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Errare è umano, ma per incasinare davvero tutto è necessario un computer.

Arthur Bloch
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Articoli del 12/03/2015

Di Gianluigi Zarantonello (pubblicato @ 09:00:00 in Digitale, linkato 1448 volte)

Noi italiani siamo un popolo che vive per sua fortuna da sempre immerso nel bello, grazie al nostro straordinario patrimonio artistico e al gusto e alla capacità di lavorare sull’estetica di eccellenza che il mondo ci riconosce.

Design Digital

Inoltre i millennials, nel mondo intero, sono sempre più stimolati dall’elemento visivo a discapito in parte del testo e di contenuti meno velocemente fruibili (passatemi la generalizzazione, perché non è sempre vero, e non per tutti).

Naturale quindi che la cura dell’estetica di una presenza aziendale in un ecosistema digitale e fisico sia cruciale e che dunque, come ho scritto nel titolo, l’immagine sia tutto. A patto che ci sia già il resto.
Mi spiego subito, e su più fronti.

L’estetica oggi è anche ergonomia

Prendete tutto il mondo Apple, e in particolare iOS, dove una cura maniacale del dettaglio ha dato vita però non solo a qualcosa di bello ma anche ad una rivoluzione in cui il touch è diventato lo standard dell’uso dei cellulari.

Questo perché è bello ma anche perché è facile, i bambini prendono in mano questi strumenti e ci giocano senza dover capire nulla.
Quindi, non è bello ciò che bello ma è bello ciò che funziona, e bene.
Senza nemmeno spingermi nel mondo della multicanalità e dei servizi avanzati, quanti siti grafici, spettacolari e…inutilizzabili vi ricordate di avere incontrato? Io tanti.

L’idea è ciò che rende una tecnologia e un’iniziativa vincente

Un nuovo strumento può essere bello, accattivante, seducente ma poi deve risolvere (o creare) un bisogno, un problema, un’opportunità.
Non è così immediato come sembra da capire, perché la tentazione di seguire la moda è forte, ma non conosco nessun progetto vincente dove una superba esecuzione (fondamentale) sopperisca al vuoto di un concetto vincente.
E attenzione che la delusione, se la promessa è portata ad alto livello con una perfetta estetica, è ancora più forte se poi non siamo all’altezza.

Non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che si può misurare

Il concetto stesso di bello porta con sé un grado più o meno alto di soggettività, che ovviamente fa sì che non tutti si trovino d’accordo con quanto proposto in termini di estetica.

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Immagine tratta da http://www.svegliamuseo.com

Se è vero che non si può piacere a tutti è dunque altrettanto giusto ricordare che oggi il successo si può misurare, e in dettaglio: ecco che quindi a “bello” si deve affiancare “che funziona”.
È un eterno gioco di compromesso, inutile dirlo, ma pensare di non porsi il problema di capire davvero come un’iniziativa vada e di non correggere almeno in parte il tiro se fosse necessario mi sembra un suicidio.
Suicidio che non credo sia davvero così raro incontrare.

E allora come la mettiamo?

Ri-sgombro subito il campo: la qualità visiva ed estetica in generale di un’iniziativa oggi è un fattore cruciale, e i nostri nuovi consumatori nativi digitali fanno fatica a concepire che qualcosa che gli venga dato in tempi veloci non sia anche perfetto.
Tuttavia in questa perfezione attesa c’è come parte integrante la facilità di uso, la rilevanza dei contenuti, la gratificazione dell’esperienza e non può bastare per questo solo una bella facciata.
Paradossalmente, ciò che è solo estaticamente bello è quindi più facile da realizzare senza la restante parte del valore che ci si aspetta ed è anche a più alto tasso di insuccesso, che spesso però non viene realmente misurato e quindi percepito.

Se parliamo di marketing (ma non solo) il protagonista del futuro è come quello di questa immagine: per metà un tecnologo e per metà un artista.
Sir Martin Sorrell dice che “The marketing future belongs to just two groups: technicians and magicians“.
Ve la sentite di smentirlo?

Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com

 
Di Altri Autori (pubblicato @ 07:36:57 in Retail, linkato 1747 volte)

Il modo migliore per capire la profondità del cambiamento in atto nel retail, la vendita al dettaglio, è rivolgersi a chi questo cambiamento lo vive (e vivrà sempre di più) da protagonista, racconta Emilio Bellini – direttore scientifico Distribution & Retail Corporate, Mip Politecnico di Milano –: «Discutendo con i miei studenti di consumer experience sono loro a confermarmi che nei negozi tradizionali si annoiano».

Il “vecchio mondo” del retail, in declino, è quello della boutique come puro terminale della vendita. Oggi sta cambiando tutto, e a dirlo non sono, ovviamente, solo i giovani ma le classifiche più importanti del marketing mondiale, tra cui il ranking Interbrand, che mostra come a scalare i vertici nell’ultimo decennio sono stati i marchi che hanno operato una rivoluzione copernicana, togliendo dal piedistallo il “bene” e sostituendolo con il “servizio”, ovvero la “consumer experience”. Lo confermano i top CxO del settore intervistati da Ibm nell’ambito della sua ricerca annuale sul retail per capire l’evoluzione dei merchant, così commentata da Bellini: «Tutti i marker incrociati indicano che i brand più forti dell’ultima decade, i vari Nike, Apple, Starbucks, Ikea, oltre ai colossi digital come Amazon e Google, hanno messo al centro della propria strategia di business il cliente, quella in cui è fondamentale stabilire una relazione di «customer intimacy», e in questa direzione stanno concentrando quote sempre più rilevanti di investimenti».

A pensarci bene, l’Applestore è stato il primo esempio del nuovo scenario: nato come un moderno negozio hi-tech, in pochi anni è diventato una miniera di servizi e informazioni che accompagnano e intrattengono il consumatore nel suo journey (viaggio) di acquisto. «La nuova mission è rendere la vendita un’esperienza indimenticabile – spiega Stefania Filippone, senior director e business development consumer goods e retail di Avanade Italy –: tutte le nostre ricerche indicano che il vecchio paradigma one-to-many non funziona più, oggi vince l’one-to-one, e quindi bisogna ingaggiare i consumatori con servizi innovativi e divertenti profilati singolarmente». Benvenuti nell’epoca del digital retail, dove proprio Avanade (joint venture Accenture e Microsoft) è attiva con novità come quella per MontBlanc in Spagna, una soluzione Grab&Go che estende virtualmente l’orario di apertura del punto vendita (ma l’azienda porterà a breve anche in Italia una soluzione di connected retail per un top brand della Gdo ancora top secret). La parola d’ordine del futuro è omnicanalità: fine dell’obsoleto dualismo tra marketing e tecnologia e convergenza di entrambi in un flusso di servizi super-tech al consumatore, come richiesto dall’era del mobile commerce grazie alla connessione internet 24/h, ai social e al vulcano in continua eruzione dei big data – il vero tesoro che richiede strumenti analitici sempre più sofisticati per intercettare gusti e tendenze –. Va letto in quest’ottica il dato dell’ultima ricerca dell’Osservatorio sull’Innovazione Digitale nel Retail, che nel 2014 attesta proprio l’impennata al 62% del merchant multicanale: percentuale dei brand che sono passati dalla logica binaria del canale fisico vs. canale virtuale a quella multipla del multicanale integrato.

La ricerca mostra anche che i merchant vogliono arrivare in fretta all’omnicanalità, scenario in cui l’esperienza di acquisto è un viaggio seamless (fluido) dove ogni fase fa parte di un processo integrato distribuito nelle 24 ore ed esperito attraverso una pletora di canali e piattaforme. «Nella MadeIn Lab Library dell’Osservatorio ci sono le 50 aziende più innovative dell’anno nel retail, e queste non investono solo in tech o in marketing – conclude Bellini –, e quindi non solo sul come o sul cosa di un prodotto o servizio, ma sul perché: la vera posta in gioco è capire il significato della vendita, che non è più la semplice circolazione di beni-servizi, ma un complesso paradigma economico-relazionale con implicazioni socio-culturali in continua ridefinizione ». Tra gli esempi recenti di innovazione ci sono le boutique di vestiti attrezzate con i primi camerini dotati di magic mirror, specchi virtuali che mostrano il capo di abbigliamento sull’avatar scannerizzato del cliente, coadiuvati da assistenti armati di tablet e app capaci di intercettare i gusti sui social. È il caso dell’americana Werby Parker, vincitrice del «Retail Innovator of the Year Award» 2015, premiata per la radicale innovatività nell’optical retail: prova virtuale dei modelli, store-zoning e cross-canalità sfrenate. Fama di innovatore nel settore se l'è guadagnata anche Nespresso, che ha ridefinito il concetto (il Why) della consumer experience della tazzina: i coffee-lovers sono accolti dal Club Members per condividere le esperienze, con la possibilità di accedere alle aree self service degli store che, con tecnologia Rfid, permettono di ritirare direttamente in-store gli acquisti. In Italia ci si muove ancora a macchia di leopardo, con il fashion a tirare il gruppo (Cucinelli, Ferragamo e Prada in testa): tra le novità nel digital retail, lato Gdo, c’è il “Warehouse in a box” – il magazzino in scatola –, sviluppato da Wib Machines per Coop e appena inaugurato a Catania: una macchina per la vendita automatica evoluta capace di gestire un catalogo molto ampio con alimentari, vini, accessori, cosmetici e altro. Si può acquistare in loco oppure online con ecommerce da pc, tablet o smartphone, e ritirare i propri acquisti in qualsiasi momento, 24h/7.

Via IlSole24Ore.com

 

Fotografie del 12/03/2015

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