facebook (17 miliardi), ma più di Twitter (1,21 miliardi) e Snapchat (642 milioni – stime di eMarketer). L’advertising su Amazon sta crescendo più velocemente di ogni altro grande player pubblicitario, con un ritmo che toccherà il +48,2% nel 2018. Nel 2019, Amazon porterà le sue revenue a 3,19 miliardi negli USA, raggiungendo il 3% dell’intera spesa pubblicitaria globale.
Amazon si pone come un gigante nel processo d’acquisto
Amazon sta diventando tanto diffuso nella product search quanto Google lo è nelle ricerche online generiche. La maggior parte degli shoppers in USA, Germania, UK e Francia utilizzano Google (85%) per la ricerca prodotti e per lo shopping, ma il 56% di questi usa Amazon come starting point per cercare i beni da acquistare (dati di una ricerca di Kenshoo). Anche se i consumatori trovano su un altro sito il prodotto che intendono comprare, più della metà (51%) ammette di fare un controllo su Amazon prima di effettuare l’acqusto.
Le agenzie stanno aumentano la spesa su Amazon
Il ceo di WPP, Sir Martin Sorrell, è stato uno dei più grandi promotori di Amazon nel 2017. Speranzoso sul fatto che il marketplace possa spezzare il duopolio composto da Facebook e Google, Sorrell e i suoi hanno cercato di portare a casa più lavori possibili i cui budget fossero diretti verso la piattaforma. Questo cambio di strategia si è riflesso nelle manovre di WPP, che punta ad aumentare i suoi investimenti su Amazon del 40-50% – intorno a 300 milioni di euro – stando al WSJ. Anche Publicis seguirà la stessa strada, dedicando al marketplace nel 2018 il 50% in più rispetto all’anno in corso, per un totale di 300 milioni. Omnicom, invece, spenderà il doppio, toccando i 200 milioni. La maggior parte degli advertiser vogliono testare l’impatto della pubblicità su Amazon. “Ci hanno chiesto principalmente due cose: Che ritorno sull’ad spend ci aspettiamo? E quale sarà l’uplift incrementale generato dall’allocazione di ulteriori risorse su Amazon?”, ha dichiarato Andreas Reiffen, CEO della struttura specializzata in performance marketing Crealytics.
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