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  mymarketing.it: l'isola nell'oceano del marketing... di Admin
 
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Errare è umano, ma per incasinare davvero tutto è necessario un computer.

Arthur Bloch
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\\ : Storico : Social Networks (inverti l'ordine)
Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
Di Altri Autori (del 13/06/2014 @ 07:27:04, in Social Networks, linkato 1332 volte)

La pubblicità su Facebook diviene sempre più personale. Gli utenti americani di Facebook possono ora controllare e gestire meglio la pubblicità che ricevono sul social network, regolandola in base ai propri interessi e, nel caso, anche disattivandola. Lo annuncia una nota del colosso di Menlo Park, precisando che le novità riguardano il ricorso alla pubblicità basata sugli interessi (Interest-Based advertising) e lo strumento Ad Preferences, che “permettono rispettivamente di ricevere pubblicità più rilevanti in base ai propri interessi e di controllare e gestire in modo ancora più informato e consapevole i criteri che determinano la visualizzazione di uno specifico annuncio“.

In particolare, lo strumento Ad Preferences consente di capire perché si sta vedendo un particolare annuncio sul proprio diario e si possono anche consultare le categorie di interessi associate al proprio profilo che ne hanno determinato l’apparizione, aggiungendo o rimuovendo le categorie a seconda delle pubblicità che si desidera ricevere. La pubblicità può essere poi ulteriormente personalizzata da Facebook, utilizzando informazioni relative ai siti web, ai like, alle pagine e alle applicazioni mobili utilizzate dall’utente. Facebook assicura che questi nuovi strumenti sono improntati al massimo rispetto della privacy e che proprio per questo sarà possibile disattivare totalmente questo tipo di pubblicità, usando uno strumento messo a disposizione dalla Digital Advertising Alliance, supportata da FB e da altre 100 aziende. “Ad oggi questi cambiamenti riguardano solamente gli Stati Uniti, ma l’obiettivo – conclude la nota – è quello di un lancio globale nei prossimi mesi”.

Via Tech Economy

 
Di Altri Autori (del 01/07/2014 @ 07:15:42, in Social Networks, linkato 1706 volte)

«Clienti e social, maniere al bando. Rispondere con ironia umanizza l’azienda. E attira consumatori». Così titolava dieci giorni fa Italia Oggi, creando stupore e scalpore in tutta la Rete.

Il quotidiano riportava in realtà solo i risultati di uno studio con tanto di stemmi accademici, condotto da Gaia Rubera, docente di Marketing alla Bocconi di Milano, sul comportamento di alcuni brand su Twitter come Tesco Mobile. La compagnia telefonica inglese, infatti, «ha cominciato a replicare con scortesia e ironia alle rimostranze di alcuni consumatori». La conseguenza? Ha aumentato «di molto il numero dei propri follower», addirittura del 700%, e ha conquistato «mezzo milione di clienti», passando nel 2013 da 3,5 milioni a 4.  Clienti “veri”, dunque, che offline hanno scelto di usufruire dei servizi della compagnia. Alla faccia del «Convince&Convert»!

«Ma come?!?» si sono chiesti tutti. Stop alle buone maniere? Basta all’educatissimo (e molto britannico) «May I Help You?», tanto faticosamente imparato da Seth Godin?

Tre giorni dopo Il Fatto Quotidiano rincara: «Tesco Mobile, su Twitter l’antipatia è un successo. E conquista clienti». Spiega: «Agli utenti che si lamentavano del servizio sul social network, l’azienda ha risposto in modo sarcastico, antipatico, al limite dell’offesa». Questa «ruvida ironia», però, non solo «non ha danneggiato il marchio, ma gli ha permesso addirittura di incrementare esponenzialmente i suoi seguaci nel mondo virtuale e i suoi clienti nel mondo reale». È la strategia del «perdere un cliente per guadagnarne 500mila»: trattare con «brutalità» i «consumatori scontenti per attirare l’interesse degli altri visitatori della piattaforma digitale».

Non ci credete? Ecco un esempio. «Scarica immediatamente una ragazza se il suo gestore è Tesco Mobile», twitta Felipe. Che per tutta risposta si sente chiedere da Telco: «Sei veramente nella posizione di poter scaricare una ragazza?».

Incantevole freddura.

Dall’ancora più incantevole risultato: Felipe, rimasto spiazzato e così conquistato, è diventato un fan e si è visto poi arrivare a casa persino un ricco regalo dall’azienda, «per aver reagito così bene all’essere stato pubblicamente preso in giro su internet». Risultato? Altro che Customer Satisfaction: qui è amore! «Thank you @tescomobile for the gift», cinguetta Felipe, ormai perso per l’azienda: «much love for you!!».

Il tam-tam impazza in rete. Sui social network e nei blog la curiosità di addetti ai lavori e utenti lievita come un’onda. Ninja Marketing due giorni dopo rilancia: «La strategia Twitter di Tesco Mobile: prendi un cliente, trattalo male…». E lo dice chiaramente: «Dimenticate tutto ciò che pensate di sapere su Twitter e Customer Service. Abbandonate quel tono pacato con cui vi hanno insegnato a scusarvi per il disservizio e rassicurare il cliente». Tesco Mobile «conquista tutti con l’antipatia dei suoi tweet».

Ma come? Non si era predicata finora l’importanza assoluta di «cuore, amore, dedizione, spirito di servizio, “devozione”»? Di un «comunicare assistendo, assistere comunicando», in nome del principio «Understand them, THEN reply», «ascolta, POI rispondi»? Di un mettersi a disposizione così totalizzante da farsi carico prioritariamente della responsabilità dei problemi altrui – memori del «Bring us your problem» di Seth Godin?

Nessuna contraddizione.

Torniamo però ancora un momento a Tesco Mobile.

Che, non pago, usa la stessa strategia non solo coi clienti, ma anche con gli altri Brand. Una volta sfida il concorrente O2 a una rap battle a colpi di tweet. Un’altra ingaggia una storica conversazione con Yorkshire Tea e Jaffa Cakes. Ancora, di recente, lancia l’hashtag #BanishAverage, con uno spot che invita a trasformare le cose di tutti i giorni in esperienze incredibili.

Quello di Tesco non è in realtà il primo caso. «La migliore risposta di sempre sui social media», come è stata definita, spetta a un felice “cinguettio” di Smart USA a cui un utente, Clayton Hove, aveva indirizzato questo poco educato tweet: «Ho visto un uccello defecare su una Smart. L’ha sfondata». Risposta: «Non può essere stato solo un uccello. Più probabile che fossero 4,5 milioni. (Seriamente, abbiamo fatto il calcolo)».

Spiazzante.

Come l’infografica allegata, che mostrava con fare scientifico quanti uccelli dovessero fare i propri escrementi su una Smart per distruggerla: «4,5 milioni di piccioni, 360mila tacchini, 45mila emù».

Detto, fatto. Disarmato il detrattore. Che stranito e sorpreso, ma in realtà ammirato, non poteva astenersi dal riconoscere: «Outsmarted by Smart», ossia «Fregato dalla Smart».

In Rete ormai impazzano le discussioni, le ricondivisioni degli articoli sul tema, i rilanci – «Che cosa ne pensi?», mi viene chiesto più volte. Certo, la «brutalità» di certi interventi, al limite dell’offensivo, mal sembra conciliarsi con lo spirito “evangelico” del Social Care.

In verità, per chi scrive, nessuna sorpresa. Una riconferma, semmai, che arricchisce e impreziosisce ancora di più la necessità di quella #SocialEducation già più volte ribadita come prioritaria, come parte integrante del Social Caring: del principio del #DFTT, «Don’t feed the troll».

«La verità è che alcuni vogliono solo lamentarsi o trollare», sintetizza infatti Ninja Marketing. «E ci sono aziende, come Tesco Mobile, che hanno deciso di puntare su di loro per rilanciare la propria strategia social».

Prima però di esprimere con chiarezza il mio punto sul tema – caldo più di quanto si possa immaginare: se i Brand hanno intelligenza e spalle larghe per comprenderne l’importanza, potremmo essere a una svolta non solo nel Social Care, ma nelle forme e nei metodi di comunicazione con tutta la propria rete di contatti – la domanda è: che ne pensate voi? Come reagireste di fronte a un’azienda che, anziché stendersi a tappeto pronta a esaudire ogni vostro desiderio, vi prendesse bonariamente anche un po’ in giro, come farebbe un amico per scherzo e battuta (più o meno pesante)?

Via Tech Economy

 
Di Altri Autori (del 23/07/2014 @ 07:46:37, in Social Networks, linkato 1943 volte)

Fare shopping online direttamente su Facebook, con un semplice click sulla pubblicità di un prodotto. È la novità a cui sta lavorando il social network, che sul suo blog ha annunciato la sperimentazione del tasto «buy», in italiano «Compra», a corredo delle inserzioni delle aziende.

In pratica gli spazi pubblicitari acquistati su Fb diventeranno un canale diretto di vendita. Cliccando il tasto «buy», da computer o telefonino, l'utente potrà comprare all'inserzionista senza lasciare il social network. Il pagamento, assicura il colosso del web, sarà sicuro. «Nessuna informazione sulle carte di credito che gli utenti condividono con Facebook quando completano una transazione sarà condivisa con altri inserzionisti, e le persone potranno scegliere se salvare o meno le informazioni del pagamento per acquisti futuri». La sperimentazione è per ora limitata a piccole e medie aziende negli Stati Uniti.

L'azienda di Mark Zuckerberg aveva già annunciato all'inizio di quest'anno la volontà di rendere più efficace gli annunci social per finalità di marketing, anticipando anche l'introduzione del pulsante «Acquista ora».

Nel frattempo anche Twitter pare abbia avviato la sperimentazione di un pulsante simile, «Buy now» per aumentare il potenziale di e-commerce dalla rete sociale.

Via IlSole24Ore.com

 

Ancora novità per gli inserzionisti di Facebook: il social di Zuckerberg sta lavorando per consentire ai propri inserzionisti di vedere quali acquisti vengono fatti e su quali dispositivi. Il social network sta infatti lavorando ad uno strumento di reportistica “cross-device” ovvero un nuova funzionalità che consenta di vedere come effettivamente si muovono i consumatori quando passando da un device ad un altro, rilevandone le conversioni, ovvero “l’acquisto, la registrazione, l’aggiunta di un articolo al carrello o la visualizzazione di una determinata pagina”. In altre parole sarà possibile capire sia su quale dispositivo gli utenti vedano, ad esempio, annunci pubblicitari, e poi quale usino effettivamente per finalizzare l’acquisto. A motivare la mossa di Facebook vi è la crescente abitudine a usare device in modalità integrata per usi legati allo shopping.

Nei primi test i marketers hanno utilizzato il sistema di reportistica cross device per comprendere meglio il ruolo della telefonia mobile nelle loro campagne di adverstising e spiegare anche le differenze presenti negli strumenti di analytics elaborati di terze che non tengono in considerazione l’acquisto che si finalizza attraverso l’uso di più device.

Il monitoraggio è reso possibile tramite un piccolo frammento di codice chiamato “Conversion Pixel”. In pratica gli inserzionisti che vogliono vedere gli annunci a cui i consumatori sono stati esposti possono inserire questo codice all’interno di un sito o di un’applicazione. Attraverso questo strumento gli inserzionisti potranno vedere quante persone convertono la fruizione dell’annuncio nell’acquisto di un prodotto.

Facebook sostiene che il 32% dei consumatori che “hanno mostrato un interesse” negli annunci di Facebook sul cellulare acquistano qualcosa tramite la versione desktop entro 28 giorni. ”Monitorare i click e le loro conversioni effettive in acquisti ha confermato ciò che sappiamo già: gli annunci da mobile guidano il commercio in tutto il mondo” afferma Josh McFarland, CEO di TellApart, uno sviluppatore Facebook del gruppo Preferred Marketing, in un suo post sul blog.

L’industria dell’advertising ha affrontato la questione con un modello di marketing misto, che cerca di catalogare la gamma di annunci e le fonti online che un consumatore studia prima di effettuare un acquisto. Nielsen, ad esempio, attraverso il Multi-Touch Attribution tiene traccia di come i consumatori interagiscono con diverse forme di media, compresi i mobile, prima di acquistare qualcosa.

Via Tech Economy

 
Di Altri Autori (del 21/08/2014 @ 07:31:41, in Social Networks, linkato 2036 volte)

Se Andy Warhol avesse immaginato l’avvento di YouTube, avrebbe rivisto la sua profezia sui 15 minuti di celebrità alla portata di tutti. La stima è errata per difetto, a giudicare dai risultati di Felix Kjellberg, il volto più famoso sul portale web comprato da Google nel 2006 per 1,65 miliardi di dollari: conosciuto col nome di PewDiePie , ha 29 milioni di iscritti al suo canale video. Tanti quanti gli spettatori della finale dei mondiali del 2006, l’evento tivù più visto negli ultimi dieci anni in Italia. Un successo tale da far apparire il 24enne svedese sulle pagine del quotidiano americano “Wall Street Journal”, che stima i suoi guadagni in 4 milioni di dollari all’anno.

Kjellberg, che nei suoi video sperimenta e racconta ai suoi seguaci come funzionano i nuovi videogiochi, è la punta dell’iceberg del fenomeno degli YouTubers, come vengono chiamati in gergo i giovani e giovanissimi che si riprendono con una telecamera, montano un filmato e lo caricano online per catturare l’attenzione degli spettatori. Questi ragazzi a caccia di audience nascono col sito, nel 2005, ma è da maggio 2007 che tutto cambia, con l’introduzione del programma di partnership: dopo avere accolto le pubblicità nei video professionali, YouTube allarga la possibilità ai creatori indipendenti più seguiti, aprendo l’era delle star di Internet.

L’idea di base è semplice: chi carica video originali può stipulare un contratto per consentire di inserire spot pubblicitari e iniziare a guadagnare. Google trattiene il 45 per cento dei ricavi, mentre il 55 va all’autore della clip. È difficile stabilire con precisione i guadagni, che dipendono dal tipo di pubblicità (banner o video) e di posizione della stessa sulla pagina, dal Paese di appartenenza, dal prezzo di vendita per una campagna. Inoltre dato che il 75 per cento degli spot possono essere evitati, cliccando la scritta “salta” entro 5 secondi, e considerato che gli investitori pagano solo quando vengono visti per 30 secondi, è possibile stabilire soltanto una stima di guadagno lordo minimo e massimo, che va da uno a 15 dollari ogni mille visualizzazioni della pubblicità collegata al video originale. Per gli utenti con più audience il mercato è ghiotto: nel 2013 la raccolta globale di YouTube ha generato secondo eMarketer.com 5,6 miliardi di dollari, il 51 per cento in più rispetto al 2012. E gli YouTubers in grado di fare guadagni a sei cifre sono ormai migliaia.

tati Uniti ed Europa, dove il fenomeno è esploso prima, dominano il mercato, ma anche l’Italia ormai ha le sue star. Non c’è solo Marzia Bisognin, 22 anni di Vicenza, che seguendo Kjellberg in Svezia per amore ha aperto un canale in lingua inglese sui propri hobby e oggi, col nome CutiePieMarzia vanta 4 milioni di iscritti. Tra le celebrità c’è anche Francesco “Frank” Matano , 24 anni di Santa Maria Capua Vetere, che nel 2007 ha iniziato a pubblicare video di scherzi telefonici, fingendo di essere un bambino o una badante russa, ha sfondato con la sua comicità, e ora conta 932 mila iscritti. O ancora il romano Gugliemo Scilla, 26 anni, in arte Willwoosh , che dal 2008 si è costruito un pubblico di 602mila persone con show comici sempre più sofisticati in cui recita tutti i ruoli.

Col passare del tempo si sono differenziati anche i generi: oltre all’intrattenimento e alle video-parodie, che ad esempio rendono celebri il duo iPantellas (622mila iscritti), Francesco Sole (252mila) e altri, ecco la categoria del “fai da te”, con le ricette culinarie di GialloZafferano (139 mila), canale della 37enne Sonia Peronaci, o il make-up di Clio Zammatteo, 31enne di Belluno che su ClioMakeUp spiega come applicare fard e mascara ai suoi 698mila spettatori.

Un argomento molto cliccato di recente è quello dei videogame, come dimostra l’ascesa di Lorenzo Ostuni, 19 anni di Borgaro Torinese. Col suo nome d’arte FaviJ e i suoi 981mila iscritti, nel mese di giugno è stato inserito dal sito specializzato Tubefilter.com al 36esimo posto nella classifica dei 100 YouTuber più influenti al mondo, con 32 milioni di visualizzazioni al mese e un tasso di crescita del 47 per cento (la graduatoria è dominata da PewDiePie con 351 milioni). «Non mi sento famoso, ma solo uno che ha tanti amici», si schermisce Ostuni. «Ho cominciato per gioco nel 2011 a caricare video con i miei compagni di classe. Poi dal 2013 ho aperto un canale perché a molti piaceva il mio racconto dei videogame horror: la maggior parte dei miei fan ha dai 13 ai 17 anni e gli piace vedermi terrorizzato. I guadagni sono importanti, ma commisurati all’impegno: per realizzare un video impiego sei ore».


La celebrità acquisita può essere spesa fuori dai confini di Internet: Frank Matano è finito nel cast de “Le Iene” in tivù e poi a girare commedie per il cinema, come Willwoosh, che ha lavorato anche in radio e pubblicato un libro, mentre Sonia Peronaci ha avuto il suo programma e i suoi spot in televisione, e Clio Zammatteo si è divisa tra schermo ed editoria.

Per gestire questi talenti sono nate le prime agenzie e i cosiddetti “multi channel network”, come vengono chiamati i produttori di più canali, destinati sempre alla piattaforma video. A dare un’idea del business può bastare la recente acquisizione da parte di Disney del network Maker Studios (380 milioni di iscritti, 5,5 miliardi di visualizzazioni al mese), per una cifra di 500 milioni di dollari più bonus di 450 ad obiettivi raggiunti.

«Cerchiamo talenti sul web, come utenti Facebook con un vasto seguito, e tentiamo di trasferire il loro successo su YouTube», spiega Giovanna Avino, responsabile italiana di Divimove, uno dei maggiori network europei, «oppure mettiamo a disposizione dei nostri YouTubers studi televisivi con attrezzature professionali». È quanto fa la stessa YouTube, che ha già aperto studi di produzione a Los Angeles, New York, Londra e Tokyo, perché video dalla confezione più professionale attirano più spettatori. «Infatti quando le clip diventano virali, vengono spinte da Google in cima ai risultati di ricerca, generando sempre più clic e ricavi pubblicitari», spiega Avino.

«Cerchiamo tutto il giorno i talenti di domani», racconta Luca Casadei, che con l’agenzia Web Stars Channel gestisce tra gli altri Fancazzisti ANOnimi (347 mila utenti) e Leonardo Decarli (271 mila). «Poi iniziamo a farli emergere, ad esempio con comparsate insieme a colleghi già noti. Oggi puntiamo su 13 artisti, ma ne stiamo coltivando più 100 in attesa che esplodano», dice Casadei. «È impossibile costruire un artista da zero», avverte il conduttore televisivo e rapper Francesco Facchinetti, che con NewCo Management gestisce Matano e Sole, «perché è la rete a decidere se funziona o meno. Però una volta individuato un talento possiamo aiutarlo a consolidare il numero di visualizzazioni, anche se non si possono scrivere i testi di uno YouTuber, perché il segreto è la spontaneità». «Nessuno potrebbe montare i miei video, conoscere i miei tempi comici», gli fa eco FaviJ, «e se i fan si accorgono che non sei genuino il rischio è perderli tutti».

Ma quanti ragazzi ne hanno fatto davvero un lavoro? «L’Italia è il terzo mercato dopo Inghilterra e Francia», spiega Facchinetti, «e quelli che guadagnano da 2-3mila euro a 20-30mila euro al mese non sono più di cinque o sei». «Per trasformare un hobby in lavoro passano anni e bisogna raggiungere almeno 450mila iscritti», conferma Avino. Quello che però non si dice è che oltre alla pubblicità di YouTube, ce ne può essere una più o meno occulta, quando lo YouTuber accetta di mostrare un prodotto in video, farne una recensione o girare una telepromozione. «Il confine è molto labile», commenta Facchinetti, «ma le aziende hanno capito che si vende di più se un videogame appare in un video di PewDiePie che in uno spot durante la finale del Super Bowl. Il mercato italiano però è ancora immaturo e molte offerte vengono respinte al mittente per paura che il pubblico si disaffezioni». «Mi hanno proposto di parlare di alcuni giochi», conferma FaviJ, «ma ho rifiutato perché i miei fan non capirebbero un cambio di stile e contenuti». «Le aziende iniziano a capire che lo scambio di opinioni è molto intenso e ci propongono di provare in anteprima i loro videogame. Ma io dico che un gioco non mi piace anche se magari non fa piacere all’azienda», spiega Francesco Gentile, in arte Johnny Creek, 27 anni di Torino, inventore del canale in ascesa Melagoodo (310mila iscritti), che nel nome spiega la sua filosofia di vita. «Ci possono entrare tutti e l’ho lanciato per passione e non per soldi: al massimo tiro su 400 dollari al mese».

Mentre l’industria dei media inizia ad accorgersi del fenomeno, come dimostra l’accordo firmato da Divimove con Fremantlemedia, che produce show come “X-Factor” e “American Idol”, bisognerà vedere se gli YouTubers resisteranno in rete oppure no. Da una parte c’è la promessa di accedere al grande pubblico nazionalpopolare della tivù, dall’altra c’è l’incognita dei guadagni promessi dal web, messi a rischio dall’aumento esponenziale del numero degli YouTubers. E poi, man mano che diventano adulti, i ragazzi di maggior successo potrebbero stufarsi del loro hobby: «Il mio sogno è fare il montatore cinematografico, anche se mi piacerebbe continuare a caricare i miei video su YouTube», dice FaviJ. «Non ho mai pensato di diventare uno YouTuber a tempo pieno», ammette Creek, «ma mi piacerebbe organizzare eventi che ruotano attorno ai videogame».

Ma il pubblico, oggi per lo più composto da giovanissimi, da adulto vorrà ancora vedere show spesso molto improvvisati? «Penso di sì, perché gli adolescenti che ricevono il primo cellulare, una volta acceso YouTube, dimenticano per sempre l’esistenza della tivù», spiega Casadei. Facchinetti è fiducioso: «La nostra scommessa è allargare il pubblico a fasce di età più alte e fare diventare questi ragazzi le star di domani, portando tivù, cinema e musica sulla rete. Penso che ce la faremo».

Via L'Espresso

 
Di Altri Autori (del 03/09/2014 @ 07:19:57, in Social Networks, linkato 1604 volte)

I dati demografici degli utenti dei social network stanno cambiando: le vecchie reti sociali stanno ormai raggiungendo la maturità, mentre le applicazioni di messaggistica social più recenti stanno guadagnando rapidamente gli utenti più giovani. In un nuovo rapporto di BI Intelligence la società ha provato ad analizzare più di una dozzina di fonti che, in questi anni, hanno fotografato il popolo dei social media per capire come si stanno ridefinendo nel tempo.

Quello che emerge è che Facebook, Google, Twitter, LinkedIn e persino Pinterest sono diventati più dipendenti a livello globale dalla fascia di età rappresentata dai 25-34enni mentre altri social, come Snapchat e Tumblr, rimangono fortemente “abitati” da adolescenti e giovani adulti. Ecco le principali evidenze riscontrate dall’analisi.

Facebook è al femminile: le donne negli Stati Uniti sono più propense a usare Facebook rispetto agli uomini di circa 10 punti percentuali, secondo un sondaggio del 2013 sull’adozione dei social network. Facebook rimane il social network top per gli adolescenti degli Stati Uniti a dispetto di tutto. Quasi la metà degli adolescenti utenti di FB dichiara che sta usando il social di Zuckerberg più dello scorso anno e Facebook conta più utenti attivi adolescenti al giorno rispetto a qualsiasi altra rete sociale.

Detto questo, Instagram ha raggiunto, se non superato, Facebook e Twitter in termini di prestigio tra i giovani utenti. Gli adolescenti americani descrivono ora Instagram come il “più importante”, mentre Facebook e Twitter hanno perso terreno su questa misura, secondo un sondaggio sui teenager di Piper Jaffray. L’indagine ha inoltre rilevato che l’83% degli adolescenti americani in famiglie benestanti sono su Instagram.

LinkedIn è in realtà più popolare di Twitter tra gli adulti americani. Il nucleo demografico del social “professionale” è rappresentato da utenti di età compresa tra 30 e 49 anni, che corrisponde agli anni della maturità lavorativa. E non sorprende che LinkedIn abbia anche una marcata inclinazione verso gli utenti istruiti.

Twitter ha iniziato ad avere più utenti di sesso maschile, mentre in precedenza era un social network con “equilibrio di genere.” Pew Research ha rilevato che il 22% degli uomini usa Twitter, contro solo il 15% delle donne.

YouTube raggiunge il maggior numero di adulti tra 18 a 34 di ogni altra singola rete televisiva via cavo. Quasi la metà delle persone in questa fascia di età ha visitato YouTube tra dicembre 2013 e febbraio 2014, secondo Nielsen.

Snapchat, infine, è il più giovane di tutti i social network: sei su dieci utenti sono nella fascia di età 18-24 anni rispetto al 28% degli utenti di Instagram stando ad un sondaggio condotto dalla Informate.

Via Tech Economy

 

Secondo uno studio effettuato da Aol Platforms quando si tratta di pubblicità a pagamento sulle piattaforme sociali YouTube è il vincitore: è quello che maggiormente introduce nuovi prodotti e aiuta i consumatori a prendere decisioni di acquisto. Il rapporto, che ha analizzato i dati ricavati da 500 milioni di click e 15 milioni di conversioni durante il primo trimestre del 2014, ha rintracciato le interazioni di acquisto social attraverso la tecnologia di analisi di Convertro. Il tutto per stabilire il grado di penetrazione della pubblicità social sulle vendite on-line e il tasso di influenza sul consumatore.

Jeff Zwelling, CEO e co-fondatore di Convertro, spiega a VentureBeat: “YouTube ha un tipo di ricerca e di posizionamento preferenziale rispetto ai risultati di Google che aiuta a destreggiarsi in grandi quantità di traffico. Ma quando si arriva a YouTube, per conoscere le caratteristiche dei prodotti, il contenuto è ricco, descrittivo e di solito disponibile“. A titolo di esempio Zwelling spiega: “recentemente ho comprato una macchina per il caffè. Avevo fino a tre alternative e non riuscivo a decidere quale fosse la migliore. Alla fine, ho visto i video su YouTube di persone che utilizzano tutte e tre le macchine e ho scelto il modello che rappresentava al meglio la mia idea di una buona macchina per il caffè“.

Esistono vari step per un acquisto online dove il ruolo delle piattaforme social produce un effetto positivo.

Valutare un prodotto attraverso i social media è considerata la ‘prima’ tappa della decisione di acquisto. Il ‘centro’ del ciclo di acquisto è rappresentato dagli annunci re-targeting o altre iniziative di marketing. Nell’ultima fase, i consumatori spesso cercano il prodotto che hanno studiato nella prima fase o che hanno osservato su altri siti e ora sono pronti ad acquistare. È importante sottolineare, però, che i consumatori non seguono questo percorso in modo lineare, gli acquisti vengono effettuati in tutte le fasi del processo.
Lo studio di Aol Platforms dimostra che YouTube è più “forte” sia nell’introduzione di nuovi prodotti sia nella “chiusura” della vendita: una forza confermata soprattutto per il comparto mobile. Facebook è la seconda migliore piattaforma per le presentazioni e gli acquisti, con Google+ in terza posizione.

funnel-position-social-networkTwitter, invece, si presenta come la piattaforma peggiore per le presentazioni dei prodotti: nove volte meno efficace di YouTube. È anche peggiore nell’ultima fase del ciclo di acquisto mentre è incredibilmente forte durante la fase centrale. In particolare, lo studio mostra una differenza sconcertante tra i tweet a pagamento e i tweet semplici di presentazione di un prodotto. Il report sostiene che solo l’1% dei tweet cosiddetti “organici”, ovvero non a pagamento, di prodotti conduce a una decisione di acquisto diretto. Ma cosa succede quando si sponsorizza un tweet?
Su Twitter, pagare per un tweet significa che il tweet ha 30 volte più probabilità di portare ad un acquisto diretto, senza per questo comportare interazioni con gli altri utenti o ulteriori ricerche, e più di cinque volte più probabilità di introdurre un prodotto a un nuovo cliente. Promuovere tweet aiuta anche nell’ultima fase del ciclo di acquisto, con un incremento di tre volte il tasso di conversione.

Lo studio mostra risultati simili con i messaggi sponsorizzati su Facebook e Pinterest: portano a una crescita del 25% delle conversioni in pratiche di acquisto. Ma attenzione alle categorie merceologiche, non tutte funzionano allo stesso modo: cibo, bevande, abbigliamento e accessori se la cavano meglio attraverso i messaggi commentati dagli utenti e peggio attraverso i messaggi sponsorizzati, più efficaci per i prodotti tecnologici.

Via Tech Economy

 
Di Altri Autori (del 23/09/2014 @ 07:16:13, in Social Networks, linkato 1287 volte)

Facebook ha nuovamente messo mano alla propria home page: il social network sta provando da diverso tempo a raggiungere un equilibrio nel sistema di selezione dei contenuti condivisi sulla sua piattaforma che sia in grado di porre sempre davanti agli occhi degli utenti i contenuti più interessanti o in grado di farli partecipare in modo più attivo.

Il nodo della questione è l'algoritmo di gestione delle notizie che appaiono sulle bacheche dei propri amici: da ultimo il social network era intervenuto per limitare l'impatto in bacheca dei cosiddetti link mangia-click, prima ancora mettendo in evidenza notizie e discussioni.

L'ultimo intervento sembra guardare ai racconti in tempo reale: per favorire la condivisione di contenuti d'attualità, Facebook ha scelto di mettere in evidenza nel news feed degli utenti tutti quei post legati ad eventi specifici, rilevanti o in diretta. Una mossa che a prima vista sembra puntare al tipo di coinvolgimento che anima utenti di Twitter, ed ai Trending Topic.

Per farlo, Facebook darà ai post un'importanza variabile nel tempo, a seconda del numero di persone che sta commentando o condividendo notizie sul medesimo argomento e a seconda dei tempi per cui l'argomento sa tenere banco. In pratica, se l'attenzione su un argomento scema, l'algoritmo del social network dedurrà che non è più così importante e ne diminuirà la rilevanza e il conseguente posizionamento nei news feed.

Via Punto Informatico

 
Di Altri Autori (del 24/09/2014 @ 07:17:03, in Social Networks, linkato 1848 volte)

L’Osservatorio Brands & Social Media, realizzato da OssCom - Centro di ricerca sui media e la comunicazione dell’Università Cattolica - e Digital PR, pubblica il sesto report, dedicato al settore della Grande Distribuzione Organizzata (GDO) e non specializzata. Venti i brand analizzati, selezionati fra i principali all’interno del mercato consumer italiano.

Leader di classifica è Carrefour, con 55,2 punti, seguito a distanza da Lidl con 43,1 punti e Coop con 38,7 punti. All’interno della classifica il settore presenta alcuni brand che spiccano per un uso attivo dei social media (Carrefour, Lidl, Coop ma anche Iper), con una coda lunga di molti brand che non riescono a superare i 30 punti, a segnalare uno scarso investimento da parte della GDO in questi ambienti comunicativi. La piattaforma che domina è Facebook, mentre sia Twitter che YouTube non paiono luoghi dove i brand riescono a esprimersi e connettersi con i propri consumatori. Da rilevare, invece, una diffusa tendenza a utilizzare le applicazioni per smartphone e tablet, offrendo servizi di geolocalizzazione e informazione sui punti vendita, ma anche cataloghi di prodotto, nella maggior parte dei casi in forma di volantini digitali, e funzioni di lista della spesa virtuale o di consultazione dei dati della propria carta fedeltà.

Carrefour guida la classifica grazie a un presidio intensivo di tutte e tre le piattaforme su cui è presente il brand (Facebook, Twitter e YouTube), sfruttando anche quegli eventi, come i Mondiali di calcio, in grado di coinvolgere un ampio pubblico per proporre offerte speciali e contenuti ad hoc. Dal punto di vista dell’interazione, i profili registrano un numero molto elevato di commenti, condivisioni e like. Lo stesso si può dire di Twitter, che registra un numero di retweet mediamente molto elevato rispetto agli altri brand, mentre YouTube viene presidiato in modo costante, aggiornando frequentemente i video. Carrefour sembra quindi in grado di sfruttare i social media senza relegarne nessuno allo status di vetrina, anche in assenza di un adattamento forte dei contenuti alle specificità di ogni piattaforma.

Seconda in classifica Lidl, che eccelle nel presidiare Facebook grazie a un’interazione molto  elevata sia in termini di like che di commenti. Mentre YouTube appare come un archivio di contenuti ancora da sfruttare appieno, il presidio intensivo del più diffuso Facebook e le elevatissime performance ottenute sono in grado di far emergere il brand come una delle community di utenti più attive: si assiste infatti sia a una risposta frequente degli utenti alle domande e agli stimoli anche ludici del brand, sia a un’intensa relazione tra gli utenti stessi.

Primo tra i marchi nazionali e terzo nella classifica generale, Coop è una delle poche grandi realtà di questo campione che dimostra di avere una comunicazione strutturata. Il brand pubblica post a cadenza quasi quotidiana e interviene frequentemente nelle conversazioni. I contenuti vertono meno sulla promozione di prodotto e più sulla tematizzazione della comunicazione: dalle iniziative ecologiche e sociali alla celebrazione di eventi nazionali. Da sottolineare anche un uso peculiare di Twitter, che, nel periodo di analisi, vede il brand più come osservatore e amplificatore dei contenuti proposti dagli utenti. Oltre che per la coerenza complessiva della comunicazione, Coop eccelle  sulla piattaforma video di YouTube attraverso contenuti ad hoc, come le video pillole e il coinvolgimento degli utenti intervistati per la campagna promozionale in corso.

"Rispetto a tutti i settori analizzati fino a oggi, la GDO si presenta peculiare per due ordini di motivi: da una parte per l’uso di un numero molto ridotto di piattaforme, ascrivibile alla necessità di raggiungere un target nazionale o locale ampio e generalista di consumatori, dall’altra per un utilizzo spiccato del mobile che consente ai marchi di rimanere sempre connessi con gli utenti-consumatori - spiega Piermarco Aroldi, direttore di OssCom -. La diversità delle performance ottenute tuttavia, non si spiega soltanto con la diversità dei mercati di riferimento, ad esempio nei casi di catene più legate alla dimensione locale, ma anche con la capacità di adattare la propria comunicazione alle forme e logiche di queste piattaforme”.

“Quello della GDO - dichiara Nicolò Michetti – è un settore che mostra ampi margini di crescita e sviluppo nella comunicazione con i social media. Le opportunità di connessione offerte sono molteplici, e alcuni brand si dimostrano particolarmente attivi e capaci di sfruttarle; restano tuttavia molti marchi, come Esselunga, Famila, A&O, PAM e Sisa, solo per citarne alcuni, che potrebbero presidiare in modo efficace queste piattaforme, attuando strategie che siano in grado di coinvolgere gli utenti per formare comunità di consumatori che si scambiano informazioni e consigli sui prodotti e sulle offerte all’interno degli spazi della marca.”

La ricerca, che si propone di analizzare la comunicazione sui social media di alcuni dei più rilevanti brand nazionali e internazionali presenti sul mercato italiano, si avvale di una metodologia in grado di cogliere con precisione uno scenario comunicativo dinamico e sempre in evoluzione grazie a più di 60 diversi indicatori relativi alle variabili di esposizione, di coerenza e di interazione con il pubblico. Per questo report il campione dei brand della GDO più rilevanti sul mercato italiano è stato definito a partire dai fatturati dei maggiori gruppi, selezionando all’interno dei principali gruppi quei marchi con almeno un profilo ufficiale sui social media. La rilevazione dei dati è relativa al mese di maggio 2014 e sono stati analizzati i profili rivolti al mercato italiano.

Via iPress

 

 

Ancora non buone notizie per il social commerce: se i recenti numeri di Capgemini disegnano un panorama in cui i social media sono visti come una componente meno importante del percorso di acquisto rispetto a due anni fa, anche e-Marketer, riportando dati di Harris Poll per DigitasLBi sul mercato Usa, non fornisce dati confortanti. A dispetto degli sforzi dei colossi, l’ultimo quello di Twitter che ha aggiunto il tasto buy ai Tweet, non sono molti gli utenti americani che compiono l’ultimo passo verso il social-acquisto: al momento solo il 5% degli utenti Internet adulti ha fatto un acquisto su un social network come Facebook, Twitter o Pinterest. Secondo i ricercatori però, questi dati rivelano ”l‘enorme potenziale inutilizzato di crescita che c’è nel commercio social, soprattutto tra i consumatori più giovani“, spiega Tony Weisman, CEO, DigitasLBi Nord America. “Il 5% di americani che hanno effettuato un acquisto su un sito di social media equivale a circa 14 miliardi di dollari di fatturato di vendita al dettaglio on-line. Se saremo in grado di raggiungere il 20%, la cifra scalerebbe a 56 miliardi dollari. Per attivare questo potenziale, i marchi e le reti sociali hanno bisogno di fornire esperienze di social shopping che soddisfino le esigenze dei consumatori, compresa la sicurezza sui dati finanziari, privacy, e un processo di acquisto senza soluzione di continuità.”

Infatti sulla base della ricerca, migliori misure di sicurezza potrebbero motivare i social networker ad acquistare attraverso i social: il 42% degli utenti ha dichiarato che sarebbe più propenso a fare un acquisto se sapesse che le informazioni di credito sono sicure, mentre il 38% dichiara che avere la certezza che gli acquisti non sarebbero condivisi, farebbe aumentare la probabilità di portare a termine l’operazione. Eppure, a sottolineare estrema “mobilità” sul tema anche da parte degli acquirenti, nonostante molti mostrino un desiderio di sicurezza, circa un quarto degli intervistati ha dichiarato che non avrebbe problemi a comprare pur sapendo che il brand in questione potrebbe conoscere e tracciare la loro storia d’acquisto.

Età del campione e prezzo dei prodotti papabili sono gli altri due ambiti di riflessione su cui si sofferma la ricerca:  i giovani tra i 18 e i 34 anni sono quelli più propensi a fare un acquisto attraverso social media anche rispetto ai 35enni  (11% contro il 3%, rispettivamente.) Sul fronte prezzi, un terzo degli intervistati si dichiara disponibile a fare un acquisto se il totale dello shopping non superasse i 25 dollari e ulteriori risposte indicano che il costo sicuramente ha un’influenza elevata nella motivazione o meno alla spesa: il 35% sarebbe disposto ad utilizzare un  hashtag se ciò significasse ottenere uno sconto.

Via Tech Economy

 
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