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Errare è umano, ma per incasinare davvero tutto è necessario un computer.

Arthur Bloch
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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Max Da Via' (del 17/10/2017 @ 07:34:51, in eCommerce, linkato 1736 volte)

Anche quest’anno, puntuale come il Natale, la School of Management del Politecnico di Milano ha presentato in collaborazione con Netcomm i dati relativi all’ultima edizione dell’Osservatorio eCommerce B2c. E come ogni anno, proprio come a Natale dopo aver ricevuto i regali, iniziano i commenti su quanto emerso dall’ultimo report presentato dal PoliMi. I dati presentati sono ovviamente positivi e se così non fosse ci sarebbe davvero da preoccuparsi: il valore degli acquisti online da parte dei consumatori italiani raggiunge nel 2017 i 23,6 miliardi di euro+17% rispetto al 2016. Il tasso di penetrazione totale degli acquisti online sul totale retail, passa dal 4,9% del 2016 al 5,7% del 2017 con i Prodotti al 4% e i Servizi al 9%. Se paragonati ad altri mercati europei i numeri sono ancora molto bassi e dimostrano come molte aziende italiane ancora non abbiano iniziato a sfruttare al meglio i vantaggi della vendita online. Tuttavia, il livello del tasso di penetrazione, basso se paragonato a UK (19%), Germania (14%) e Francia (12%), evidenzia un larghissimo margine di crescita che sicuramente avrà un importante ruolo anche nel rilancio dell’economica del Paese nei prossimi anni.

Gli online shopper italiani, ossia i consumatori che hanno effettuato almeno un acquisto online durante il 2017, toccano cifra 22 milioni e crescono del 10% rispetto al 2016. Tra questi, gli acquirenti abituali, quelli che effettuano almeno un acquisto al mese, sono 16,2 milioni e generano il 93% della domanda totale ecommerce (a valore), con un ticket medio annuo di 1.357 euro. Gli acquirenti sporadici sono invece 5,8 milioni e generano il restante 7% della domanda ecommerce, spendendo mediamente 284 euro all’anno.

«Nel 2017 l’ecommerce mondiale è stato caratterizzato da diversi fatti particolarmente significativi. Tra questi ricordiamo le alleanze stipulate da alcuni grandi merchant ecommerce e operatori di differente natura (per sviluppare congiuntamente tecnologie o per espandersi commercialmente), l’affermazione di alcuni trend tecnologici (in primis assistenza vocale e chatbot) e la consacrazione delle principali ricorrenze ecommerce (Single Day, Black Friday e Cyber Monday)», ha spiegato Alessandro Peregodirettore scientifico degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano. «D’altro canto il 2017 è stato anche l’anno degli accesi dibattiti sugli effetti dell’online sul commercio tradizionale. Il successo di alcune iniziative ecommerce ha messo infatti a dura prova, in mercati più maturi dell’Italia, la sopravvivenza di alcune insegne della grande distribuzione tradizionale, tra cui quelle incapaci di progettare efficaci soluzioni ibride online – offline».

 

Prodotti vs servizi

Al di là di queste brevi considerazioni, i dati più importanti emersi dall’ultima edizione dell’Osservatorio riguardano senza dubbio quelli relativi al mobile commerce e alla categoria dei Prodotti. Per la prima volta l’acquisto di Prodotti online (pari a 12, 2 miliardi di euro, + 28% rispetto al 2016) ha infatti superato quello dei Servizi (11,4 miliardi, +7%), confermando un trend già in evoluzione negli ultimi anni e portando il paniere degli acquisti online più vicino a quello rilevato nei principali mercati più evoluti, dove i prodotti incidono per circa il 70%. Nonostante questo risultato, il settore predominante nell’ecommerce italiano resta quello del Turismo (9,2 miliardi, +7%), un settore che non rientra nella categoria dei Prodotti bensì dei Servizi.

Il settore merceologico con più acquisti fra i Prodotti è invece quello dell’Informatica ed elettronica di consumo con circa 4 miliardi di euro e un tasso di crescita del 28%, seguito subito dopo dall’Abbigliamento (2,5 miliardi, +28%), che cresce grazie al contributo del fashion e dei mass market, e da quei settori definiti emergenti, ovvero, ArredamentoHome Living e Food & Grocery che insieme valgono quasi 1,8 miliardi di euro. Chiudono il cerchio i prodotti editoriali (840 milioni di euro; +22%) e tutti quegli acquisti legati agli altri comparti di prodotto che valgono insieme 3,2 miliardi di euro, +27% rispetto al 2016.L’acquisto di prodotti genera circa 150 milioni di ordini all’anno con uno scontrino medio di 85 euro.

Come anticipato il settore del Turismo è quello che genera il maggior fatturato nel mercato ecommerce italiano, e ovviamente è il settore principale nella categoria dei Servizi. La crescita è riconducibile agli acquisti di biglietti per i trasporti ferroviari e aerei, alla prenotazione di appartamenti e case vacanze attraverso gli operatori della sharing economy e alla prenotazione di camere di hotel. Gli acquisti online nelle Assicurazioniraggiungono quota 1,3 miliardi di euro (+6%) e rimangono focalizzati sulle RC Auto. Tra gli “Altri Servizi”, che valgono circa 900 milioni di euro (+3%), rimangono importanti i contributi del Ticketing per eventi e delle Ricariche telefonicheL’acquisto di servizi genera circa 50 milioni di ordini all’anno con uno scontrino medio di 235 euro.

Un’interessante considerazione riguardo il rapporto Prodotti/Servizi e tasso di penetrazione degli acquisti online è quella esposta da Valentina Pontiggiadirettore dell’Osservatorio eCommerce B2c. «Il ritardo dell’Italia rispetto ai principali mercati ecommerce permane ed è riconducibile alla ridotta penetrazione nei comparti di prodotto e specialmente nel Food & Grocery (0,5%) — spiega Pontiggia —. Nonostante il fermento imprenditoriale degli ultimi anni, il settore non è in grado di garantire una copertura territoriale diffusa e omogenea sul territorio italiano: solo il 15% della popolazione infatti può effettuare online la spesa “da supermercato” con livello di servizio idoneo, mentre un altro 55% della popolazione ha un accesso solo potenziale all’ecommerce, tramite iniziative sperimentali, isolate e con limitata capacità.» Se quindi da un lato il Food & Grocery viene da tutti riconosciuto come il settore emergente del momento, allo stesso tempo è esso stesso la causa del ritardo dell’ecommerce italiano rispetto ad altri Paesi europei. Situazione che giustifica, quindi, tutti gli investimenti che le aziende italiane stanno effettuando in questo ambito e che fanno quella del Food una sfida determinante per il futuro a breve termine del commercio digitale in Italia.

 

Italiani sempre più mobile oriented

Per quanto riguarda il mobile commerce, nel 2017 un terzo degli acquisti ecommerce, a valore, si è concluso attraverso smartphone o tablet. L’incidenza di questi device è quintuplicata nel giro di 5 anni: nel 2013 la somma di tablet e smartphone valeva infatti solo il 6%. Ancora più significativa la crescita dello smartphone: il suo contributo è passato infatti dal 4% nel 2013 al 25% nel 2017. In valore assoluto, gli acquisti ecommerce da smartphone superano, nel 2017, i 5,8 miliardi di euro, con una crescita del +65% rispetto al 2016. L’importanza di questo canale per il consumatore è visibile in tutti i principali comparti merceologici: il tasso di penetrazione dello smartphone sul totale ecommerce sfiora o supera il 30% nella maggior parte dei settori di prodotto (Editoria, Abbigliamento, Informatica ed elettronica, Food&Grocery) ed è pari al 15% nel Turismo e al 5% nelle Assicurazioni.

 

La crescita dell’export

Nel 2017 l’Export, inteso come il valore delle vendite da siti italiani a consumatori stranieri, vale 3,5 miliardi di euro e rappresenta il 16% delle vendite ecommerce totali. I prodotti, grazie a una crescita del 19%, valgono 2,3 miliardi di euro e rappresentano il 67% delle vendite oltre-confine. La bilancia commerciale(Export – Import) nei prodotti è positiva, a differenza dei servizi, e vale 800 milioni di euro (+150 milioni di euro rispetto al 2016). L’Abbigliamento, grazie alla notorietà dei brand italiani e alle competenze digitali sviluppate da alcune Dot Com o boutique multi-brand nazionali, è responsabile del 65% dell’Export di prodotto. L’Export di servizi si ferma a circa 1,2 miliardi di euro, con un tasso di crescita sostanzialmente nullo, a causa di alcuni isolati fenomeni sfavorevoli legati ad attori del settore Turismo.

L’Export online è ben più significativo se, oltre alle vendite dirette da siti italiani verso consumatori stranieri, si considerano le vendite abilitate dagli “intermediari digitali” con ragione sociale straniera (siti delle vendite private operanti all’estero, marketplace stranieri e retailer internazionali). Se ai 3,5 miliardi di euro di valore delle vendite da siti con operatività in Italia a clienti finali residenti all’estero viene sommato il transato intermediato dalle tre tipologie di canali appena citati, l’Export digitale triplica il suo valore e raggiunge i 10 miliardi di euro.

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Di Max Da Via' (del 18/10/2017 @ 07:13:37, in Marketing, linkato 1454 volte)

Circa un anno fa, capitai per caso sui Navigli di Milano verso le 7 di sera. Era un giorno centrale della settimana, e per questo mi aspettavo, al contrario delle resse del weekend, un tranquillo viavai di persone alla ricerca di un locale dove fare aperitivo. Invece no. Una grossa folla intasava un Naviglio Grande sorprendentemente addobbato di rosso, e si concentrava in una arteria da dove proveniva una forte musica. Curioso, andai a controllare: un noto marchio di alcolici aveva brandizzato tutta la via, aveva organizzato un concerto la cui band suonava affacciata dai balconi del primo piano, e scontava pesantemente i drink che contenessero un ingrediente da lui prodotto. Di questa serata ne sentii parlare per un bel po’.

Le esperienze sono un grande stimolo per la memoria, ma non solo. Permettere a una persona di emozionarsi, divertirsi, o stupirsi attraverso un coinvolgimento vero, diretto, personale, e genera una profondità di contatto che è difficile instaurare attraverso uno schermo. Per questo motivo, molti brand stanno aumentando i loro sforzi sul campo del marketing delle esperienze. “È sempre più difficile avere successo attraverso l’advertising tradizionale. Nella confusione attraverso cui dobbiamo esprimerci, l’attention spam dell’utente è calato – ora è par a 6 secondi – e quindi come si fa a superare questi ostacoli e ispirare i consumatori?”, commenta il cmo di Mastercard, Raja Rajamannar.

 

Cosa si aspettano i brand

Nel mondo ideale, un brand offre un’esperienza per fare in modo che i partecipanti si divertano, parlino dell’evento sui social, lascino al marchio i propri contatti e abbiano una propensione d’acquisto più alta verso i propri prodotti. “Quello che l’advertising tradizionale fa in settimane, noi lo facciamo in un momento. L’experiential è un modo veloce ed efficace per generare brand awareness attraverso una connessione one-to-one con i consumatori. Coinvolge tutti e cinque i senso, stimolando emozioni che formano ricordi che rmangono, e che è stato dimostrato essere importanti per creare brand loyalty”, spiega Bryan Icenhower, president di IMG Live, agenzia esperienziale di WME | IMG. Stando a un report dello scorso maggio, condotto da Freeman e SSI, un cmo su tre allocherà tra il 21 e il 50% del suo budget su brand experience marketing nel periodo che va tra i prossimi 3 ai prossimi 5 anni.

“Molti marketer sono d’accordo nel dire che l’esperienza di brand generi loyalty. Abbiamo scoperto che circa il 60% dei cmo valuta la brand experience per la sua abilità di creare relazioni dirette con le audience chiave. Nove rispondenti su dieci sono convinti che la brand experience consegni una forte interazione face-to-face e un engagement più avvincente. Due terzi degli intervistati, poi, crede che questo mezzo sia molto efficace per raggiungere gli obiettivi di business”, commenta Chris Cavanaugh, cmo di Freeman.

 

Come misurano le campagne experiential

Ogni brand ha le sue metriche di riferimento. Mastercard e American Express, per esempio, hanno accesso a un gran numero di dati sui clienti, che gli permettono di essere più precisi nelle misurazioni. Ma la industry è generalmente d’accordo sul fatto che misurare le esperienze sia diventato molto più facile, e di conseguenza l’organizzazione di eventi sia più attraente. I brand dicono di essere passati, nel segmento di dati e misurazione, da un approccio passivo (sperando che un’esperienza sia così impressonante da postarla sui social) ad un approccio attivo (che include data points e tracking come una parte dell’esperienza, o l’integrazoine di sforzi social per fare in modo che le persone utilizzino hashtag e condividano la propria posizione), per garantirsi il possesso degli analitics che possano giustificare le spese sostenute per l’iniziativa.

Ma i marchi riescono a determinare con grande decisione anche le metriche che ritengono important, sebbene la misurazione dell’experiential rimanga una materia piuttosto nuova. “Non ci sono standard dettati dalla industry per questo tipo di marketing. Attualmente vediamo il gap di mercato come un’enorme opportunità e continueremo a investire in strategia, stetistiche e tecnologie per costruire modelli che possano adattarsi a clienti appartenenti a industry diverse. L’intera disciplina dell’experiencial funzionerebbe meglio se fosse regolata da una metodologia universalmente accettata, e speriamo di poter essere prima linea a richiederla”, dice Icenhower.

 

Metriche leggere o metriche pesanti?

Nonostante le discussioni sulle misurazioni, alcuni marketer sono convinti che per capire se un’evento abbia funzionato basti guardare la folla per farsi un’idea sull’effetto che l’esperienza ha creato, e quindi del riflesso di questo sul brand. “Il dato sta diventando un elemento centrale, e per il marketing esperienziale è molto bello avere sempre più informazioni. Ma un’esperienza ha anche un carattere emotivo, e questo è intangibile. A volte la miglior ricerca è guardare le persone in faccia e vedere come si stanno vivendo il momento. È un metodo corroborato per capire se sta funzionando”, dichiara Deb Curtis, vp of global partnerships and experiential marketing for American Express.

“È molto difficile avere una grande conversione alla vendita se non viene nessuno all’evento”, commenta Curmi, convinto che le metriche leggere (ovvero la risposta a domande come, cquanto sono contente le persone che partecipano? Vanno via con il sorriso? Ne parlano con i loro amici in modo positivo?) siano tanto importanti quanto le metriche pesanti (i veri e propri dati).

Rajamannar aggiunge: “Il marketing non è ancora una scienza esatta. Non è possibile quantificare tutto al 100%. Se si fa sorridere una persona è già qualcosa”.

 

Land Rover

Micheal Curmi, brand experience director di Jaguar Land Rover per il nord America, ha dichiarato che sia Land Rover sia Jaguar stanno lavorando sull’aumento degli sforzi experiential per quest’anno. “Parte di questa scelta è dovuta a dati migliori e alle migliori capacità di provare il valore delle esperienze rispetto al passato”. Nella fase organizzativa, va studiato un elemento social che renda tracciabile la reach dell’evento sulle piattaforme, che si va ad aggiungere al pubblico presente di persona, a quelli che hanno chiesto il contatto di un rivenditore o che hanno acquistato un veicolo. Una delle ultime iniziative di Jaguar ha sfruttato la VR per ricreare un inseguimento ad alta velocità in cui il protagonista è il consumatore. Questo tipo di interazioni rende gli utenti più propensi a condividere l’esperienza.

“L’experiential è l’unico modo per avere un’interazione fisica con il prodotto, offerta direttamente dalla compagnia, ed è anche uno dei pochi luoghi per avere un dialogo aperto con i consumatori. Quello che facciamo, è principalmente inviare messagg agli utenti e, durante gli eventi, parlare con loro, capire cosa ritengono più importante e avere conversazioni fatte di botta e risposta”, conclude Curmi.

 

M&M

Nello scorso maggio, M&M ha lanciato il suo nuovo prodotto al gusto caramello attraverso una campagna di experiential marketing, a Times Square (NY), che utilizzasse l’augmented reality. M&M’S ARcade, questo il nome dell’iniziativa, ha trasformato le decine di cartelloni presenti in zona in un’atmosfera da videogioco arcade, nel momento in cui le billboard venivano inquadrate dallo smartphone. L’hashtag a supporto, #UnsquareCaramel, è stato utilizzato più di 2200 volte su Twitter, totalizzando oltre 6 milioni di impression. In generale, l’iniziativa ha generato 466 milioni di impression fino a oggi.

“La condivisibilità attorno al marketing esperienziali è cambiata. I social hanno cambiato tutto perchè per avere successo è necessario creare contenuti con cui la gente interagisca. Senza alcun social ad amplificarne la portata, l’experiential avrebbe poco senso per noi”, spiega Andy Pharoah, vp degli affari corporate e delle iniziative strategiche di Mars, company parente di M&M.

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Aspettando l’introduzione dell’ad blocker nativo di Chrome, uno studio di OnAudience.com ha disegnato il panorama del blocco pubblicitario a livello statunitense. Il risultato non è certo incoraggiante. Circa il 26% degli utenti americani utilizza uno strumento che scherma la pubblicità, un numero in crescita se paragonato al 22% del 2016. Un aumento che ha portato gli editori a veder evaporare guadagni per oltre 15,8 miliardi di dollari, ben 4,8 in più dello scorso anno, in un mercato – quello della display – che negli States vale 45 miliardi di dollari.

 

Ad blocking worldwide

A livello internazionale, il dato è ancora più forte. Le revenue mancate a causa degli ad blocker raggiunge i 42 miliardi di dollari, un numero molto più alto dei 28 miliardi del 2016. Nei due anni, la display globale vale rispettivamente 100 e 84 miliardi di dollari. Un rapporto di eMarketer dello scorso marzo raccontava una situazione leggermente migliore, con un’adozione di strumenti di blocco adv in USA pari al 28% da desktop e 11,8% su mobile.

 

La situazione europea

È l’Europa, però, l’area geografica che più apprezza i software di ad blocking, segnando una penetrazione del 32%. Nello specifico, la Polonia è il paese in cui la pervasione è più pesante (46%), seguita da Grecia e Norvegia (42%), Germania (41%), Danimarca (40%), Olanda, UK e Irlanda (tutte e tre a 39%).

 

Il resto del mondo

Il Giappone registra tassi di utilizzo pari a quelli americani (26%), mentre nell’America Latina le percentuali si abbassano drasticamente. Il Paraguay è il paese con il più basso utilizzo (5%), seguito da Peru (13%) e Venezuela (10%).

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Di Max Da Via' (del 20/10/2017 @ 07:22:23, in Mobile, linkato 1491 volte)
L’uso delle applicazioni di messaggistica istantanea è diventata una consuetudine per gli italiani. Le chat moderne hanno sostituito gli SMS, poveri di funzioni, aggiungendo al testo, immagini, video, audio ed emoticons. Ecco perché hanno conquistato anche quella parte di popolazione che non vuole rinunciare alla ricchezza espressiva che i social media hanno introdotto, ma che, nel contempo, non desidera esporsi ad pubblico ampio ed indistinto (qui le statistiche sugli italiani che usano i social media).

Quanti sono gli italiani che usano le maggiori applicazioni di messaggistica?
In assenza di statistiche ufficiali, ma grazie ad una serie di dati in mio possesso, acquisiti da diversi provider, ho provato a stimare gli utilizzatori attuali (a gennaio 2017) per offrirvi un’informazione utile alle vostre strategie di marketing.

app messaggistica italia 2017

WhatsApp è usato da 22 milioni di italiani (mentre a livello mondiale ha 1,2 miliardi di utenti attivi al mese), in crescita del 19% rispetto allo scorso anno. Il servizio si è imposto sul mercato per la sua semplicità di utilizzo, basato su un meccanismo di iscrizione (basta avere un numero di cellulare) e di avvio (usa la rubrica telefonica quindi non bisogna costruire una rete di contatti) immediati.
Di conseguenza la sua base utenti è molto trasversale, dai più giovani ai più anziani, che lo usano in media 11 ore e 30 minuti a testa, ogni mese. Anche se tra gli heavy users, che usano l’app più volte al giorno, il segmento 15-24 è il più sviluppato (dati demografici emersi dalla survey Blogmeter).

Facebook Messenger viene usato da 15 milioni di italiani (nel mondo da 1,2 miliardi di utenti attivi al mese), con una crescita del 25% rispetto al 2016. La sua utenza è meno sviluppata perché inizialmente imponeva l’iscrizione a Facebook per poter essere usato. Infatti gli heavy user sono soprattutto quelli appartenenti alla fascia dei 25-44enni. Il tempo di utilizzo mensile per persona è di 1 ora, quindi se ne può dedurre che viene sfruttato per comunicazioni brevi intrapersonali e non per lunghe discussioni in gruppo (tipiche di WhatsApp).

Skype segue con 8 milioni di utilizzatori italiani, ma in decrescita del 16% (nel mondo ha 300 milioni di utenti mensili). L’applicazione lanciata nel 2003 e poi acquisita da Microsoft nel 2011, ha avuto successo tra i consumatori e le aziende per la qualità delle chiamate (inizialmente basate su tecnologia peer to peer), ma il suo utilizzo è meno immediato delle app pure di instant messaging (processo di iscrizione più laborioso). Gli heavy users sono nella fascia 25-44 e anche qui l’uso per persona si ferma ad 1 ora al mese.

A sorpresa, al quarto posto, si piazza Telegram usato da circa 3,5 milioni di italiani, in crescita del 150% rispetto allo scorso anno (nel mondo sono oltre 100 milioni). L’utenza più attiva è quella dei 15-24enni, che lo usano per le sue caratteristiche di segretezza (è stato il primo ad introdurre una criptatura end-to-end) e per la presenza di BOT, che automatizzano il delivery dei messaggi. Queste funzioni stimolano un’attività media di 2 ore e 30 minuti a persona.

Viber è usato da circa 1 milione di italiani, in calo del 40% rispetto al 2016 (ma nel mondo è apprezzato quanto da 260 milioni di persone). Lo zoccolo duro è composta da italiani di età 25-44 che lo usa per 1 ora e 50 minuti in media al mese.

Chiudono la classifica WeChat ustilizzato da 280.000 italiani (in calo del 25%) per ben 6 ore (probabilmente soprattutto dalla comunità cinese in Italia) e Windows Live Messenger usato da 150.000 persone per circa 5 minuti, in caduta libera dopo il successo iniziale.

In attesa dei vostri commenti vi consiglio, per non perdervi i prossimi aggiornamenti, di consultare periodicamente la pagina dell’Osservatorio Social Media per le statistiche italiane, la pagina Social Media Statistics per le straniere e di iscrivervi alla Newsletter.

Via Vincos blog
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Di Max Da Via' (del 24/10/2017 @ 07:27:26, in eCommerce, linkato 1478 volte)

Tra cinque anni il 18% degli europei comprerà l’auto online, mentre il 79% opterà per un approccio ibrido, usando il web in alcune delle fasi del processo d’acquisto e la visita in concessionaria per altre. Il restante 3% continuerà a fare tutto assieme al rivenditore, senza passare dal web: sono questi i principali risultati di un’indagine condotta da Motork e presentata nel corso di IAB Internet Motors (http://www.internetmotors.it), edizione speciale dell’evento di digital  più importante d’Europa, giunto alla quindicesima edizione.

IAB Internet Motors 2017 è stato organizzato da MotorK – azienda italiana che sta guidando in Europa l’innovazione della distribuzione auto – in collaborazione con IAB Italia, associazione leader a livello mondiale nel campo della pubblicità digitale, che ha permesso di fare il punto anche sui trend degli investimenti pubblicitari nel settore automotive.

L’indagine, condotta da MotorK nei cinque Paesi europei in cui opera (Italia, Francia, Spagna, Germania e Gran Bretagna), è stata compiuta incrociando i ritmi di crescita dei processi di digitalizzazione delle concessionarie con quelli relativi al comportamento dell’utente in tutte le fasi di ricerca e acquisto dell’auto: dalla ricerca di informazioni alla richiesta di preventivo, dalla trattativa con il concessionario all’acquisto vero e proprio.

Il processo di acquisto dell’auto è di fronte ad uno dei più cruciali momenti di cambiamento, che sta investendo il lavoro di produttori, distributori, consumatori e tutta l’industry digitale. I distributori automatici di veicoli e l’acquisto totalmente self service online non sono più solo fantascienza, e gli esempi non mancano nemmeno in Europa; questa prassi, però, è ancora lontana dall’imporsi come unica via: quello che si sta affermando sempre di più è un approccio che è simultaneamente, senza soluzione di continuità, online e offline.

«I concessionari hanno il tempo e gli strumenti necessari per affrontare questo epocale cambiamento di paradigma – dichiara Marco Marlia, fondatore e CEO di MotorK, società ideatrice di Internet Motors. – Il cliente sta chiedendo una semplificazione dell’esperienza, un sistema di post vendita con alti livelli di servizio e una maggiore flessibilità relativa al prodotto. Nei prossimi cinque anni dovremo lavorare assieme ai dealer per garantire un compiuto processo di digitalizzazione, più che necessario per intercettare quel 79% di utenti che non si negheranno l’esperienza offline».

La risposta del mondo della pubblicità a questo cambiamento non si sta facendo attendere: secondo gli ultimi dati Nielsen gli investimenti nel digital advertising del 2018 cresceranno del 9,4% rispetto all’anno precedente: ben più della media del mercato digital, che si fermerà al 7,9%.

«Vedere come la tecnologia sta trasformando l’acquisto di un bene come l’auto, storicamente molto legato a elementi tangibili come la visita in concessionaria o la prova su strada della macchina, ci dimostra ancora una volta quanto il digitale influenzi radicalmente ogni ambito della vita quotidiana.” ha dichiarato Daniele Sesini, Direttore Generale di IAB Italia. “Diventa sempre più importante, quindi, che tutti i player del digital advertising operino in un’ottica di evoluzione continua del mercato, riuscendo ad utilizzare le nuove tecnologie per andare incontro alle attuali e future esigenze dei consumatori, e per comunicare in modo sempre più efficace».

L’EVOLUZIONE DEL CUSTOMER JOURNEY

In un passato non troppo lontano comprare l’auto rappresentava un momento di forte stress per il consumatore. Questi poteva solo far riferimento a quanto affermato dal venditore, dal produttore e dai media specializzati. Oggi, i clienti “studiano” l’auto da acquistare molto prima di recarsi da un concessionario: grazie al web, tutte le informazioni di acquisto pertinenti sono disponibili con un clic (secondo gli ultimi dati Google il 53% delle ricerche di auto iniziano online e il 39% iniziano da un motore di ricerca*). Eppure, confusione, paura e frustrazione continuano ad essere i sentimenti prevalenti nel processo di acquisto: la prima regna in tutto il momento della scelta, la seconda la fa da padrone al momento dell’acquisto e la terza, infine, può emergere nella fase di possesso quando ci si preoccupa dei costi di gestione, assieme al rimpianto di aver sbagliato auto.

Via Tech Economy
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Di Max Da Via' (del 27/10/2017 @ 07:13:59, in Advertising, linkato 1573 volte)

Si dilata la quantità del nostro tempo consumato online. Le pubblicità, ovvero la  Digital Advertising, costantemente appaiono sui nostri browser. In rete si può comprare di tutto, addirittura, secondo un’indagine condotta da Motork e presentata nel corso di IAB Internet Motors, tra cinque anni il 18% degli europei comprerà anche l’auto online, mentre il 79% opterà per un approccio ibrido, usando il web in alcune delle fasi del processo d’acquisto e la visita in concessionaria per altre, mentre il restante 3% continuerà a fare tutto assieme al rivenditore, senza passare dal web.

E’ chiaro quindi che il modo di comprare, ma, soprattutto, di ricevere messaggi pubblicitari dal web, aumenterà in modo sostanziale nei prossimi anni.

La risposta del mondo della pubblicità a questo cambiamento non si sta facendo attendere: secondo gli ultimi dati Nielsen e un nuovo rapporto di Juniper Research, si è riscontrato che la spesa pubblicitaria digitale crescerà del 18% del tasso di crescita annuale (CAGR) nel corso dei prossimi cinque anni, passando da 184 miliardi di dollari nel 2017 a 420 miliardi di dollari nel 2022; le cifre includono la spesa pubblicitaria su mobile, desktop, indossabili e DOOH (Digital-out-of-Home).

E’ pur vero che tutta questa pubblicità online alla fine stanca l’utente medio, che, per contrastare l’incessante martellamento pubblicitario, installa sui propri browser degli ad blockers ovvero estensioni che si installano nel browser per filtrare le pubblicità.

Questo, chiaramente, porterà a delle perdite nel settore del Digital Advertising, ma, secondo il report Juniper Research, a causa dell'impatto dell'adozione del blocco degli annunci attraverso dispositivi desktop e l'uso crescente di dispositivi mobili come mezzo primario per la navigazione, si prevede che la crescita annua della spesa pubblicitaria in linea rallenterà solo del 4% a livello mondiale entro il 2022.

Secondo la ricerca, le piattaforme pubblicitarie cercheranno un maggiore grado di controllo sui tipi di annunci pubblicitari che vengono bloccati, grazie ad un maggiore utilizzo dell’AI (Artificial intelligence). Si prevede che entro il 2022 quasi il 75% di tutti gli annunci digitali utilizzerà l'AI come mezzo per il targeting degli utenti. In più, aumentando l'efficienza di targeting, utilizzando molti più dati, quali: geolocalizzazione, cookie di navigazione e cross-device identificazione, si farà in modo da fornire agli utenti finali annunci digitali altamente personalizzati.

Sicuramente le pubblicità rimarranno nei nostri browser per sempre, ma l’unico mezzo per sopravvivere sia al Digital Advertising sia a noi utenti circondati dalla pubblicità, sarà offrire annunci più personali e quindi più accettabili.

Via CorCom
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Di Max Da Via' (del 30/10/2017 @ 07:40:25, in Social Networks, linkato 1571 volte)

Le Pmi possono guadagnare con Facebook? Come lo spiega il social network nel report Future of Business Survey , realizzato in collaborazione con Ocse e Banca Mondiale. Già 70 milioni di imprese nel mondo utilizzano attivamente una pagina Facebook raggiungendo connessioni interessanti: «L’87% degli italiani presenti su Facebook hanno almeno una connessione con una Pmi italiana», dice Marco Grossi, senior manager di Facebook Italia, «e 143 milioni di persone nel mondo sono connesse con un’azienda in Italia tramite Facebook, quindi possiamo affermare che grazie all’utilizzo di Facebook e Instagram le imprese hanno effettivamente la possibilità di incrementare la propria crescita e lo sviluppo internazionale».

Come le pmi possono guadagnare con Facebook

Facebook è una risorsa non solo per le grandi aziende, ma soprattutto per quel 95,3% di Pmi italiane che ha meno di 10 addetti. Un terzo di queste non ha un sito internet, ma può farne a meno se ha una pagina Facebook ben gestita. Ma come si possono sfruttare al meglio le potenzialità di business offerte dal social network di Mark Zuckeberg? Innanzitutto con le campagne mirate. «L’algoritmo», spiega ancora Grossi, «consente di indirizzare una campagna agli utenti che presentano caratteristiche simili a quelli che sono già connessi a quell’impresa o che hanno già fatto acquisti di quel genere».

«Come dimostrato da un recente studio sulle Pmi italiane che sono sulla piattaforma», sottolinea Laura Bononcini, head of public policy di Facebook Italia, «una Pmi su 3 afferma di aver assunto più persone grazie all’aumento di domanda derivante dalla loro presenza digitale. Il dato è inoltre confermato dal fatto che il 70% delle imprese sostiene di avere aumentato il numero di clienti grazie a un utilizzo strategico di Facebook».

Campagne mirate e Messenger

Il prossimo passo sarà l'ottimizzazione della comunicazione con il cliente con Messenger: «Nei prossimi cinque anni la messaggistica sarà fondamentale perché attraverso i Bot si automatizzeranno sempre di più i customer service», aggiunge Grossi. In due anni le ore su Facebook le ore sono raddoppiate. E le 11 Pmi italiane che hanno partecipato alla survey ne hanno approfittato: : per far pubblicità verso nuovi potenziali nuovi clienti (78%), per mostrare i prodotti e servizi (78%), per dare informazioni (69%) e per comunicare con i propri clienti e fornitori (56%).

Un’altra novità di rilievo per Messenger è l'accordo siglato pochi giorni fa, che permette agli utenti di pagare con PayPal attraverso il servizio di messaggistica. Il servizio è partito negli Stati Uniti e per ora solo su dispositivi Apple, ma sarà presto esteso ad Android e a tutto il resto del mondo. «Questo consente, in pratica, di fare acquisti direttamente su Facebook», chiarisce Grossi.

Via Business People
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Di Max Da Via' (del 02/11/2017 @ 07:29:02, in Marketing, linkato 1493 volte)

Dopo anni di acquisti in contrazione, gli italiani sotto gli “anta” tornano a spendere di più per i prodotti di largo consumo. A confermarlo è una recente indagine Nielsen che evidenzia anche come l'approccio dei Millennials alla spesa non si basi affatto sulla routine.

Le famiglie giovani – quelle con figli sotto i 17 anni, ma non tutti superiori ai 10 anni – fanno registrare un aumento della spesa media del +2,5%. I single e le coppie under 35 senza figli diminuiscono invece il valore della singola spesa (-0,7%) compiendo atti d’acquisto sempre più frequenti (+2,1%).

Entrambi i trend confermano il crescente impatto che gli acquisti alimentari hanno sull’andamento del settore fmcg. La riscoperta del cibo salutista, infatti, sta trainando il largo consumo ed è diventata un vero e proprio investimento: il benessere è una nuova forma di sicurezza.

Il trend relativo ai Millennials senza figli è interessante anche per un altro motivo. I ventenni e neo-trentenni effettuano la loro spesa tra le due e le tre volte a settimana, visitando punti di vendita differenti e, sempre più spesso, specializzati. È evidente che la scelta dei momenti e dei luoghi in cui acquistare i prodotti di largo consumo stia diventando – per citare Bauman – liquida.

I Millennials acquistano di più online, al tempo stesso si recano più frequentemente nei piccoli negozi di alimentari, nei discount, negli specialisti drug e partecipano ai Gruppi di Acquisto Solidale nella propria zona. Sono propensi ad attivare fonti d’acquisto diverse, a seconda del bisogno del momento e della “convenience”.

Come dicevamo, quindi, niente routine: la scelta del punto vendita dipende da un mix fattori, tra i quali la prossimità, la convenienza economica e la qualità/innovazione dei prodotti offerti.

Via Mark Up
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Di Max Da Via' (del 03/11/2017 @ 07:03:00, in Retail, linkato 1696 volte)

Le manovre di Walmart sul versante pubblicitario hanno una direzione ben precisa: posizionare il brand come media platform. L’obiettivo è controllare i dati delle transazioni dei consumatori, utili alle marche per fare retargeting sul sito walmart.com. A fare la differenza è principalmente la presenza diffusa degli store fisici, che rappresentano il tassello mancante per diventare un retail media, capace di fare da ponte tra online e offline.

Walmart sta facendo valere questa sua combinazione come elemento differenziante da Amazon, che si sta affermando come elemento di disturbo sul bipolio composto da Facebook e Google. Cresce il numero di meeting con i buyer, così come le learning session e i summit organizzati per brand e agenzie.

 

L’espansione digitale

La catena di ipermercati ha oltre punti vendita, e l’ecommerce nel secondo trimestre ha segnato una crescita del 50% rispetto all’anno precedente, stando ai dati della Securities and Exchange Commission. Le vendite online sono una piccola parte dei 486 miliardi di dollari che annualmente il marchio di grocery segna a bilancio annualmente, ma gli ad buyer sono convinti che le acquisizioni di siti come Jet.com, Bonobos, Moosejaw e ModCloth indicano un inevitabile incremento di sforzi nella direzione dell’online. In effetti, la maggior parte degli acquisti da retail cominciano con una ricerca online, e se Walmart riuscirà ad essere l’indirizzo di un numero maggiore di query sarà in grado di intercettare una fetta più grossa di traffico di valore.

 

La piattaforma pubblicitaria

Walmart Exchange utilizza un’infrastruttura programmatic combinata con i dati sulle vendite in-store per targetizzare le ads via private marketplace e ad exchange. Offre inoltre formati display su desktop e mobile, e native all’interno della shopping experience. È disponibile anche qualche opzione più tradizionale, come paid search e product listing ads, e un’estensione dell’audience attraverso le ads co-branded. I brand, in altre parole, possono targetizzare gli shopper per i loro comportamenti, attraverso ads dentro e fuori il portale Walmart.com. Opzione adottata lo scorso luglio anche da Amazon, nella sua opzione “Audience Match”.

L’efficacia della piattaforma di Walmart non è facile da valutare. Alcuni buyer dicono che il ROI non c’è, o è addirittura negativo, oltre che il back end manca di sofisticazioni. Altri buyer affermano di aver ravvisato una buona efficacia, ma Walmart fa capire ai brand che perchè la loro pubblicità funzioni devono negoziare, ad esempio, gli spazi sugli scaffali. La catena della gdo organizza i “WMX Summit”, a cui invita brand e agenzie e nei quali gli ad executive rivelano i nuovi tool a disposizione degli inserzionisti.

Walmart non si occupa direttamente della sua piattaforma, ma se ne incarica Triad Retail Media, un gruppo che fa parte di WPP e aiuta il brand a vendere ads e lanciare promozioni di prodotto.

 

Gli altri retail media

Oltre a Walmart, brand come Amazon e company come Kroger, Overstock e Nordstorm stanno inseguendo l’obiettivo di diventare veri e propri retail media, riconoscendo il campo pubblicitario come piuttosto redditizio (soprattutto per i margini di revenue stream). La storia è semplice: i brand sanno cosa le persone cercano e comprano: quindi, la ad platform può offrire agli altri marchi targeting e analytics più sofisticati.

“Ogni retailer sta costruendo una vendor marketing platform. È un passaggio da un ad network che sia una commodity a un canale premium che rappresenta un beneficio per shopper e advertiser”, afferma Alex Sherman, founder di Spotfront, società che lavora con i retailer sulla costruzione del brand.

Via 360com
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Di Max Da Via' (del 06/11/2017 @ 07:27:38, in Digitale, linkato 1708 volte)

Non è una novità, abbiamo già parlato di tutti i professionisti digitali che mancano alle aziende europee e ancor più italiane (e che allo stato attuale mancheranno sempre di più). A svelarci dati recenti e aggiornati in proposito è il report The Digital Talent Gap—Are Companies Doing Enough?, realizzato da Capgemini in collaborazione con LinkedIn.

La ricerca ha analizzato la domanda e l’offerta di lavoro relativa ad esperti con specifiche competenze in ambito digital e la disponibilità di posizioni digital all’interno di diversi settori e Paesi. A seguire i punti fondamentali emersi (globali e in dettaglio per l'Italia) di un grande gap.

Principali evidenze:

  • Tra le società intervistate a livello globale, più di una su due (55%) riconosce che il gap sulle competenze digitali si sta espandendo, in Italia questo dato si ferma al 43%.
  • Più della metà (54%) delle aziende mondiali è d’accordo sul fatto che questo divario stia ostacolando i loro programmi per la digital transformation e di aver perso il loro vantaggio competitivoproprio a causa della carenza di talenti digitali.
  • Sebbene il divario in termini di competenze digitali si fa più ampio, i budget per la formazione digitale sono rimasti invariati o hanno addirittura subito un calo in oltre la metà (52%) delle aziende.
  • Il report evidenzia il fatto che quasi il 50% dei lavoratori (percentuale che raggiunge il 60% per quei dipendenti con competenze digitali) sta investendo sia denaro che tempo libero propri per acquisire competenze digitali.
  • Molti degli attuali dipendenti sono preoccupati dal fatto che le proprie competenze siano ormai superate o che lo stiano per diventare. Complessivamente, il 29% dei lavoratori ritiene che siano già superate o che lo diventeranno entro due anni, mentre per oltre un terzo di loro questo succederà tra 4-5 anni.
  • Da un punto di vista di settore, dal report si evince che il 48% dei lavoratori del comparto automobilistico pensano che le loro competenze diventeranno superflue nei prossimi 4-5 anni, seguiti da quelli dei settori bancario (44%), delle utility (42%), delle telecomunicazioni e assicurativo (entrambi al 39%).
  • Più della metà dei dipendenti con competenze digitali (55%) afferma di essere disposto a trasferirsi in un'altra azienda nel caso in cui dovesse avvertire che le proprie capacità digitali siano in una fase di stallo presso l’attuale datore di lavoro. Allo stesso tempo, è probabile che quasi la metà dei dipendenti (47%) si indirizzi verso quelle aziende che offrono migliori possibilità di sviluppo di queste competenze.

I dati per l’Italia:

  • In Italia, il 43% delle società intervistate riconosce che il gap sulle competenze digitali si sta espandendo.
  • Il 43% delle aziende italiane afferma che questo divario stia ostacolando i programmi per la digital transformation
  • Il 34%, inoltre, afferma di aver perso il proprio vantaggio competitivo a causa della carenza di talenti digitali
  • Il 55% dei lavoratori (il 66% per quei dipendenti con competenze digitali) sta investendo sia denaro che tempo libero propri per acquisire competenze digitali.
  • Il 25% dei dipendenti italiani ritiene che le proprie competenze siano già superate o che lo diventeranno entro due anni, mentre per il 48% di loro questo succederà tra 4-5 anni.

La top 10 dei ruoli digital che nei prossimi 2-3 anni diventeranno i più significativi:

  • Information Security/Privacy Consultant
  • Chief Digital Officer/Chief Digital Information Officer
  • Data Architect
  • Digital Project Manager
  • Data Engineer
  • Chief Customer Officer
  • Personal Web Manager
  • Chief Internet of Things Officer
  • Data Scientist
  • Chief Analytics Officer/Chief Data Officer

Per rispondere a questa problematica si stanno progressivamente sviluppando alcune soluzioni. Tra queste la start-up GeekandJob, creata per aiutare le aziende a trovare programmatori e data scientist di talento.

Via Mark Up
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